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Recensione: Good Riddance – Thoughts and Prayers

More thoughts, less prayers

Dopo ben quattro anni, ecco tornare alle luci della ribalta i Good Riddance, tra gli alfieri di quell’ hardcore melodico che ha toccato l’apice del proprio successo a cavallo tra gli anni ’90 e la prima decade del 2000, ma che non è mai passato di moda nel cuore e nella mente di gran parte del pubblico. Fedeli alla linea, anche quando non c’è, nel vero senso del termine: consolidando il sodalizio ormai più che ventennale con la Fat Wreck Chords di quel simpatico amante del Campari di Fat Mike, il quartetto originario di Santa Cruz riprende le fila del discorso lasciato in sospeso nel precedente Peace in Our Time (uscito sempre per Fat Wreck nel 2015 n.d.a.) che a sua volta ruppe il silenzio di una pausa che durava da ben 9 anni, pur interrotto da un live album Remain in Memory – The Final Show.
La ricetta è apprezzata ed amata da più di venticinque anni, un hardcore melodico tutt’altro che scanzonato, ma robusto ed incisivo. Potenti e coscienti di veicolare dei messaggi, questo sono e sono sempre stati i Good Riddance: molto più che un semplice gruppo da festival estivo o da colonna sonora.
Già i primissimi secondi del disco mettono le cose in chiaro, puntando immediatamente il dito verso uno dei drammi della post-modernità, ovvero l’oligarchizzazione dei capitali, delle risorse e, conseguentemente, delle stesse vite umane nelle mani di soggetti anch’essi sempre più impersonali ed impalpabili, sfuggenti ma imponenti nello stesso tempo. Tutto questo incastonato in un sound che certamente non farà rimpiangere i loro album più classici ed iconici (A Comprehensive Guide to Modern Rebellion o For God And Country, giusto per citarne un paio n.d.a.) per quanto indubbiamente risulti un lavoro più maturo e meno selvaggio; ma c’è molto più di questo. L’album è molto ben concepito: a delle pure e semplici sassate hardcore come Rapture, Our Great Divide e la potentissima No King But Caesar (forse la mia preferita del disco n.d.a.) corrispondono quasi specularmente episodi più melodici quando non addirittura più ritmati e riflessivi, da Wish You Well a No Safe Space, che rappresenta il momento più morbido – per così dire – di tutto l’album. Spicca, inoltre, il penultimo pezzo Lo Que Sucede, cantato in un interessante dualismo tra spagnolo e inglese. Personalmente, ascoltandolo mi sono immaginato non più sbracato a letto con una Moretti sul comodino ed il computer in bilico sulle gambe, ma fluttuante su un’onda di mani, braccia e teste, madido di sudore, l’indice puntato al cielo ed un sorriso da imbecille stampato in faccia. Quindi immagino che anche i meno perspicaci di voi possano capire che il disco mi piace parecchio.

Recensione a cura di Rashad

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