Recensione: Minoranza Di Uno – La Storia Si Ripete
Nuovo album della Minoranza Di Uno: make punk a threat again
“L’arte è il cardine. All’apparenza insignificante, “la libertà di espressione creativa” è un depistaggio, una copertura, uno stratagemma, un’operazione sotto falsa bandiera. Sostenere l’inalienabile diritto dell’arte a essere, dire e fare qualsiasi cosa, è un trucchetto ordito dai signori del Capitale che ha implicazioni assurde e insidiose. È così che l’arte – al posto di essere uno scudo, un’arma, un manifesto politico impugnabile dai diseredati senza altre risorse – si è trasformata in una gloriosa fuffa la cui salvaguardia è affidata agli scagnozzi di uno Stato militarizzato. Sostenuta da straprivilegiati, incoraggiata da debosciati cosmici. Che senso ha difendere questa bestia? E cos’è diventata la bestia a furia di farsela con loro? L’arte non è pura sensibilità, né tanto meno è priva di scopi o conseguenze. L’arte sta in trincea, combatte per una visione, in maniera implicita o esplicita. E, soprattutto, l’arte incita alla violenza.” (“Censura Subito!!!”, Ian Folke Svenonius)
Cito Svenonius per ritemprare l’idea che dobbiamo riappropriarci di ciò che è nostro (il noi è inteso come classe proletaria) e sputare sui simboli e gli emissari della borghesia. Buttate nella pattumiera quel vinile degli Offspring e dei Green Day e piuttosto sfoderate dischi come quello oggetto di questa recensione. Dietro non ci saranno mai i milioni spesi per la produzione, ma di certo c’è un’anima. Questo per alcuni rappresenta un fatto increscioso, un prodotto patinato e tirato a lucido è certo più bello da sfoggiare in società e in famiglia, ma alla lunga il tempo lo divorerà per sostituirlo con qualcosa d’altro altrettanto lezioso. Affrontate le vetrine del Capitale e decolonizzate la vostra mente, censurate il pattume che ci viene rovesciato sulla testa dai grattaceli dei ricchi, anche quando veste una sottile mantellina di impegno sociale opportunista. Non abbiamo bisogno dei loro palchi immensi in cui lavorano operai sfruttati, rischiando tutto per imbastire un pietoso spettacolo di luci e musica priva di nerbo.
La buona prassi: make punk a threat again. Specialmente in un periodo storico come questo, in cui abbiamo l’urgente necessità di nuovi Rondos e Crass che facciano da megafono alla lotta e alle nostre istanze. Compagni, prendete la falce e prendete il martello, insozzate di A cerchiate i simboli del potere dei nuovi Nosferatù (cit. “…Hanno cambiato faccia”), inondate di “Libretti rossi” i bookcrossing e le biblioteche. Decantate dai vostri microfoni la rivolta, fate sì che le vostre chitarre inneggino all’insurrezione, restituite alla musica il suo lato politico e ribelle! Il capitale strozza ogni singolo minuto delle nostre vite, perché dargli una mano ad atrofizzare le nostre menti? Restituiamo la musica al popolo, che brucino i grandi palchi dei Linkin Park e dei loro compari. Viva i Minoranza di Uno, punta di diamante della musica proletaria del Friuli.
L’unico motivo per cui il punk è riuscito a superare i primi anni ’80 senza squagliarsi del tutto è il suo lato politico, sociale e di lotta contro l’esistente. Senza di questo non sarebbe andato molto più lontano dell’ultimo album dei Clash e ora sarebbe catalogato come fenomeno di costume giovanile temporaneo incanalatosi nella New Wave e figurerebbe in particolare nei libri di moda. Non è andata così, grazie a quei ceffi con le creste che si vestivano di nero e parlavano di anarchia e socialismo nelle loro canzoni.
I Minoranza di Uno sono stati fondati proprio da alcuni di questi ceffi, di quelli che alzano il pugno contro l’ingiustizia e non hanno paura di denunciarla. All’attivo oltre a questo lavoro hanno diversi split con Labile, Alldways e L’Ordegno, oltre che il CD d’esordio, e se vi state chiedendo dove incontrare questi eredi di Camus e Sartre, vi rispondo che non avete che da andare là dove si lotta.
L’album è composto da sei pezzi e ciascuno di essi è un colpo di P38 esploso contro l’opulenza delle vetrine del centro città. Poesia e militanza si uniscono in un connubio che strazia la coltre di apatia delle menti dei nostri contemporanei con il tramite delle canzoni e di un muro di suono fatto bene: gli strumenti d’altronde sono solamente un pretesto per farsi ascoltare da chi pretende d’esser sordo. Il primo pezzo, monologo con chitarra in sottofondo, ha come fulcro le meravigliose parole del Majakóvskij della band, che di nome non fa Vladimir ma Beppe. Poi dal secondo si comincia con l’hardcore punk di vecchio stampo, fedele ai Kina e alla linea, e dobbiamo munirci di booklet per non perderci nemmeno una sillaba (ma non temete, i testi sono chiari e ben scanditi). Non stupisce la presenza di una cover, con sviolinata a sorpresa nel finale, del “Galeone”, un classico scritto in origine dallo scrittore partigiano e anarchico Belgrado Pedrini, condannato all’ergastolo nel dopoguerra per aver lottato contro il regime fascista.
Questo piccolo disco non sarà mai l’album dell’anno, del mese o della settimana. Ma è un disco con un’anima. Un’anima unica, affine a molte altre vorticanti nel panorama basso della scena musicale, dell’underground. Musica semplice, ma la cui poesia, dal monologo della prima traccia al “Maledetti!” che fa da epilogo all’ultimo pezzo, sbaraglia lo star system e il suo carrozzone fasullo che assurge a fatale menzogna e inganno, la cui anima è stata strappata a forza di banconote. Qui c’è l’essenza: del punk, dell’esistenza, della rivoluzione, della classe operaia. E soprattutto c’è l’orgoglio di chi non si è ancora arreso a questo stato di cose. Grazie ragazzi.
“Se uno lancia un sasso, il fatto costituisce reato. Se vengono lanciati mille sassi, diventa un’azione politica. Se si dà fuoco a una macchina, il fatto costituisce reato. Se invece si bruciano centinaia di macchine, diventa un’azione politica. La protesta è quando dico che una cosa non mi sta bene. Resistenza è quando faccio in modo che quello che adesso non mi piace non succeda più.”
Della rivoluzionaria comunista, guerrigliera e giornalista Ulrike Meinhof, citazione d’obbligo contenuta in “Meno di uno”
Recensione di Alessio Ecoretti
Listen to the full album on Pirate Crew Underground!

