The gang – Tribes’ Union: L’unione delle tribù, dalle cantine alle strade attraverso il vinile e le fanzine

Marco Pandin ci racconta della nascita della fanzine RockGarage e dell’incontro con i Gang

Il primo viaggio a Londra è stato molto importante per me: a ventitre anni, lontano da casa e alle prese con un ambiente del tutto nuovo, sono riuscito a misurarmi con me stesso, ad aprire gli occhi sulle mie capacità e prenderne coscienza. Lì avevo incontrato un sacco di ragazze e ragazzi come me che sull’onda lunga del punk si davano da fare e si inventavano cose, creandosi un mondo di possibilità sia agendo da soli che organizzandosi in piccoli gruppi informali. E’ stato così che mi sono messo a pensare: perché non io, perché mai non potrei fare lo stesso? Perché continuare ad aspettare? Perché non provare a far succedere qualcosa? In un primo momento avevo pensato di rimettere insieme il vecchio gruppo con cui suonavo, ma ci sarebbero state troppe difficoltà – non ultimo il nostro stile, secondo me era passato molto rapidamente di moda. Ci ho riflettuto a lungo e così, poco dopo il mio ritorno a casa, tarda estate del 1981, ho coinvolto parecchi dei miei amici e compagni nel progetto di una fanzine. Sapevamo che ne venivano fatte a Bologna, a Roma, Milano, Torino ma non ce n’era mai stata una a Mestre, Venezia e dintorni. A tutti noi piaceva ascoltare musica, eravamo da tempo coinvolti come collaboratori nel giro delle radio libere della zona e c’era chi cantava e suonava, da solo o in un gruppo. C’era anche chi amava scrivere e chi amava disegnare, ma erano cose che si preferiva non mostrare in giro – la nostra creatività un po’ ci spaventava, era il nostro lato oscuro.

Con quei miei amici strani mi trovavo bene: eravamo cresciuti introversi, tutti storti e problematici, in quartieri dov’era facile farsi del male. Ci ritrovavamo alle prese con un passato che molto spesso non sapevamo comprendere, con un futuro di merda davanti e incastrati in un presente instabile che sembrava stesse per crollare da un momento all’altro. L’orientamento generico prevalente fra i nostri coetanei era quello di finire gli studi, trovare un lavoro e una fidanzata, metter su famiglia, fare figli eccetera. Sistemarsi, in una parola. Noi invece eravamo differenti, e in qualche modo consapevoli di essere completamente fuori posto nel mondo: ce l’avevamo scritto in faccia che eravamo degli sfigati e non ce ne fregava niente di mettere la testa a posto, di fare i bravi o fare le cose giuste. La gente pensava fossimo solo dei disgraziati, sbandati, punks, fancazzisti, emarginati, pendagli da forca, teppisti, pericolosi, bastardi, drogati, segaioli, schiuma della società. Era tutto falso. Era tutto vero.
Ricordo che buona parte dell’acconto per il primo numero della fanzine l’abbiamo pagata al tipografo grazie, diciamo così, alla nostra faccia tosta. Un pomeriggio ogni settimana prendevamo di mira un paio di strade in un quartiere sempre diverso così da non essere sgamati subito, suonavamo ai campanelli e ci presentavamo sorridendo alle porte come volontari della parrocchia addetti a ritirare la carta straccia – giornali vecchi e cartoni che poi rivendevamo a uno straccivendolo. Eravamo dei ladri, dei farabutti che accettavano anche gli spiccioli delle elemosine dei vecchi, lo so. Aggiungendo al bottino quanto si raccoglieva in giro a forza di collette ci abbiamo messo qualche mese per rastrellare soldi e ragionamenti, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Il primo numero di Rockgarage è uscito a febbraio del 1982, ed è stato una grande colossale enorme sega collettiva: ci abbiamo ficcato dentro tutto quello che ci sarebbe piaciuto trovare nel nostro giornale ideale, ma tenendo noi stessi completamente fuori da quelle pagine. Ce ne siamo accorti molto presto di quanto i nostri desideri fossero stati colonizzati dall’America e dall’Inghilterra, così già la seconda uscita è stata qualcosa di più personale, e la terza ancora più caratterizzata: stavamo imparando, e lo abbiamo fatto da soli. 

Non eravamo affatto organizzati e non ci interessava esserlo. All’inizio abbiamo fatto qualche riunione innocente in una stanza libera alla radio, ma ci hanno presto cacciati in malo modo – ci avranno senz’altro scambiati per punks, una cellula neofascista in una radio rossa. Abbiamo aperto una casella postale per poter dare un qualche riferimento ma non avevamo una sede, un archivio, un posto nostro dove poter mettere la posta che arrivava. La redazione era uno scatolone di roba che si accumulava a casa mia, un altro scatolone a casa di un qualcun altro, e così via. Era tutto posticcio, improvvisato, provvisorio e tanta roba andava persa. Per mettere insieme un numero ci si trovava ad ascoltare dei dischi a casa di qualcuno, o si passava una mezza giornata in spiaggia oppure un finesettimana di campeggio libero da qualche parte in montagna. Non servivano ore e ore di discussione e non c’è mai stato bisogno di litigare perché ogni volta si riusciva a trovare posto per tutto e per tutti. Non avevamo una distribuzione organizzata, solo la solidarietà intermittente di qualche libreria e negozio di dischi. In zona potevamo contare su un branco variabile di sostenitori che ci aiutavano a diffondere Rockgarage ai concerti, alle code al cinema e a teatro, davanti e dentro alle scuole, per strada. Tanta gente mandava lettere con dei soldi nascosti nelle buste e le fanzine gliele spedivamo via posta. 

Nessuno di noi si voleva arricchire o ritagliare una qualche posizione di capobranco: sono convinto sia per questo preciso motivo che siamo rimasti ai margini della scena, anzi che dalla scena ci siamo ritrovati chiusi ben fuori. Ma il signor padrone già ci aveva intercettati e ci stava studiando: partendo dal niente, senza nessuna esperienza né velleità imprenditoriale e senza un qualche canale di distribuzione ufficiale vendevamo migliaia di copie di un giornaletto del cazzo, e lo facevamo relativamente senza sforzo. Sembrava avessimo individuato una nuova fetta di mercato specifica per giovani consumatori appassionati di musica alternativa, affamati di controinformazione e politicamente impegnati sì ma in forma non troppo ortodossa, e ne stessimo saggiando e sfruttando le potenzialità.
Mi sono ritrovato un giorno a rifiutare i soldi – ed erano tanti – di un’agenzia di tendenza, spumeggiante e tentacolare, che voleva a tutti i costi occupare le quattro pagine centrali del nostro giornale: sentivo che poi, con ogni probabilità, avrebbero tentato di rivendere a me, ai miei compagni e ai nostri lettori una qualche versione addomesticata dei nostri desideri. Lo stesso, di lì a breve ho respinto le profferte appiccicaticce di un paio di rampanti politici locali che volevano sponsorizzarci “in cambio di niente” e la cocaina di un grosso editore ricchissimo coi capelli lunghi e sporchi che voleva comprarci tutto e tutti e metterci una catena al collo. Una delle poche persone con cui davvero sarebbe stato bello collaborare era Marcello Baraghini, che ci aveva assicurato la copertura legale di Stampa Alternativa per poter uscire scavalcando le leggi fasciste tuttora in vigore per contrastare la cosiddetta stampa clandestina – penso sia stato l’unico che si sia dimostrato sincero e disponibile senza mai chiedere un qualchecosa come contraccambio. 

Quanti pomeriggi passati a fare buste e pacchetti, quante serate passate di corsa ad attaccare manifesti, quante trappole da evitare nascoste in mezzo alla posta e alle telefonate. Rockgarage aveva successo e si stava trasformando in un’impresa editoriale di piccole dimensioni sì ma difficilmente gestibile a forza di volontariato e notti in bianco, così un giorno abbiamo deciso di concentrarci sulla redazione del giornale e per la diffusione ci siamo affidati a un distributore sedicente indipendente. Ecco: ci siamo fidati e questo ci è costato la vita. Tutto è finito velocemente in un gorgo di derisione, disonestà, bugie, minacce e debiti mai pagati. 

“Non ci definiamo anarchici, nichilisti o, che so io, figli di puttana, la nostra esperienza musicale si intreccia con quella politica ed è la nostra cultura, la nostra vita, la nostra storia. Siamo “solo” un gruppo di rock’n’roll ed è dentro questo linguaggio musicale che cerchiamo un posto: ribelli, rivoluzionari che vivono nelle colonie dell’imperialismo yankee, che in quanto tali ammettono di essere colonizzati culturalmente ma che accettano comunque la sfida e vivono in prima linea all’ultima frontiera. Attenti alla strada, fratelli, è li che nasce e si sviluppa la nuova, vera opposizione…” (da un volantino allegato alle prime copie di “Tribes’ union”).


La coop. Materiali Sonori, che negli anni Settanta aveva messo in piedi in Toscana una delle prime realtà discografiche alternative italiane, e l’Arci di Firenze avevano pensato e organizzato nel 1984 alla Fortezza da Basso un meeting di etichette indipendenti. Avevano chiamato un sacco di gente da tutta Italia e da mezza Europa – e invitato anche noi di Rockgarage. Era la prima iniziativa del genere fatta nel nostro paese, l’ingresso era gratuito e questo aveva attirato parecchie centinaia di persone. 

Il nostro stand si è molto presto trasformato in una specie di festa collettiva sgangherata dove arriva gente, baci e abbracci, poi ognuno deposita volantini dischi cassette spillette e fanzine in una catasta comune, si chiacchiera si mangia si beve si fuma si ride si fa casino e intanto c’è gente stesa a dormire sul saccoapelo per terra in mezzo agli scatoloni di dischi. Un paio di stranieri alzavano il sopracciglio in preallarme se vedevano che ci avvicinavamo a curiosare nella loro zona – evidentemente pensavano fossimo dei malintenzionati o dei ladruncoli, e forse non avevano tutti i torti. Tanti dei nostri colleghi neanche si sono avvicinati a fiutarci e si sono tenuti prudentemente alla larga dalla nostra base per tutti i giorni del meeting. Eravamo bestie strane rumorose e pressapochiste e radicalmente differenti dal mucchio: praticamente tutti gli altri partecipanti erano ragazze e ragazzi seri, bravi, vestiti puliti e ben attenti a dare il resto. Gente che mandava coscienziosamente avanti la propria baracca – quello che per noi era una via di fuga dalla disperazione per loro era una prospettiva di lavoro, o magari già un lavoro vero. Molto spesso i gruppi con lo sponsor e il nome scritto in grassetto nei giornali erano formati da ragazze e ragazzi come noi che dentro la musica stavano anche loro inventandosi e costruendosi un bel lavoro – magari meno regolarmente pagato ma probabilmente più appagante di quello che avevo trovato io. Sono convinto che tante delle cose tristi che si leggevano e si sentivano in giro a proposito di offese, tradimenti, litigi, contrasti, attriti e rivalità tra i vari cantanti e gruppi fossero nient’altro che stupidaggini e bugie. Serviva essenzialmente a far agitare i fan facendogli credere che i loro beniamini fossero in difficoltà e cercare di vendergli sempre più dischi e merchandising, convincendoli che fosse l’unico modo possibile per sostenerli – roba inventata al solo scopo di frantumare la scena. Era la solita vecchia storia: sembrava che col punk e la nuova ondata fosse cambiato tutto rispetto a prima, e invece non era cambiato proprio niente. 

Il giro delle indie italiane allora era ancora cosa in formarsi: alcune realtà più solide e stabili facevano capo a negozi di dischi, grossisti, importatori, editori, agenzie e altre imprese commerciali più o meno legate al giro musicale, ma il grosso era polvere traballante tenuta insieme da un certo idealismo e da metricubi di volontariato, incoscienza, speranze e illusioni, sovvenzionata da collette e piccoli risparmi personali. Di etichette discografiche ce n’erano a dozzine, buona parte di queste erano del tutto sconosciute al fisco. A volte un’etichetta era solo un marchietto caratterizzante appiccicato sopra ai dischi e alle cassette, con quasi niente dietro. Quell’incontro fiorentino non era certo una fiera/mercato del tipo becero in cui si sono trasformati i meeting dei tempi più recenti: era comunque impossibile non accorgersi già allora che i nostri cuccioli indipendenti appena nati invece che collaborare e, che so, mettersi assieme a complottare per caratterizzare l’alterità della nuova scena, stavano già imparando ad ispirarsi alla strategia specialistica divisiva delle etichette sorelle maggiori. Certi erano addirittura ben disposti ad adeguarsi ai meccanismi perversi delle major – contratti, edizioni, firme, obblighi, percentuali, intermediazioni, royalties, esclusive. Ma chissenefregava di ‘sta gente: per noialtri cani sciolti lupi solitari bastiancontrari e bestie sparse là a Firenze di bello c’era la possibilità di incontrarsi di persona, stringere mani e abbracciarsi, annusare complicità, inventarsi cose, stabilire collaborazioni e fare degli scambi. C’era la possibilità di sognare assieme, insomma, e praticamente gratis. 

Un giorno al meeting i giornalisti alito di cane, invece di occuparsi full-time dei politici benvestiti in visita e delle stelle della manifestazione, cioè dei gruppi promossi dall’Arci e dalle etichette più grosse, si accorsero inaspettatamente di Marino e Sandro Severini – due sconosciuti ragazzi marchigiani colpevoli di aver prodotto e pubblicato da soli un disco meraviglioso dentro al quale sognavano controvento: sognavano addirittura l’unione delle tribù.

E’ guerra in città
E’ guerra stanotte
I coltelli luccicano alla luce dei neon
E’ la notte degli eroi
E’ guerra.
Non c’è niente di romantico, non ci sono trombe o bandiere
Solo topi che aspettano di mangiare cadaveri puzzolenti
E’ guerra.
Sono pronti a combattere
A vincere o morire
Hanno cantato canzoni di morte e non c’è paura nei loro occhi
E’ guerra.
Brucia questa città nella lunga notte rossa
Urla la vendetta nelle strade grigie
Tra mura di cemento
E’ guerra.

Coi Gang ci siamo incontrati la prima volta là a Firenze. Quei due erano all’incirca miei coetanei ed avevano una storia personale press’a poco simile alla mia, ma si capiva subito che sotto, dentro, da qualche parte eravamo proprio differenti. Come me venivano dalla provincia e dalle periferie, come me avevano sperimentato emarginazione e disoccupazione, come me giravano per centri giovanili e posti occupati, come me avevano preso ispirazione dal movimento punk inglese per cercare di ricostruirne lo spirito nel proprio territorio. Di diverso da me c’era che Marino e Sandro avevano i piedi ben piantati per terra mentre io spalavo nuvole. Di diverso da me c’era anche che avevano imparato a suonare sul serio mentre io avevo smesso, che erano saldamente di sinistra e io invece mi sentivo anarchico e perso, e che gli piacevano moltissimo i Clash e Billy Bragg che a me piacevano sì ma un po’ meno. Differenze del cazzo senz’altro, però quelli erano tempi dove persino ascoltare certi dischi e non altri significava prendere una posizione politica esplicita. Ho sempre pensato che i dischi fossero qualcosa di diverso dalla semplice plastica con delle canzoni dentro – qualche cosa di più, precisamente: un pretesto per far circolare delle idee, dei ragionamenti. Un pretesto per avvicinare, per unire. Molto spesso mi sono ritrovato da solo a condividere queste opinioni. Non so, a me è sempre piaciuto ascoltare musica senza preoccuparmi del genere, di chi, di cosa. Per questo, spesso mi trovavo spesso preso in mezzo al fuoco incrociato dei miei amici che ritenevano assurdo/inconcepibile il fatto che potessi amare i dischi dei Crass e anche, che so, ascoltare volentieri Alan Stivell e John Fahey o addirittura Bruce Springsteen. Eppure ancora adesso, a 65 anni passati, mi piace ascoltare John Fahey, Alan Stivell e i Crass. Da questi ascolti ne traggo una gioia immensa. Con Bruce Springsteen ho recentemente suonato insieme in sogno – due concerti segreti in un posto sotto il cavalcavia a Marghera. Fra “The river” e “The power of prayer” (io al basso elettrico e alla seconda voce) il boss ha cantato una versione unplugged struggente di “Sesto San Giovanni” che ha fatto prendere fuoco a Marghera, a Mestre, a Venezia e alla laguna intera:


Primo turno lunedì sei di mattina Sesto San Giovanni
Billy Bragg che canta nella nebbia e consola i tuoi trent’anni
Lontane sono le torri di Milano, le sue luci cieche
In fila in tangenziale le promesse si sentono tradite.
La sirena chiama otto ore così è da una vita
Timbri un altro giorno, tiri avanti senza via d’uscita.
E la nebbia quando cade tra le braccia della sera
Ci fa sentire come dei fantasmi sopra una corriera.
E’ la fabbrica che ruba e ci divora i nostri anni migliori
Lavorare meno almeno, se non puoi starne fuori
I sogni di mio padre contadino ora alzano le mani.
Mio fratello è in galera da dieci anni ma tornerà domani.

Nel raccontare dei Gang bisogna stare attenti a non farsi catturare il cuore. Me li ricordo bene i fratelli Severini a girare senza sorridere tra gli stand del meeting di Firenze 1984 con sottobraccio un pacco di copie del loro primo album “Tribes’ union”, un disco dai forti sapori Clash e dall’altrettanto forte impatto popular. Ascoltare quel disco oggi mi impressiona ancora per la carica, per l’energia, per la sua passione feroce, per l’integrità e l’onestà cristallina, per la pressione e il volume dei sogni che lo animano e sostengono. 

Marino e Sandro come dicevo erano diversi da me, ma erano anche proprio tutt’altra cosa dalla fauna instabile del raduno, facce anonime in t-shirt e blue jeans mescolati a fighetti effervescenti new wave ben pettinati scolpiti a Tenax, e a punks ricchi truccati e viziati con addosso gli straccetti firmati e le spillette import – tutti occupati a tagliarsi meticolosamente le radici da sotto i piedi. Loro due di quelle radici proletarie ed operaie andavano fieri e il loro orgoglio ce lo sbattevano sonoramente in faccia suonando bene un rock borchiato da combattimento, a volte melodico sì ma sempre rosso ed infuocato come la prima linea, preciso e duro e martellante in un modo come qui in Italia dopo gli anni di piombo non si osava più fare. Per Marino e Sandro, consapevoli di aver autoprodotto un capolavoro, lì in mezzo a quegli indipendenti tra virgolette non c’era posto. Se ne accorsero subito, loro. Altri invece, tra cui il sottoscritto, poco più tardi, sorpresi al largo dalla burrasca delle prime mazzate. 

In questi quarant’anni i Gang hanno percorso una strada lunga, spesso tortuosa ed in salita nonostante le apparenze – sì, vabbé, hanno firmato per una major ma li hanno cacciati, loro però hanno continuato ad autoprodursi e a fare dischi col crowdfunding. Allontanati brutalmente e rancorosamente dai festeggiamenti ufficiali del primo Maggio sono passati attraverso minacce, boicottaggi, denunce, accuse di vilipendio delle istituzioni per aver sfanculato i potenti tra una canzone e l’altra durante i concerti, citazioni giudiziarie, censure, dischi bloccati e altre disavventure varie. Del punk stradaiolo e rissoso dei primi dischi nel tempo sono rimaste tracce evidenti e mai rinnegate – specialmente nei concerti dal vivo e nella testardaggine dei testi. Col loro quarto album sono passati a scrivere le parole dall’inglese all’italiano, costruendo da allora pezzo dopo pezzo un meraviglioso Canzoniere Popolare scritto così con le maiuscole ispirato dalla nostra cronaca, storia e vita d’ogni giorno. Canzoni che tornano su luoghi e storie, a raccontare anzi a raccontare meglio, a suggerire vicinanze e a scavare trincee. Canzoni che riescono a far scivolare sul viso qualche lacrima e a far stringere i pugni. Canzoni che ci strattonano e riescono a schiodarci dalla poltrona di casa e dal televisione, e trascinarci in strada e in piazza stanchi e schifati di tutto il silenzio che s’è fatto intorno alla nostra vita. Canzoni che ci spingono ad alzare la voce, a tirarla fuori e a unirla alle altre – per rivendicare libertà e spazi, per protestare contro chi ci vuole zitti e rassegnati, per confermare che ci siamo e che siamo vivi. Sì, perché quando si ha il cuore basta poco. Basta un po’ di vino, un po’ di pane, una chitarra e un ricordo che incendi l’anima. Anche senza soldi in tasca, ricchi come siamo del nostro amore e delle nostre bellissime diversità. Per esistere e resistere insieme, e insieme scrivere quel futuro che, lo sappiamo bene, non è stato già scritto da nessuno. 

Ti prego ancora tieni duro
Ho bisogno di te
Per prendere al collo il futuro
Per prenderci tutto
Per me, per te
Questo grande freddo dai nostri cuori vedrai se ne andrà
Verrà un nuovo giorno
E bruceremo queste città.

Articolo a cura di Marco Pandin
stella_nera@tin.it

Per supportarci:

Siamo un progetto autogestito e puoi sostenerci attivamente, se ti va, in due modi:
-puoi dare un’occhiata al nostro catalogo e ordinare eventualmente dischi, cd, libri, spillette o altro ancora. 
-puoi partecipare alla nostra call sempre aperta con un tuo contenuto inedito.