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Kina – Abbiamo Vinto! Abbiamo Perso!

“Ho più cicatrici di prima, sorrido un po’ meno. Forse penso di più.” Marco Pandin ci parla dei Kina

Quand’ero piccolo mi sembrava che certe canzoni potessero davvero cambiare il mondo: gli davano un senso che mi incuriosiva e mi sembrava di comprendere, e una certa piega che mi piaceva. Chiaro che a dieci-dodici anni non capivo un cazzo di come girava il fumo, ma in testa mi si stavano già muovendo certi ragionamenti: il primo disco che ho preso è stato il settepollici di Scott McKenzie “San Francisco”, 1967, il primo album è stato il “Led Zeppelin II” appena uscito, 1969 – conquistato dopo mesi e mesi di risparmi, moneta su moneta. C’erano in giro i Beatles, i Rolling Stones e Bob Dylan, il Living Theatre, Joan Baez, David Crosby e quelli che hanno suonato cantato e ballato a Woodstock – erano tutti riusciti senz’altro a sgretolare l’indifferenza e smuovere le coscienze a proposito della pace, ma non a fermare la guerra, né in Vietnam, né altrove. Nel mio piccolo ho continuato per anni ad ascoltare Francesco Guccini, Fabrizio de André, Claudio Lolli, i Nomadi e gli Stormy Six, e poi gli Henry Cow, i Gong, Patti Smith e i Crass, affidando a ciascun giro di vinile sul giradischi un po’ della mia speranza per un mondo migliore. 

A quanto capisco non sono stato il solo ad aver sprecato tempo in questo modo. Mario Biserni, un caro amico ed un vero appassionato di musica, mi confidava solo qualche mese fa che nell’arte e nella bellezza continua ancora a sperare: magari fosse che i messaggi che viaggiano con la musica i libri e la poesia potessero mettere radici ovunque, gli ho detto. Dopo “Addio alle armi” di Ernest Hemingway non ci sarebbe dovuta essere un’altra guerra mondiale. Dopo l’“Urlo” di Allen Ginsberg si sarebbe dovuti scendere tutti nelle piazze a cantare a piangere ad abbracciarsi e accarezzarsi e baciarsi e fare l’amore ovunque e in tutti i modi che ci venivano in mente – e sarebbe stato meraviglioso. Ma, come sappiamo, niente di tutto questo è successo – né qui nel nostro paese né altrove. Dopo “All you need is love” si sarebbe dovuta insegnare la cultura della pace e del sostegno reciproco nelle nostre scuole, ci si sarebbe dovuti prendere amorevolmente cura dei bambini e dei più deboli, degli sfortunati, degli anziani. Dopo “Imagine” ci si sarebbe dovuti mobilitare per distruggere tutte le armi e abbattere i confini, ci si sarebbe dovuti occupare di ospedali, scuole, mense e case per tutti. E invece no: smantellati gli investimenti in sanità e cultura, le scuole sono state trasformate in laboratori di consenso per il governo. Ci siamo dotati di uno smartphone e abbiamo piazzato un televisore in ogni casa così da poterci anestetizzare mentre abbiamo continuato a tratteggiare di filo spinato ed armare i confini di stato, a costruire pistole e fucili, aerei da combattimento, carrarmati, portaerei, mine, lanciafiamme, bombe e cannoni e a venderci tra di noi questo orrore. A inventarci guerre sempre nuove e sempre più devastanti da guardare in tv col telecomando in mano stravaccati sul divano e magari commentare distrattamente sui social. La libertà di pensare e di ragionare è percepita correntemente come un tasto on/off sul telecomando ed una disponibilità di 280 caratteri per esprimere un’opinione su Twitter. 

La cosiddetta brava gente del Novecento, la stessa che ha aderito in massa al fascismo e che lo sostiene anche oggi, quando con la costituzione in pugno sfila protetta dalla polizia in nome della libertà di espressione, ha considerato i beat, i provos, i verdi, gli ecologisti, i pacifisti, gli hippies, gli anarchici, i punks come un pericolo, come delle merde, dei disadattati che lo sterminio se lo meritavano perché fra le altre cose volevano abolire le armi, la guerra, l’inquinamento, la miseria, la povertà obbligatoria imposta dal capitalismo. Sono dell’idea che quella brava gente forse non era poi così brava, proprio come noi hippies, noi punks, noi ecologisti, noi pacifisti, noi beat, noi diversi, noi anarchici non eravamo così cretini, né deficienti, né disadattati né povere bestie da macellare da annientare da far sparire a qualsiasi costo. I diversi, i ribelli, i sognatori, gli anarchici di ogni epoca hanno dato forma ai sogni e spostato in avanti il limite dell’immaginazione. Senza diversi, senza ribelli, senza anarchici, senza sognatori forse staremmo ancora a nasconderci nelle caverne o ci saremmo già estinti. Gli anarchici hanno una grossa responsabilità: senza di noi col cazzo che il mondo va avanti.
Quelli che fanno i film, quelli che disegnano, i musicisti, i cantanti e gli scrittori, ti affondano le dita nell’anima. Anche loro hanno delle responsabilità ben precise: offrono ispirazione e stimolo, spostano in avanti la nostra immaginazione e con lei il confine del mondo perché mettono in moto la fantasia della gente e la fanno sognare. Ha però delle responsabilità ben precise anche chi guarda, chi ascolta e chi legge – responsabilità alle quali però non veniamo educati: generalmente ci si accontenta della superficie delle cose e dei ragionamenti, ci basta essere consumatori e basta, c’è sempre altro e di meglio da fare e sono davvero pochi quelli cui piace soffermarsi a riflettere, che amano dedicare attenzione, ragionare, confrontarsi, criticare. Io sono tra questi, uno di quelli che vanno dietro per ore per giorni per mesi per sempre a una canzone o a una poesia, e credo sia uno dei modi che mi sono inventato per cercare la felicità. Ogni tanto l’ho trovata, lei, dentro alla voce di qualcuno che canta o che scrive: sono riuscito a sfiorarla, ad accarezzarla, a giocarci insieme, a volte l’ho abbracciata e l’ho persino baciata sulla bocca, e a lungo. 

Negli anni Sessanta le case discografiche vendevano milioni e milioni di dischi con dentro promesse di rivoluzione dietro l’angolo per i pacifisti, per gli antimilitaristi, per i neri, per gli hippies – e hanno continuato a vendere promesse di rivoluzione su vinile, cassetta, compact disc e in formato liquido anche a chi è venuto dopo: ai punks, ai metallari, ai rappers, alle ragazze e ai ragazzi di adesso. Io ho smesso presto di crederci, e non ci credo neanche adesso. Quando avevo vent’anni ho imparato sulla mia pelle che da noi non ci sono fucili pop né fucili rock: l’America è lontana, a distanza televisiva di sicurezza, e qua tira altra aria. I fascisti mettono le bombe nelle piazze e nessuno li ferma – non certo i bei ragionamenti sull’amore e sulla pace, men che meno le canzoni e le poesie: quella è gente disposta a cercarti l’anima a forza di botte che con le pagine dei libri ci si pulisce il culo. Ci sono ragazzi come te e come me che un giorno improvvisamente spariscono, pistole che finiscono sempre nelle mani sbagliate, pallottole che non hanno origine certa ma centrano perfettamente i bersagli. In televisione fanno ogni giorno il conto dei morti e dei feriti, le camionette della polizia i posti di blocco, le piogge acide i buchi nell’ozono e gli incidenti in fabbrica diventano caratteristiche del paesaggio a cui piano piano si fa l’abitudine. Resti senza pile di ricambio, e la tua vita va avanti in riserva. Non hai più voglia di ascoltare Guccini, i Nomadi, i Rokes. Un giorno ti svegli e ci sono i carrarmati per le strade a Bologna, così ti passa la voglia di ascoltare persino Fabrizio De André, e scegli di spegnerti. I giapponesi un giorno inventano il walkman, appena possibile ne ho rubato uno e con la musica inchiodata nelle orecchie a livelli da paura ho chiuso fuori il mondo. La primavera è finita: tutt’attorno resta un inverno artificiale senza sole, lungo, grigio e rigido, neve velenosa che cade. Il silenzio. Anzi no, il vuoto sonoro, il vuoto dell’anima. 

Dai palchi e dai dischi a quelli come me urlano che non c’è più nessun sogno e non c’è più nessun futuro – ma accanto al mixer c’è un banchetto fornitissimo con dischi e magliette e spillette in vendita, e la gente si mette in coda per comprarsi un po’ di speranza da indossare. Una maglietta da ventimila lire fatta con gli scarti, confezionata e stampata da qualche bambino disgraziato in una cantina del terzo mondo. Sono anni di piombo, di amianto, di tavole rotonde e spogliarelli in televisione. Nessuna musica a scaldarti il cuore, a tenerti per mano mentre tutto intorno sanguina, a farti un po’ di compagnia senza chiedere niente in cambio. 

Dagli anni Sessanta è passato davvero un mucchio di tempo – oggi i fascisti inquinano l’aria respirando e cantando De André al karaoke alle feste di compleanno dei padroni, occupano sedi in centro da cui nessuno si sogna di scacciarli e poggiano il culo sporco sulle poltrone che contano. Io sono diventato un vecchio orso invecchiato arruffato scontroso incasinato spigoloso e rompicoglioni. Ho mantenuto l’approccio goffo e disorganizzato alle cose e la curiosità vorace di quando ero un ragazzo, l’urgenza che mi fa mangiare parte delle parole mentre cerco di dirle, un bel po’ di agitazione e di sana indignazione, le opinioni che si formano sulla sabbia sulla nebbia sul niente ma che vanno avanti dritte tipo uno schiacciasassi. Sono uno che bestemmia, ecco. Sono così. Come ho detto io a proposito di qualcun altro, e come mia figlia dice di me, da qualche parte dentro in testa continuo ad avere vent’anni anche oggi che ho passato i sessantacinque. 

Sono ancora parecchio affamato di musica, da quando sono rimasto a casa dal lavoro mi dedico ad ascoltarla con calma per qualche ora al giorno, ma mi accorgo che è parecchio cambiato il mio approccio. Mi accorgo di sentirmi più lento, certa musica mi entra dentro con difficoltà, altra mi scivola dentro sorprendendomi, mentre altra proprio non riesco proprio più a reggerla. Ogni tanto mi metto a riascoltare un vecchio disco, uno di quelli che per me ha significato qualcosa, ed è un po’ come rivedersi dentro un film – quella volta che con un mio amico siamo partiti in autostop sotto la pioggia per andare a Milano a un concerto che invece era stato cancellato, quella volta alla manifestazione a gridare potere-a-nessuno quando tutti intorno gridavano potere-operaio, quella volta a diciott’anni a dire signornò quando ancora non si poteva. E i concerti precari da far schifo ma meravigliosi perché tutti nostri, e lo squat a Brixton coi materassi rimediati alla chiesa giù in fondo alla strada e la corrente rubata dalla casa vicina, e le notti passate alla stazione di Bologna dopo un concerto perché il primo treno verso Venezia partiva alle sei del mattino. Come stare dentro a certi film assurdi tutti storti e con un fondo un po’ triste. Il mio è certamente un film di merda lo so, ma è un film che non ha pretese, che racconta di come ho resistito e di come mi sono opposto – anzi, di come ho cercato di farlo. Un film fatto di corse a perdifiato, di nodi alla gola e di disperazione, ma anche di sorrisi e di gioia e di immensi abbracci affettuosi. Dentro ci sono la mia compagna che è poi diventata mia moglie e mi sta ancora vicina. Dentro ci sono le mie bambine – una è diventata grande l’altra è rimasta ferma a sedici anni, mi parla solo in sogno. Dentro ci sono i miei meravigliosi compagni, le loro canzoni, le loro chitarre sgangherate. Dentro ci sono io preso spesso fuori fuoco e fuori quadro, occupato a mescolare al resto la mia voce, le mie risate e il mio rumore. Dentro ci sono io, occupato a leggere le stelle. Sapete, io riesco a sentire come suonano. So che anche a qualcuno di voi succede uguale.

“…L’ultima canzone che trovate in questo libro riassume perfettamente il groviglio di frustrazioni, malessere, rabbia e rimpianti che ci si porta ancora dentro oggi, qui, adesso. È una canzone che occupa un posto del tutto speciale nel cuore e nella testa di tanti compagni. È la canzone che secondo noi, più e forse meglio di altre, è riuscita ad andare dritta fino in fondo nel cuore della bestia…”.

Stefano Giaccone dei Franti ed io descrivevamo così in “Nel cuore della bestia” (ed. Zero in Condotta, 1996) una canzone dei Kina. Era da dieci anni almeno che la cantavamo – l’abbiamo fatto così tante volte, fosse a Torino ad Aosta a Venezia o altrove, da soli e in compagnia, ben fatta oppure stonati e/o ubriachi, in versione elettrica oppure unplugged. Sentendoci felici e stanchi e arrabbiati e confusi ed euforici e depressi e fumati e persi o un misto di questo ed altro ancora. In quel libro avevamo raccolto i nostri punti di vista, le nostre riflessioni ed esperienze nel mondo della musica bastarda, aggiungendo al groviglio dei pensieri una raccolta di ritagli presi da cassette, fanzine, dischi e volantini. Non lo sapevamo ancora, ma avevamo messo insieme il primo libro sul punk anarchico italiano – dico sul serio. Allora avevamo tutt’e due quarant’anni quasi, e sulla nostra strada s’era imparato parecchio – pagando sempre tutto e sempre caro. Scrivendo quelle storie desideravamo dire la nostra sul cortocircuito socioculturale che si era innescato in Italia negli anni Ottanta tra punk ed anarchia confrontando le nostre esperienze conquiste e fallimenti, e proprio quella l’avevamo chiamata “una canzone speciale”. Perché per noi era così: un pizzico di tristezza per il tempo che passa, mista a una certa consapevolezza e un certo orgoglio che riconoscevamo come roba profondamente nostra. La conoscete senz’altro anche voi, fa: 

So ancora guardare in alto e perdermi nel cielo
mentre vibro assieme ad un torrente
E penso all’acciaio che ci stringe.
Questi anni stan correndo via come macchine impazzite 
Li senti arrivare, ti volti e sono già lontani
Ti chiedi cosa è successo.
La rabbia di quei giorni brucia ancora dentro
ma forse tanto veleno poi è tornato dentro di noi.
Gli altri stanno ancora ridendo e noi qui a guardarci dentro.
No, sono sempre io
Non mi cambierete quel che ho dentro
Forse ho un’altra faccia
Ho più cicatrici di prima, sorrido un po’ meno
Forse penso di più.
Non mi chiedere se ho vinto o se ho perso.

E’ “Questi anni”, che è diventata da subito come una specie di bandiera per tutti quelli che bandiere non ne volevano. Con Alberto, Gianpiero e Sergio direi che una sera ottobrina del 1983 si era tutti insieme a Torino, ciascuno una birra e tutta la vita davanti, complici dell’incontro i Franti. Lalli, Stefano e quegli altri ci tenevano a farmi conoscere quei tre ragazzi montanari che trovavano così cari e curiosi. Abbiamo parlato un po’, non tanto – le cose da suonare e da cantare erano molto più di quelle da dirsi. Ci siamo rivisti qualche settimana dopo al Virus a Milano per un concerto collettivo – una performance breve, caotica, nervosa, sporca e insoddisfacente, a ripensarci uno specchio spietato della nostra inadeguatezza. Di lì a breve i tre avrebbero registrato e fatto circolare una cassetta con una dozzina di pezzi – “Nessuno schema nella mia vita, la prima di molte uscite a venire. Un po’ come i Franti, anche i Kina facevano roba che era piuttosto difficile incasellare in un genere musicale specifico e presto riconoscibile. Anarcopunk senz’altro come atteggiamento, tiramenti di culo e sonorità, eppure ogni loro pezzo era un oggetto solare ed imprevisto in quel periodo di dischi fatti brutti apposta, tutti neri e bui, tutti desolatamente uguali, i bambini messi male oppure già morti di fame incollati in copertina e un’imitazione maldestra e davvero scarsa del rumore delle bombe dentro i solchi. Il suono dei Kina era sferragliante e veloce sì ma aveva addosso un che di fresco, pulsante e vitale: era ricco di energia e spingeva alla gioia senza cedere a compromessi. Non assomigliavano a nessun altro gruppo italiano di allora, forse un po’ agli americani Hüsker Dü come diceva anche Stiv Rottame di TVOR – una caratteristica questa di per sé sufficiente ad attirare l’invidia. Dentro ai testi i Kina spremevano la frustrazione e il peso del ritrovarsi a vivere in provincia lontano da tutto e da tutti, ma invece di lamentarsi loro sorridevano. Alla sfiga loro sputavano in faccia. Addosso non portavano l’uniforme punk anfibi e magliette nere strappate, sembrava si fossero vestiti scegliendo le cose alla cazzo al buio: pantaloni corti e infradito, jeans usati, scarpe da ginnastica, magliette tipo vado in spiaggia, felpe senza marca. Non si vergognavano del loro disagio, delle contraddizioni e dei propri dubbi, se ne fregavano delle prediche dei caporali e mica si lamentavano delle aspettative della scena che gli stavano così strette addosso: dritti testardi per la loro strada, raccontavano le difficoltà della vita che gli era toccata come fossero salite in montagna e con le speranze conficcate come chiodi nelle pareti verticali. Gianpiero, Alberto e Sergio guardavano in alto, verso la vetta. A me sembrava che quei ragazzi non avessero paura di niente. 

So ancora guardare in alto e perdermi nel cielo
mentre vibro assieme ad un torrente
E penso all’acciaio che ci stringe.
Questi anni stan correndo via come macchine impazzite 
Li senti arrivare, ti volti e sono già lontani
Ti chiedi cosa è successo.
La rabbia di quei giorni brucia ancora dentro
ma forse tanto veleno poi è tornato dentro di noi.
Gli altri stanno ancora ridendo e noi qui a guardarci dentro.
No, sono sempre io
Non mi cambierete quel che ho dentro
Forse ho un’altra faccia
Ho più cicatrici di prima, sorrido un po’ meno
Forse penso di più.
Non mi chiedere se ho vinto o se ho perso.

Kina a Berlino, novembre 2019. Foto di Luca Maledet Miseria Nera

Parlami di un mondo mai visto, mai violato dall’uomo
Spiegami il sole, il vento e l’acqua del torrente
Non li sentirò mai
Questo mondo è già finito consumato da un transistor
Una strada, una luce impazzita e il pane quotidiano
Guardo gli occhi spenti del vicino
e la rabbia di una pelliccia di visone
Ora guardo nel mio cuore
Qualcosa è scomparso… dove sono?
Fingo un sorriso e spero che la morte non mi toccherà
Sento nel cervello le ragioni del bene e del male
Ma sono come un granello di sabbia che non sa come fare
In un abbraccio disperato mi stringerò forte
abbandonando questo schifo
Non resterò qui
Questo è un brutto posto
Se non riesci a pensare il tuo futuro finisce già domani


Di quei nostri primi incontri, oltre al suono di quei pezzi acerbi ma che puntavano dritto al cuore mi era rimasta impressa la loro maniera di muoversi, di parlare, di guardarti in faccia: eravamo differenti eccome, ma anche no. Forse era perché loro venivano dalla montagna, e io invece dalla riva del mare – pensavo. Oppure era perché, anche se solo di qualche anno, erano tutt’e tre più giovani di me e il fatto di suonare era per loro proprio una questione di sopravvivenza, mentre io per la mia strada invece avevo già dovuto imparare come ingoiare i sassi ed ammorbidire gli spigoli. Questa è “Sabbie mobili”, pensate che a me questa canzone piace parecchio sì, ma piace di più come la lasciano cantare a Lalli e Stefano Giaccone (sta dentro a “La diserzione degli animali del circo” del 1989, un vecchio vinile Inisheer recuperato poi nella raccolta dei Kina “Troppo lontano e altre storie”). Mi piace come cantano che si muore un pezzo al giorno – sembra una frase rubata a Claudio Lolli.

Parole 
Ammassi di parole
Parole come merce, come potere
Parole come rito
Parole senza senso.
Vicini in silenzio
Non evocare l’inferno
Lo vivi tutti i giorni
Si muore un pezzo al giorno.
Col silenzio sui pullman
Coi muri dietro gli occhi
Non ti lamentare
E’ il tuo silenzio che regge l’inferno.
Non mi chiedere aiuto
Anche tu sei complice della follia
Affonderemo tutti insieme
ma io non ti darò una mano per salvarti.

Tra gli anni Ottanta e oggi ci sono in mezzo (riassumo velocemente e in ordine sparso) un pacco di dischi pensati registrati e autoprodotti, un’etichetta discografica indipendente gestita come cooperativa che è servita anche a dare voce a decine di altri gruppi, un sacco di concerti anche all’estero, Alberto che è stato male e poi è stato meglio, Gianpiero che ha smesso di suonare ma che col basso a tracolla ha scritto un libro, Alberto e Sergio che hanno continuato a suonare insieme per un po’, figli che nascono e che crescono, viaggi fatti da soli e insieme, un bel documentario che racconta le loro storie, le ristampe dei vecchi dischi e una raccolta di registrazioni tratte dal loro reunion tour del 2019. 

Gianpiero Capra dei Kina a Ferrara, luglio 2019. Foto di Luca Maledet Miseria Nera

Una delle cose che in questi anni con i Kina abbiamo fatto più spesso è stato scriverci lettere e parlare per telefono. Raccontarci, chiederci cose, voler sapere l’uno degli altri. Non era facile per me, mollare tutto, prendere un treno e raggiungerli. E anche per loro era uguale – i casini in casa, dentro in testa, al lavoro, dappertutto, sempre. Penso che siamo rimasti vicini e ci siamo intrecciati grazie ai nostri racconti, grazie al suono delle parole che abbiamo adoperato per descrivere i nostri sogni e le nostre aspettative. Alberto l’ho rivisto giusto l’altra settimana, sta bene, ti parla guardandoti in faccia solo per un attimo poi guarda altrove – come faceva una volta, le parole gli escono dalla bocca inciampando nei sorrisi che lui si affretta sempre a interrompere. Sergio è generoso ed accogliente – è sempre il solito brontolone che si fa tonnellate di scrupoli e problemi, è quello che però ricorda le cose coi particolari giusti e ci tiene ancora e sempre a raccontare, a puntualizzare, a spiegarti. Questo è Gianpiero che qualche anno fa, appena si è pensato di lavorare insieme al libro/cd/dvd sulla reunion dei Kina, mi scrive:

“…In questi mesi mi è capitato di raccontare dei concerti che abbiamo fatto, dei viaggi, del furgone, dell’autostrada, delle differenze rispetto a vent’anni fa, di quello che torna in mente in automatico, come riflessi condizionati dei viaggi e dei concerti di trent’anni fa. Quasi tutti ad un certo punto mi chiedevano: vi siete divertiti vero? Mi sembrava così strana la domanda. Non faccio queste cose per divertimento. Eh, certo sono i momenti belli della vita, ma ce ne sono anche molti altri e quando penso a divertimento penso a qualcosa che mi piace e che non serve, a qualcosa che sia “solo” divertente. Non ho mai pensato a ciò che abbiamo fatto e facciamo come qualcosa di divertente. Parlando di perché faccio queste cose, di che cosa mi spinge allora come oggi a scavare nelle giornate per trovare a tutti i costi il tempo e la forza mentale per scrivere e suonare, ecco penso che siano cose utili e dal mio punto di vista necessarie per dare un senso alla mia vita…”.

Ecco: gli altri stanno ancora ridendo, e noi qui a guardarci dentro. Abbiamo addosso e sul cuore più cicatrici di prima, certo. Forse non è vero che sorridiamo un po’ meno. Forse è vero che pensiamo di più. Come siamo cambiati, e come siamo rimasti uguali dopo tutto questo tempo.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it

Immagine di copertina: Kina a Berlino, novembre 2019. Foto di Luca Maledet Miseria Nera

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