Joy Division – Unknown Pleasures: “Io non ho più paura”
Riflessioni di Marco Pandin sul grande classico dei Joy Division -Unknown Pleasures
Quando era uscito, estate del 1979, avevo 21 anni e nessun altro disco prima mi aveva sbattuto in faccia in maniera così precisa, determinata e diretta tutto quello che non andava tra me e il resto del mondo. Era la descrizione perfetta del mio disordine interiore: quel sapersi mal sintonizzati, quel continuo sentirsi con la testa piena di cose sbagliate, nel posto sbagliato al momento sbagliato e non poterci fare niente. C’era proprio tutto lì dentro: sembrava che ogni canzone di quel disco me l’avessero strappata di dosso, come se l’avessero scritta mettendoci dentro dei pezzi del mio stomaco, dei miei ragionamenti, dei battiti del mio cuore, dei miei brutti sogni, del mio disagio e del mio malessere.
Era proprio strano avere vent’anni a Mestre, crescere e formarsi lontano dall’Inghilterra dall’America da Berlino cioè da quei posti dove stando ai giornali sembrava stesse succedendo tutto. Il nordest era una specie di periferia sconfinata e triste rimasta sospesa fra nebbia invernale e estati calde dove si veniva su storti, strani, perennemente spaesati fra la campagna che stava sparendo e il cemento e l’asfalto che avanzavano. Ma per fortuna Venezia era a portata di autobus, allora non ti mandavano via se ti sedevi con un libro per terra alle Zattere a prendere il primo sole. A Venezia accadevano cose importanti, alla Biennale fra cinema, mostre e concerti potevamo andare a sentire musiche strane e inusuali, andavamo a sbirciare come sarebbe stato il domani.
Durante gli anni delle superiori andavo spesso alla Fenice perché le prove generali erano accessibili gratuitamente, e c’erano riduzioni importanti per gli studenti universitari tipo biglietti a neanche mille lire per “Einstein on the beach” di Philip Glass. Anche senza soldi in tasca a Venezia ho potuto ascoltare di tutto, da Wagner a Schönberg a Jon Hassell, ho visto danzare Carolyn Carlson e pure mi sono annoiato a morte davanti a Anthony Braxton o per l’allestimento di “The civil wars” di Bob Wilson.
Il problema però è che i musicisti di solito vengono, suonano e se ne vanno via – mentre noi restiamo qua. Dopo un’ora o due di evasione, ci si ritrova ancora a sprofondare nella solita merda di sempre. Il lavoro che non si trova se non in nero, la frustrazione del non riuscire a mettere assieme un po’ di futuro, i casini a casa a scuola per strada dappertutto.
Trovo che lasciarsi attrarre da musiche diverse sia un allenamento importante, una specie di esercizio zen che mi aiuta a riflettere, a immaginare, ad alimentare i sogni e a sviluppare e liberare la fantasia. Sogni e fantasia che per molte ragazzi e ragazzi come me, accomunati da povertà e disperazione, sono state allora l’unica possibilità a buon mercato per continuare a respirare. Forse è per questo che abbiamo attribuito così tanta importanza alle musiche, alle canzoni, alle poesie, ai disegni: erano ciascuna una via d’uscita attraverso la notte per vedere cosa sarebbe successo il giorno successivo. Allora i dischi noi li si ascoltava spesso in branco, a casa di qualcuno: mezz’ore intere seduti zitti a rimuginare tenendo gli occhi bassi, come concentrati in meditazione, un respiro profondo e un’occhiata veloce in giro a incontrare altri sguardi giusto il tempo di girare il vinile dall’altra parte poi un’altra mezz’ora di apnea.
Molto spesso dentro alle copertine dei dischi non ci trovi niente: se credi a quello che ti dicono i giornali e le radio dovrebbe esserci la rivoluzione, e invece c’è solo un pezzo rotondo di plastica da consumare. A volte però succede che dentro al cartoncino della copertina di un disco, dietro al disegno, alla grafica raffinata, si nasconda un mondo. Una terra nuova tutta da esplorare. “Unknown pleasures” è un quadrato nero senza nomi né foto, solo un disegno complicato da interpretare. Al primo sguardo si è indecisi fra una qualche formazione rocciosa e un tratto di elettroencefalogramma – solo dopo si è saputo che sono le onde radio emesse da una pulsar. E’ un quadrato nero che sembra verosimilmente una porta.
Questa è “Interzone”:
Giù lungo le strade buie
Le case si presentavano allo stesso modo
Sta diventando più buio
Le facce si presentano allo stesso modo
E ho camminato in tondo, mi sono aggrappato a un treno
Niente stomaco, distrutto, ho dovuto cambiare idea
Stavo tentando di trovare una traccia
Un modo per uscire
Stavo tentando di andare via
Me ne sono dovuto andare e restare fuori.
A volte succede che la musica rimbalza fra le pareti della stanza, resta dentro a sporcare i muri della sua eco, si attacca al soffitto si nasconde negli angoli e non se ne va più via. A volte succede che le canzoni escano fuori dalle finestre come farfalle, come rondini, come fumo, come spettri. Questa è “I remember nothing”:
Eravamo estranei
Siamo stati estranei per troppo tempo
Per troppo tempo
Violenti, violenti
Estranei
Mi indebolisco tutto il tempo
Possa il tempo semplicemente passare
Io nel mio mondo e tu lì vicino
I buchi sono enormi
Restiamo a guardarci uno di fronte all’altro
Siamo stati estranei per troppo tempo.
E questa è “Insight”:
Sì, abbiamo sprecato il nostro tempo
In realtà non avevamo tempo
Ma tutti ricordiamo la nostra giovinezza
E tutti gli angeli facciano attenzione
E tutti voi giudici fate attenzione
Figli del caso, fate molta attenzione
Per tutti quelli che non ci sono
Io non ho più paura
Non ho più paura.
Le canzoni di “Unknown pleasures” raccontavano di qualcuno che stava tornando da una qualche guerra, mi chiedevo, o parlavano piuttosto di noi, di noi ragazzi, dei nostri vent’anni, del nostro disorientamento, del peso e della fatica non dico di invecchiare ma di crescere, di trovare il nostro posto nel mondo? Come mai quei ragazzi di Manchester, mille chilometri e passa da casa mia, miei coetanei, erano riusciti a spalancare gli occhi ed arrivare così lontano oltre l’orizzonte? Come mai io e i miei compagni eravamo invece così ciechi, tutti lì a brancolare nel nostro buio familiare umido e tiepido, così miseri a crogiolarci nella nostra solitudine, nelle nostre stanze senza uscite, così persi e disperati nelle nostre periferie – grigie come piombo, e grigie come le loro?
Ecco, volevo farvi una foto di come mi sentivo, ma viene fuori tutta nera.
Marco Pandin
stella_nera@tin.it
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