Flux of Pink Indians: Lottare per sopravvivere causando meno sofferenza possibile
Marco Pandin di Stella Nera Edizioni ci parla della band anarchopunk Flux Of Pink Indians e del loro disco “Uncarved Block”
Sin da ragazzino ho dovuto affrontare e gestire la mia insofferenza alle leggi del branco. Ho dovuto imparare a conviverci con quell’inquietudine, e a elaborarla, a coltivarla e ogni volta che mi sono ritrovato con le spalle al muro l’ho dovuta trasformare in un’arma per potermi difendere. Ritrovarsi ad essere il diverso-per-forza, la pecora nera o il bastiancontrario era una gran rottura di coglioni: significava essenzialmente essere un bersaglio facile per derisione ed emarginazione a scuola e in quartiere.
Ve l’ho già raccontato: da piccolo tendevo a starmene per i cazzi miei e leggevo, leggevo sempre. E ascoltavo la radio. La musica e le letture mi hanno indotto a immaginare, a sviluppare la fantasia. Leggere mi ha aiutato a salvare il culo dalle prepotenze delle bande: sapevo più parole di loro, e questo mi ero accorto finiva col mettere a disagio i capibranco.
I miei erano in pensiero perché sembrava fossi attratto da tutto quello che più c’era di strano e storto e insolito, ma ero fatto così e in fondo mi andava anche bene: avevo cominciato ad apprezzare quel tenermi fuori dai soliti giri, quel sentirmi profondamente differente dal resto, tutte quelle domande che mi si affollavano dentro in testa, quei dubbi e quei ripensamenti. Crescendo mi sono ritrovato ad amare quelle letture sbagliate e quelle musiche sbagliate che tutt’intorno erano considerate roba più adatta alle discariche e ai manicomi.
Si era alla metà degli anni Settanta, ormai frequentavo le scuole superiori. Era un periodo di grande chiasso e agitazione, e ricordo distintamente gli spintoni e gli strattoni incazzati dei compagni più vecchi alle manifestazioni in piazza, dove tutti urlavano po-te-re-ope-ra-io e io invece po-te-re-a-nes-su-no, con tutti pezzetti di voce e di coraggio che riuscivo a raccogliere. Sono stato minacciato spesso, ma tranne qualche scapaccione non mi è mai successo niente di grave: solo, sembrava che tutti intorno avessero delle certezze inossidabili, che fosse stata rivelata loro una qualche verità fondamentale – e invece a me no. Da preti e democristi mi tenevo prudentemente alla larga e i fascisti mi facevano schifo come topi di fogna, ma restavo inspiegabilmente indifferente al fascino delle bandiere rosse sventolanti e trionfanti. E sul potere operaio, forse proprio perché figlio di un operaio che quando mi parlava non mi dava degli ordini né ne dava mai a sua moglie, avevo dei dubbi, e tanti. Sono stati i dubbi che mi hanno accompagnato costantemente nella crescita e che si sono poi trasformati in fari di costa – mi hanno aiutato a imparare bene cosa non sono e cosa non voglio. Perché cosa sono e cosa voglio sono cose che oggi sto ancora lentamente imparando, e ogni giorno hanno una sfumatura un po’ diversa e nuova.
Negli anni ho incontrato spesso dei compagni di strada che hanno cercato come me di dare una certa piega storta alla loro vita, e che si sono impegnati a trasmettere una certa educazione ai figli. Oddio, forse educazione è la parola sbagliata: in casa ho cercato di mostrare, di discutere, di fare. Ho cercato di spiegare a mia figlia Marta l’anarchia dal mio punto di vista – perché lo sapete vero, non è che c’è un libretto di istruzioni o un tutorial su YouTube… Non è che un giorno uno si sveglia e mentre si lava i denti decide e zap! diventa anarchico: è un qualche cosa di strano che ti abita da sempre nel cuore, è uno spaesamento costante.
E’ accorgersi che non ti piace comandare né essere comandato, che le ingiustizie (tutte) ti feriscono e ti fanno riflettere. Che non sei come gli altri, insomma – hai questa specie di superpotere stronzo che ti tiene lontano dal gregge, e tu che resti lì allibito a bocca aperta mentre tutti vanno rassegnati al macello dietro al capobranco e pensi: possibile che non capiscano, possibile che non se ne accorgano.
Per me anarchia significa anche incuriosirsi: è avere voglia di conoscere, di imparare, di spingersi dove gli altri preferiscono non andare perché si accontentano di quel che c’è. Anarchia è provare a vedere cosa c’è dietro una porta chiusa, è fare un passo o due al di là del reticolato che tutti temono oltrepassare, osare oltre il limite che tutti rispettano. E’ quel senso di insoddisfazione che annusi quando ti fermi alla superficie delle cose, quella mano che ti spinge dolcemente ad approfondire senza accontentarti di spiegazioni frettolose. Anarchia è fuoco, è rumore, è disobbedienza, è contestazione ma è anche voglia di avere intorno dei mondi nuovi tutti da esplorare. Anarchia è rifiuto della verticalità dei rapporti e delle gerarchie, ma è anche inclusione, è un abbraccio tenero e caloroso. E’ avere cura, attenzione e affetto per la diversità e le diversità.
Una delle maestre alla scuola elementare di Marta, per motivi tutti suoi (ve ne scrivo qui uno soltanto: mia figlia non era stata battezzata e non frequentava la parrocchia né le ore di religione) era convinta che fossi un pessimo padre, e quando si è premurata di farmelo sapere mi sono sentito davvero orgoglioso di essere quello che sono e come sono. E le ho riso in faccia, di cuore, e l’ho abbracciata felice perché mi ha fatto uno dei più bei regali che potessi ricevere. Essere considerato un cattivo maestro, ed essere riconosciuto come tale, è stato per me un traguardo importante – mi viene da dire pensando a Claudia Vio, a Paolo Finzi, a Claudio Venza e a tutti i miei amati cattivi maestri anarchici, che mi hanno regalato tutta la loro libertà senza chiedermi mai nulla in cambio.
Quella che siamo riusciti a mettere e tenere insieme Lucia ed io non è mai stata una di quelle famiglie cosiddette “normali”. Per i nostri vicini e dirimpettai siamo sempre stati quelli strani, quelli vestiti un po’ così, quelli che rincasavano a ore strane e non si sapeva bene che lavoro facessero né cosa mangiassero né cosa pensassero. Quelli con la casa troppo piena di libri, di musica, di piante, di risate, di gente che andava e veniva. Per loro erano stranieri, erano extracomunitari, erano omosessuali ma per noi erano amici carissimi a cui abbiamo sempre dato volentieri le chiavi di casa nostra perché sapevamo che serviva un po’ di casa anche a loro.
Con Lucia pensavamo che portare con noi Marta ai concerti fosse una bella maniera di stare insieme. L’abbiamo fatto dapprima per cose più adatte alla sua età, ma col tempo anche per certi appuntamenti complicati – la big band di Carla Bley (secondo noi sarebbe stato formativo farle vedere quella donna eccezionale alle prese con una banda di venti/trenta musicisti maschi imbizzarriti), i Masada Electric di John Zorn con Mike Patton oppure l’Hilliard Ensemble con le musiche vorticose di Carlo Gesualdo da Venosa e lei non si è ammazzata né ha ammazzato me o sua madre, ed è sopravvissuta benone a queste esposizioni radioattive nonostante nel suo lettore di mp3 girasse tutt’altro genere di cose, cose da ragazzini tipo Linkin Park e Suicide Silence per dire.
In famiglia abbiamo continuato, per quanto possibile, a mantenere certe cattive abitudini: Lucia ha lavorato a lungo in un club e poi in un centro culturale e siamo stati coinvolti nell’organizzazione di numerosi concerti. A casa nostra abbiamo spesso ospitato amici e compagni musicisti, così Marta si è ritrovata sin da piccola a contatto in maniera naturale, pacifica e molto spontanea alle nostre frequentazioni, oltre che ai nostri ascolti. Altro che lo Zecchino d’Oro: quand’era piccola la sua preferita durante i nostri viaggi in macchina era una cassetta antologica di canzoni di Fabrizio de André – dai Marco, mettiamola ancora… l’abbiamo ascoltata a sfinimento.
A neanche sei anni Marta era perdutamente innamorata di Martin Wilson, il batterista dei Flux of Pink Indians: sono convinto l’avrebbe seguito ovunque, e che in caso di sfortuna o di emergenza lui e Susie, la sua meravigliosa moglie, come genitori sarebbero stati nostri ottimi sostituti.
Martin non era il primo batterista del gruppo, a dirla tutta la formazione è sempre stata parecchio instabile. Prima di lui dietro i tamburi c’erano stati altri, tra cui Sid Truelove (che contemporaneamente suonava anche nei Rubella Ballet, e dopo un po’ se n’è andato via con loro) e anche, per un periodo breve, Dave Ellesmere (era soprannominato Bambi, aveva suonato coi Discharge). Martin è entrato nei Flux of Pink Indians poco dopo che era uscito il loro settepollici d’esordio e ci è rimasto dentro fino alla fine e anche dopo. Sì perché nel novembre 2007 lui, Colin Latter, Kevin Hunter e Ian Glasper (al posto di Derek Birkett) rimettono insieme i Flux e partecipano al concerto collettivo organizzato al Shepherd’s Bush Empire di Londra da Steve Ignorant per festeggiare i trent’anni passati dall’uscita di “The feeding of the 5,000”.
Ma per raccontare questa storia devo partire dall’inizio e fare un bel salto all’indietro, da quattro teenager dell’Hertfordshire (la zona a nord di Londra, tutta campagna e villaggi sparsi ma con parecchi insediamenti industriali) che avevano messo in piedi un gruppo punk, gli Epileptics – proprio uno dei primi, era il 1977. Quando avevo vent’anni anch’io.
Al tempo formare un gruppo punk in un paese della provincia inglese significava solo andare in cerca di guai: spesso era sufficiente indossare un badge per esporsi alla derisione, oppure bastava comprare un disco strano o essere spettinati per inciampare in una qualche rogna. Se ti azzardavi a decorare il tuo giubbotto con scritte e toppe o ti spingevi a colorarti i capelli, potevi rischiare di essere bersaglio di aggressioni a schiaffi e pedate, quando non vittima di pestaggi anche seri se avevi la sfiga di passare di fronte al pub sbagliato.

La sala prove degli Epileptics era la cameretta di uno del gruppo. Non erano granché capaci di suonare ma gli sarebbe piaciuto imparare, e comunque non avevano l’intenzione di accontentarsi di fare delle canzoni e basta: erano curiosi e contestatori, erano attratti dalle istanze anarchiche e dal pacifismo ma non gli dispiaceva confrontarsi anche spingendosi ad essere rissosi, gli piaceva leggere e informarsi, un paio di loro avevano deciso di diventare vegetariani. Erano dei ragazzi convinti di avere delle cose da dire e da far sapere in giro.
Pare che il loro primo incontro con i Crass sia stato piuttosto uno scontro: a una delle primissime esibizioni dal vivo di questi, a Bishop’s Stortford nell’agosto 1978, il logo croce/serpenti/divieto e tutto quel nero sul palco e sui vestiti avevano fatto fraintendere ai quattro che i Crass fossero una qualche formazione neofascista, così che li contestarono aspramente prima e all’inizio del concerto.
L’equivoco venne per fortuna chiarito la sera stessa, e nacque un’amicizia destinata a durare: di lì a poche settimane gli Epileptics aprivano il concerto dei Crass al Basement di Covent Garden. Al pomeriggio durante il soundcheck si fecero vedere in sala solo un paio di curiosi, che poi però non ritornarono la sera: gli Epileptics ebbero come pubblico i Crass, e i Crass gli Epileptics.
Amo gli incidenti in metropolitana
Voglio sposare un incidente in metropolitana
Ne voglio uno proprio come l’ultimo che c’è stato
Vivo per i disastri in metropolitanaPrendi velocità e non chiudere gli occhi
Assicurati che muoiano tutti nel treno
Non si vince niente e non c’è tempo per i saluti
Dimenticati dei freni e va’ a sbattere contro il muro
Sorridi perché stasera sarai di sicuro in televisione.
Nel giro di pochi mesi il gruppo cambiò più volte formazione e nome – da Epileptics a Epi-X a the Licks (ebbero acidamente a dichiarare ad una fanzine: “…Abbiamo deciso di cambiare nome perché non c’era nessuna A da poter cerchiare”). Colin, il cantante, era piuttosto preso da letture sui popoli nativi nordamericani e un giorno propose di chiamare il gruppo Tribe of Pink Indians, che venne presto trasformato in Flux of Pink Indians e adottato all’unanimità.
Realizzarono con questo nome l’EP “Neu smell”, avvalendosi della produzione di Penny Rimbaud e dell’apporto tecnico di John Loder ai Southern Studios, pubblicandolo per Crass Records nel luglio 1981. Il disco schizzò subito in testa alla classifica indipendente inglese (oltre 40,000 copie vendute, un’enormità per un disco autoprodotto e distribuito ai margini del circuito indipendente) per via di “Tube disaster”, rifacimento di un pezzo sguaiato degli Epileptics ispirato da un grave fatto di cronaca che in questa nuova versione ottenne un imprevisto successo – penso sia il loro pezzo più conosciuto.
Il gruppo, oltre che la curiosità e un certo sostegno di John Peel, che trasmise più volte “Tube disaster” nel suo programma radiofonico alla BBC, raccolse una certa popolarità nei giri punk, anarchici, pacifisti, animalisti e ambientalisti, ma si guadagnò presto anche le attenzioni della polizia, che cominciò a seguirli discretamente ma regolarmente ai concerti e negli spostamenti, e dei servizi segreti britannici, che misero sotto controllo i loro telefoni di casa.
Come spesso accadeva nell’Inghilterra di allora, i vari gruppi musicali fondavano delle etichette discografiche per essere in grado di gestire in totale autonomia la produzione dei propri lavori (che così facendo rimanevano di proprietà dei musicisti), e per poter stabilire degli accordi commerciali con i distributori nei negozi di dischi.
Quelli di Small Wonder, una delle primissime indie londinesi che aveva aperto le braccia al punk, avevano incontrato serie difficoltà per stampare il disco d’esordio dei Crass (i lavoratori del vinilificio si erano rifiutati di stampare un disco che consideravano blasfemo) e per pubblicarlo erano stati costretti a toglierne una canzone.
Per riuscire a pubblicare la versione originale di quel disco e stampare quelli successivi i Crass avevano deciso di fondare una loro etichetta omonima, distribuita da Rough Trade.
Avevano fatto così anche Robert Smith dei Cure, che dopo un primo singolo sempre su Small Wonder aveva fondato la label Fiction, e Siouxsie Sioux che aveva fondato la propria etichetta Wonderland – proprio per garantirsi quell’autonomia che ritenevano necessaria alla produzione artistica dei propri lavori.
I Flux of Pink Indians misero in piedi Spiderleg, etichetta discografica di cui si occupava prevalentemente Derek, il bassista del gruppo, e firmarono un contratto di distribuzione con Rough Trade.
Il successo di “Neu smell” permise a Spiderleg di pubblicare nel giro di qualche mese due settepollici con dei vecchi pezzi degli Epileptics: il primo, intitolato “1970s have been made in Hong Kong”, contiene tre canzoni che risalgono a quando si chiamavano the Licks (erano stati fregati dall’editore e derubati del master, così i pezzi vennero riregistrati con Penny Rimbaud alla batteria), l’altro è “Last bus to Debden” con altre quattro canzoni appena successive (tra cui una early version di “Tube disaster”).
A distanza di pochi mesi da “Neu smell” il gruppo registrò e autoprodusse l’album di debutto “Strive to survive causing least suffering possible”, pubblicandolo stavolta non su label Crass ma sulla propria etichetta Spiderleg all’inizio del 1982.
“…Libertà di parola un cazzo! Quando stavamo preparando il materiale per la copertina di questo disco siamo rimasti sconvolti da quanta poca libertà ci sia realmente nel nostro paese. La buona vecchia giustizia inglese, la buona vecchia libertà di parola… non è vero un cazzo. Siamo andati ad Halvedon Hatch nell’Essex dove c’è un rifugio antiatomico, per fare delle foto per la copertina di questo disco. Mentre ce ne stavamo lì fuori siamo stati avvicinati da una guardia del servizio di sicurezza che ci ha fatto sapere che né lì fuori né attorno era gradita la presenza di nessun “lurido idiota del CND” e che tra l’altro “gente come noi avrebbe ceduto volentieri le Falklands al primo coglione che fosse sbarcato sulle isole”. Dopo un’ora o quasi di prediche nazionalistiche era ormai ovvio che non ci sarebbe stato permesso di avvicinarci al rifugio né di restare nelle vicinanze, neanche per “renderci conto di persona delle opere che il nostro governo fa coi nostri soldi per la nostra protezione”, così abbiamo deciso di tornarcene a casa. Poco dopo siamo stati fermati a un posto di blocco della polizia: ci hanno intimato di scendere e siamo stati perquisiti sia noi che la macchina. Ci hanno poi chiesto degli striscioni che tenevamo nel bagagliaio, che volevamo utilizzare come soggetto delle nostre fotografie con lo sfondo del rifugio antiatomico. Dopo essersi accertati via radio che non facevamo parte né dei Crass né delle Poison Girls hanno preso i nostri nomi e indirizzi, e alla fine ci hanno lasciati andare intimandoci di “non fare altre stronzate” e “stare più attenti in futuro”. Le foto del rifugio di Halvedon Hatch le abbiamo scattate di nascosto durante un nostro giro successivo. (…) Non possiamo crederci: viviamo in uno stato di polizia. Esci fuori dal limite, e loro ti rimetteranno a posto subito. La nostra posta adesso viene aperta e controllata, non sappiamo da chi. Ehi, fa’ attenzione: penso che adesso stiano controllando anche te…” [dalle note di copertina di “Strive to survive”]
L’album contiene tutto il mondo anarcopunk di allora, o almeno ce la mette tutta a trattenerlo tra le braccia: dalle rivendicazioni alle proteste, dalle urla ai gemiti, dichiarazioni vegetariane ed animaliste, volantini scritti in fretta e vere e proprie poesie, rabbia insofferenza e introspezione, assalti al cielo e profondità marine.
Dove le Poison Girls e i Crass (gruppi i cui componenti avevano mediamente un’età molto maggiore rispetto a quella del proprio pubblico) puntavano ad accendere la consapevolezza, a smuovere le coscienze e a far aprire gli occhi e le menti, il suono dei Flux Of Pink Indians, tutti con poco più di vent’anni addosso, va a grattare ferocemente le croste dell’indifferenza giovanile e getta benzina sui fuochi di ribellione: ciascuna canzone è scritta secondo una prospettiva orizzontale ed è un invito esplicito ad osare, a muovere il culo e sbattersi per cambiare la propria vita senza aspettarsi che il cambiamento arrivi grazie a qualcun altro.
Questa è “Some of us scream, some of us shout”:
Si spendono miliardi per distruggere la terra
mentre milioni di persone muoiono di fame.
Dove abbiamo sbagliato?
Forse voi non pensate che tutto questo sia sbagliato.
Noi diciamo tutti insieme: date da mangiare a chi muore di fame.
Affanculo le bombe.Per tutta la nostra vita veniamo spintonati.
Alcuni urlano, altri gridano
ma pochi si lamentano e protestano, mentre tutti gli altri sorridono felici.
Perché accettare una vita così?
I nostri corpi passati al setaccio
veniamo costretti al nostro posto, spazzolati e pettinati per bene.
Alcuni ci stanno, altri non sono d’accordo.
Alcuni rifiutano questo modo di vivere
e pagano il prezzo per vivere come vogliono.E tu chi sei? Cosa sai?
Cosa fai? Cosa stai facendo adesso?
Perché lo fai?
Il gruppo prese la decisione di non promuovere “Strive to survive” (niente pubblicità sulla stampa musicale né copie promozionali ai giornalisti e alle radio), affidandosi al passaparola, alla diffusione militante oltre a quella tramite Rough Trade, e al sostegno attivo dei fan. Per come funzionava l’ambiente discografico britannico sembrava una decisione suicida, e invece si rivelò una strategia vincente: il disco vendette ventimila copie in pochi giorni.
Il gruppo si era guadagnato un seguito molto solido, e la piccola Spiderleg stava ottenendo un buon successo commerciale: anche “Strive to survive” conquistò il primo posto delle classifiche indipendenti e le uscite successive dell’etichetta (i dischi di Subhumans, the System, Amebix, Alternative etc.) si piazzarono tutte tra i top 20.
Erano dischi tenuti insieme da un certo tipo di ragionamenti, oltre che dalla voglia di fare musica, e i fan se n’erano per certo accorti e dimostravano di apprezzare.
I Flux of Pink Indians realizzarono nel marzo 1984 il loro disco successivo, il doppio “The fucking cunts treat us like pricks”, per grande parte incentrato sulla violenza sessuale subita da una loro compagna e fortemente critico del maschilismo e del sessismo.
Il suono di questo loro secondo album è completamente diverso dal precedente: le canzoni punk di protesta così pestone, sbeffeggianti ed agguerrite che li avevano fatti conoscere ed apprezzare lasciano il posto a feedback, sovraincisioni e dissonanze disposte intorno a testi laceranti. E’ un lavoro intriso di rabbia, sofferenza e disperazione: leggendo certe interviste sulle fanzine pare quasi che i Flux si fossero convinti che a nessuno ormai fregasse qualcosa dei testi delle canzoni, così da spingere la gente a concentrarsi sulle parole rendendo la musica praticamente inascoltabile. Malgrado la difficile fruibilità il disco ebbe un buon successo di vendite, ma si alzò altrettanto presto di fronte e tutt’intorno al gruppo un muro di aperta ostilità.
Questa è “Desire”:
Mi fa schifo chi dice apertamente
che l’aggressione sessuale fa parte della nostra natura più profonda,
che tutti sognamo di venire stuprati.E’ un inganno, una scusa per chi è confuso.
Non sono cose che ci si sogna la notte.
Ti hanno cacciato a forza in gola questa merda, questo spettacolo schifoso
finché non riuscirai più a vedere coi tuoi occhi.
Ti hanno dato merda da mangiare ad ogni pasto.
E mentre ci instupidiamo ci sentiamo a nostro agio fra le oscenità.Bene, vi dico che ne ho abbastanza.
Tenete la gente ipnotizzata con le vostre bugie, con oscenità e maltrattamenti
così la gente non potrà mai rendersi conto che nella vita c’è molto di più.Che la vita non è raspare per terra
in cerca di nuovi scherzi, di nuova merda, di nuove tette.
Quelle fighe di merda ci trattano come cazzi.
Quei cazzi di merda ci trattano come fighe.
E questo è un estratto da “Blood lust rite”:
“…777 fra civili e militari inglesi sono stati feriti durante il conflitto delle Falklands. A questi vanno aggiunti 255 morti. I dati del ministero della difesa riassumono 4 casi di perdite di braccia, 16 di perdite di gambe, 9 amputazioni del piede, 1 amputazione parziale del piede, 13 feriti agli occhi, 12 casi di danni permanenti all’udito, 120 ustionati, 59 feriti al cranio, 58 fratture, 72 ferite d’arma da fuoco, 195 ferite diverse e lacerazioni, 109 menomazioni da congelamento, 17 casi di danni psicologici considerati gravi, 13 avvelenamenti da inalazione di gas, 39 slogature e distorsioni, 39 feriti di gravità minore. Dei 120 ustionati, 17 presentano ustioni su più del 20% dell’epidermide. Due dei feriti agli occhi sono rimasti ciechi – uno da entrambi gli occhi, l’altro da un occhio. Occhio per occhio, occhio per occhio…”.
L’album esce che il rumore della guerra delle Falklands è ancora forte nell’aria, e il governo Thatcher è alle prese con una campagna moralizzatrice che ha il preciso intento di mettere a tacere gli avversari politici. Con il pretesto di ripulire i negozi di dischi e le librerie dalle pubblicazioni ritenute “oscene” e “pornografiche” la polizia ha già fatto chiudere o ha compromesso seriamente l’attività di parecchi piccoli editori e distributori indipendenti.
Con questo disco i Flux Of Pink Indians scelgono esplicitamente da che parte stare: osceno è lo stupro di una ragazzina, pornografica è la conta dei morti e dei feriti. Oscenità è la guerra, pornografia è la violenza del potere.
Il titolo, i testi espliciti delle canzoni e i disegni in copertina (opera di Andy Palmer, chitarrista dei Crass) costarono a “The fucking cunts” il bando delle grosse catene nonché di grande parte dei negozi di dischi in tutto il Regno Unito.
In una loro lettera, raccontandomi delle varie peripezie attraversate per pubblicare l’album, i Flux mi avevano rivelato che “…la copertina è una versione di ripiego. Il progetto originale prevedeva fotografie con soggetti simili agli attuali disegni, ma non è stata accettata da nessun stabilimento tipografico. Hanno acconsentito a stampare la versione coi disegni perché li abbiamo convinti che sono schizzi di un artista famoso…”.

Il proprietario di Spectrum, un negozio di dischi di Northwich, ricevette un giorno la visita inaspettata della buoncostume: la polizia lo denunciò per aver esposto “materiale contrario alla pubblica decenza” in vetrina e sequestrò tutte le copie disponibili in negozio delle compilation “Bullshit detector” e dei dischi di MDC, Crucifix, Dirt, Icons of Filth, Crass e Dead Kennedys. Lui al processo se la cavò con una grossa multa, ma dei dischi incriminati venne disposta la sospensione della distribuzione commerciale in attesa che la corte si pronunciasse – si dibattè a lungo sull’uso e sull’abuso della parola “fuck” nei testi.
Peggio accadde al proprietario di Eastern Bloc, un negozio di Manchester, reo di aver esposto “The fucking cunts” in vetrina assieme ad altri dischi di Dead Kennedys e Crass e di essersi rifiutato di sbarazzarsene come intimatogli dagli agenti di polizia: venne incriminato, processato e condannato per commercio di “materiale osceno” a minori.
I Flux Of Pink Indians si ritrovarono coinvolti in un processo per pornografia dal quale uscirono indenni per un soffio, ma solo qualche tempo dopo un giudice condannò i Crass e il loro album “Penis envy” per via della copertina e dei testi espliciti.
Nell’agosto del 1984 il gruppo si impegnò nella raccolta di fondi a sostegno dei minatori in sciopero da marzo, in una serie di serate collettive assieme a Chumbawamba, D&V, agli islandesi Kukl (il gruppo in cui cantava Bjork, ben prima dei Sugarcubes) ed altri.
A far accanire Margaret Thatcher contro i minatori non furono solo dei motivi economici, ma precise scelte politiche: l’obiettivo del governo conservatore era lo smantellamento del settore pubblico, da realizzarsi sopprimendo le aziende nazionalizzate – tra cui il settore minerario – che non garantivano grossi profitti, e aprendo al capitale privato quelle che invece rendevano. Uno scontro tra due diverse maniere di intendere la società e la vita: l’idea di comunità e solidarietà opposta al “no society” della Thatcher, all’ognuno per sé.
L’azione dello stato non ebbe a limitarsi alla repressione poliziesca: multe e confische di beni colpirono tutte le organizzazioni sindacali che organizzarono o appoggiarono i picchetti. Alcuni tribunali del paese dichiararono addirittura “illegali” gli scioperi e trascinarono in giudizio i sindacalisti.
Se vi mettete a curiosare su YouTube tra i documenti indipendenti disponibili a proposito degli scioperi di allora (la BBC al tempo era stata accusata più volte di offrire versioni addomesticate e parziali degli scontri), potrete trovare testimonianza di cariche feroci di polizia contro i manifestanti, di scorrerie di agenti a cavallo che manganellano donne e anziani e gli sguinzagliano contro i cani.
L’aria che si respirava in Inghilterra stava dunque cambiando in fretta ed anche la scena artistica alternativa ed antagonista inglese si ritrovò a soffrirne e a doversi confrontare con difficoltà che si stavano facendo sempre più pesanti. Il disco successivo dei Flux of Pink Indians, l’EP “Taking a liberty”, ebbe riscontri di vendita deludenti, fatto che portò ad alcuni attriti tra i componenti ed allo scioglimento del gruppo, e che di lì a poco spinse Derek alla chiusura di Spiderleg e alla creazione di una nuova etichetta discografica.
Tagliato più corto il nome in Flux, nel giro di pochi mesi il gruppo si riformò e si consolidò attorno a Colin Latter (voce), Derek Birkett (basso), Kevin Hunter (già chitarrista degli Epileptics) e Martin Wilson (batteria). Questa è la formazione che realizzò nell’agosto 1986 il terzo album “Uncarved block”, la prima uscita della neonata label One Little Indian.
L’album è registrato e prodotto da Adrian Sherwood e ci suonano dentro, tra gli altri, due suoi storici sodali come Bonjo Iyabinghi Noah degli African Head Charge e Lincoln “Style” Scott dei Dub Syndicate. C’è dentro persino Ray Shulman dei Gentle Giant – un notevole gruppo prog attivo negli anni Settanta e piuttosto noto in Italia. Oltre che farsi un nome in ambito dub/reggae con parecchie produzioni visionarie, Sherwood aveva lavorato con gente come Mark E. Smith dei Fall, le Slits e il Pop Group, e aveva già frequentato sia i Crass che i Southern Studios di John Loder per via del lavoro con Annie Anxiety.
La scena indipendente anarcopunk si era ingrossata parecchio, il signor padrone se n’era accorto ed era passato al contrattacco: è stato così che l’A cerchiata, spesso a sproposito e per bieca strategia pubblicitaria, si è ritrovata a marchiare numerose produzioni discografiche della metà degli anni Ottanta. Bisognava stare attenti a chi e cosa si comprava: i palchi dei concerti erano pieni di gente che inneggiava al sabotaggio e all’insurrezione contro lo stato restando col culo bene al caldo di un editore multinazionale e protetta da un servizio di sicurezza, gli scaffali dei negozi erano carichi di dischi di sedicenti gruppi punk anarchici con l’A cerchiata posta bene in vista sulla copertina …ma stampati da etichette tutt’altro che indipendenti e tutt’altro che anarchiche.
L’anarchia veniva offerta e commercializzata come atteggiamento moderno e menefreghista in contrapposizione all’impegno laburista e al rigore socialista come pure al vecchiume ideologico conservatore, anarchia come segno grafico innovativo per chi desiderava distinguersi dalla massa, anarchia come strategia pubblicitaria per vendere l’invendibile (e se pensate che io stia esagerando, provate a dare un’occhiata a quante magliette portachiavi borse tazze accessori e cento altre cazzate inutili marchiate col l’A cerchiata si possano acquistare oggi in rete con un click).
Questa è “Children who know”:
Gli stessi bambini che giocano alla rivoluzione nel parco
Le stesse vecchie idee che brancolano nel buio
Gli stessi due bastoncini strofinati per creare una scintilla
La stessa gente rimasta in piedi da sola e nuda
E io mi aggrappo disperatamente a quelle due idee che mi sono rimaste
Prima di tutto, io non credo a niente e in niente
Poi, credo a tutto e in tutto
E’ insieme che tento di mantenere la rotta ma intorno tutto si rifiuta di cambiare
E il mondo no
Qualsiasi espressione del mio amore ferisce
e il martirio non serve a niente.
Questo è un breve estratto da “Footprints in the snow” che fa riflettere parecchio:
Cammino sotto il sole e cammino mentre cade la neve
Penso in fretta e ragiono lentamente
Le mie idee vanno e vengono come onde che si infrangono sulla spiaggia
come desideri che crescono e vogliono sempre di più
In un campo lontano un contadino che semina
In un campo lontano un’altra bomba che cade
Sopra di me un gabbiano in volo
Sopra di me il rombo di un aereo da caccia
Un altro soldato che si prepara a morire
Da piccole sorgenti nascono grandi fiumi
Da pensieri semplici nascono grandi idee
Ho provato sulla mia pelle
come si possano raffreddare le cose in cui credo
spingendomi a ritirarmi prima di diventare vecchio.
Dopo la guerra delle Falklands e la rielezione di Margaret Thatcher, dopo lo sciopero dei minatori, dopo i processi per oscenità e dopo lo scioglimento dei Crass, secondo me i Flux si erano resi conto che l’anarcopunk era stato stritolato dal mercato e spogliato del suo carattere ribelle per divenire un “genere musicale” sotto cui catalogare i dischi nei negozi, cioè merce e niente più, e avevano deciso di provare una nuova strada espressiva tentando di rimanere quanto più possibile fedeli a sé stessi.
“Uncarved block” è decisamente distante dal suono hardcore punk tipico della metà degli anni Ottanta: è magmatico e rimbombante di percussioni e suoni sfuggenti ed offre musiche dai contorni mai ben definiti, ricchi di ombre ed evoluzioni. L’album è un nuovo spazio sonoro e, secondo me, rappresenta un notevole salto di qualità complessiva della loro offerta, e musicale e poetica.
Una differenza evidente rispetto alla produzione precedente è che il disco è “cantato” invece che “urlato”, il pezzo conclusivo “The stonecutter” è addirittura sussurrato.
Niente più canzoni costruite intorno a due/tre accordi, niente più dissonanze disperate ma stratificazioni complesse assai suggestive: se ascoltate con attenzione, vi ritroverete i semi di certe soluzioni sonore innovative che si sarebbero ascoltate solo a distanza di anni, dentro a certi dischi incendiari considerati tra le pietre miliari dell’ultima parte del millennio.
Per concludere, è l’album dei Flux che più amo – è un lavoro profondamente anarchico finalmente libero da condizionamenti e forzature stilistiche ed ideologiche, un lavoro tridimensionale anzi multidimensionale in un panorama anarcopunk ormai appiattito e frammentato quando non polverizzato.
E’ un’esplosione di creatività in mezzo a un mare nero in tempesta che però disorienta i sostenitori storici e l’intera scena, o meglio quello che ne resta: i detrattori si contano a centinaia, fra questi anche il chitarrista Kevin Hunter, che in “The day the country died” dichiara senza mezzi termini a Ian Glasper che questo è “un disco di merda” che “non c’entra niente col punk, un disco disarmato e senza coglioni. (…) Comunque alla gente non gliene fregava più niente di noi, voleva ascoltare The Jesus and Mary Chain…”.
Malgrado la buona accoglienza della critica “Uncarved block” non vende granché e il gruppo, deluso, si scioglie nel 1987. Peccato: di cose da dire e da offrire, secondo me, ne avrebbero avute ancora parecchie.
One Little Indian in tempi recenti ha cambiato nome in One Little Independent. Nel frattempo è divenuta un’etichetta discografica assai importante, che vende milioni di copie di artisti tipo Sugarcubes, Shamen, Chumbawamba, Skunk Anansie, Bjork, Test Dept. o Cody Chesnutt. Il successo planetario pare non aver minato le basi di indipendenza e apertura mentale dei fondatori: accanto ai best seller OLI mantiene in catalogo anche i vecchi dischi della Crass Records adeguatamente restaurati (sono tutti da qualche tempo in progressiva ristampa, e resi disponibili sia in vinile che in formato liquido e, alcuni, su compact disc), come pure le vecchie registrazioni dei Flux.
Marco Pandin
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Foto di copertina: Flux a Nottingham, maggio 1984. Foto di Marco Pandin


