copertina del disco soul possession.

Annie Anxiety: Bicchieri di birra stantia allineati sul muro e cicche che galleggiano

Marco Pandin ci racconta di Annie Anxiety

La prima volta che sono stato a Dial House, nel giugno del 1983, ero insieme al mio amico Gino, il cantante degli Wops – allora erano il primo e unico gruppo punk veneziano. E’ venuto a prenderci alla stazione della metropolitana Phil Free, chitarrista dei Crass, su una macchina scassata che guidava scalzo e senza allacciare la cintura di sicurezza, ridendo in continuazione. Ci teneva parecchio a chiederci dell’Italia: le solite cose, sapeva dire un po’ di parolacce in italiano senza conoscerne l’esatto significato, voleva sapere se il viaggio era andato bene, se Londra ci piaceva, se avevamo problemi col cibo e col cambio in sterline. Lo sorprendeva che in piazza san Marco non ci si potesse arrivare con la macchina o con l’autobus, e quando gli abbiamo raccontato che a Venezia le strade sono fatte d’acqua e ci corrono sopra barche e vaporetti lui si è messo a ridere ancora di più – penso volesse soltanto prenderci in giro.

Restiamo lì ad Epping a parlare con Penny, Gee, Steve e Phil fino a sera, fanno più domande loro a noi che noi a loro. Prima di partire Gino ed io immaginavamo di andare a infilarci in chissà quale covo sovversivo e correre chissà quali rischi e invece qui c’è solo gente tranquilla e pacifica, un bell’orto biologico, una panchina al sole, gatti e pane fatto in casa. Si chiacchiera per ore (l’intervista per intero è apparsa in “ANOK4U” e in seguito l’ho riportata in coda a “No love, no peace”) di un po’ di tutto – gli abbiamo chiesto delle difficoltà dei loro esordi, della rete solidale formata dai vari gruppi e musicisti anarcopunk, della gestione della loro etichetta discografica che nonostante tutto stava avendo un successo commerciale sempre maggiore, del fatto che era stato annunciato un loro concerto alla manifestazione contro l’installazione dei missili a Comiso, delle ricadute sociali della guerra delle Falklands che si era conclusa solo qualche mese prima… Fra le altre cose gli spiego che sto raccogliendo da tempo le traduzioni dei loro testi e che vorrei pubblicarle in un libro autoprodotto. Penny e gli altri approvano e per festeggiare la cosa, al posto di un buon bianco fresco che per i nostri gusti veneti sarebbe stato molto meglio, beviamo litri di thé accarezzando i gatti, tutti particolarmente sensibili al fascino lagunare.

Con Gino a un certo punto ci rendiamo conto che per tornare a Londra ci vorranno come minimo due ore, quindi facciamo pipì, salutiamo tutte e tutti e ci avviamo a piedi verso la fermata dell’autobus più vicina. Siamo per strada quando a un certo punto accosta una macchina con due a bordo, ci offrono un passaggio e noi accettiamo. Lui è tranquillo, lei un po’ nervosa anzi è nervosa forte, fuma come se non ci fosse un domani. Se ne stanno praticamente zitti per tutto il tempo e va a finire che dopo un po’ ci mollano a una fermata della metropolitana, appena il tempo di un goodbyethankyou veloce dal finestrino e se ne vanno via.

Torno a casa e mi do da fare. Per me è un periodo piuttosto complicato: mio padre improvvisamente si ammala e passa periodi sempre più lunghi in ospedale. Verso fine anno mi scrive Paolo Finzi di A/Rivista Anarchica: dice che lo incuriosiscono le cose che scrivo su Rockerilla e mi invita a Milano ad una riunione della redazione: ci si accorda per un articolo di prova che viene poi accolto e pubblicato (proprio da lì, ma queste sono cose che già sapete, inizia una bella e felice collaborazione che sarebbe durata 37 anni). Passa l’inverno e quando verso metà aprile del 1984 chiamo i Crass a Dial House per dirgli che avevo praticamente finito il libro con le traduzioni dei testi, trovo attiva la segreteria telefonica con una lista delle date dei concerti previsti nelle settimane successive. Prendo nota. Do un’occhiata alla cartina dell’Inghilterra, tutti gli altri posti mi sembrano difficoltosi da raggiungere, un paio neanche capisco dove sono ma il 2 maggio a Nottingham c’è un concerto a sostegno del giornale pacifista Peace News – suonano Annie Anxiety, D&V, Flux of Pink Indians e Crass. Dovrei farcela.

Locandina del concerto a Notthingham

La mia amica solita dell’agenzia di viaggi riesce a imbucarmi in una comitiva in partenza dal Marco Polo il primo maggio. Arrivo a Londra, mi appoggio da gente che conosco e la mattina dopo prendo l’autobus per Nottingham e sbarco davanti al Marcus Garvey Center neanche un paio di minuti prima che arrivassero i furgoni dei tecnici e dei musicisti. Ed ecco una sorpresa enorme: con Penny, Steve, Gee e Phil che già conoscevo scendono dal van anche quei due tizi che l’anno prima ci avevano dato il passaggio al ritorno da Dial House. Viene fuori che lei è Annie Anxiety, lui è Pete Wright e suona il basso coi Crass.

“…Ho incontrato Steve dei Crass proprio sotto casa mia sulla Quinta strada pochi giorni prima dei loro concerti a New York. Era proprio fighissimo. Io me ne stavo là fuori a fumarmi una sigaretta e lui si avvicina e mi si siede accanto. Erano le due di notte, ce ne siamo andati a fare un giro insieme. Poi sono andata a vederli suonare. Erano tipi a posto ma non si distinguevano granché l’uno dall’altro, tutti vestiti di nero e molto molto seri. Penny si rivelò particolarmente cordiale. I Crass suonarono con i Contortions, cosa secondo me molto positiva, tutt’e due i gruppi avevano quel buon piglio atonale no wave anticonformista che andava forte allora. Che serata strana, con tutte le luci accese in sala come fossimo a una festa delle scuole superiori, o in una sala da ballo portoricana con sopra il palco due gruppi disperatamente fuori posto. Le nostre diversità culturali erano abbaglianti. La scena punk di New York era molto tipo delinquenza giovanile warholiana, la nostra rivolta era nel nostro modo di sopravvivere. La scena inglese, il giro dei Crass voglio dire, era molto più politicizzata. La cosa mi aveva preso molto, così ho mollato tutto e sono andata a vivere con loro. Quando i miei amici di New York ricevevano le mie lettere da Dial House, pensavano fossi ricoverata in una clinica…” (Annie Anxiety, in “Punk is dead, punk is everything” di Brian Ray Turcotte – Gingko Press, 2007).

Come io riconosco loro, anche loro si ricordano di me e ci mettiamo a ridere. Annie era piuttosto misteriosa e per i cazzi suoi anche quel pomeriggio, sempre nervosa e seduta fuori sugli scalini con una sigaretta accesa. Ma con Pete sembra che ci si intenda forte: lo diverte il mio modo di parlare e io trovo interessante il suo. A quelle due informazioni che mi chiede sui gruppi anarchici storici italiani io non so proprio rispondere. Sono anarchico a modo mio, un po’ come tutti vabbé, ma sono un ignorantone – nel senso che sì conosco qualcuno in giro, anzi ho cominciato da poco a scrivere su A/Rivista Anarchica, ma non sono iscritto ad alcuna federazione locale né ho letto granché dei testi storici di base. Cioè quasi niente Malatesta e praticamente niente Bakunin, ma ho letto e riletto molto Crass e Flux e Poison Girls, molto Lawrence Ferlinghetti e Allen Ginsberg, molto Fabrizio De André. La mia formazione è fatta di quei dischi pestoni e tutti storti che nessuno voleva ascoltare, di libri sbagliati e scritte sui muri, di quelle fanzine fatte da ragazze e ragazzi disperati e persi quanto me, delle suggestioni che mi hanno lasciato quelli che ho incontrato.
Certe compagne e compagni anarchici più vecchi di me mi hanno amato profondamente per come sono: non mi hanno mai fatto pesare la mia ignoranza abissale dei perché e dei percome storici, e si sono incuriositi del mio approccio disordinato e della mia filosofia raccogliticcia. Pete è stato fra questi: nel tempo abbiamo continuato a scriverci e a sentirci, è venuto molto spesso a trovarmi così come casa sua è stata ed è ancora la nostra base in Inghilterra. Negli anni lui e Jude, la sua compagna, sono diventati presenze importanti e molto care per me e per la mia famiglia. Pete è una specie di fratello maggiore a cui voglio tanto bene.

Al concerto per Peace News, di fianco al palco, era stata allestita una grande tavola imbandita collettiva dove chiunque portava da mangiare e da bere e si poteva servire liberamente. La bottiglia di grappa di ramandolo arrivata dall’Italia dura solo una manciata di secondi – era meglio se ne portavo due. Succede che Annie ed io ci ritroviamo seduti vicini, lei mi sorride e a un certo punto si mette a ridere, quella sua risata roca che mi lascia dentro il segno. Mi chiede di me, di casa, dei miei – le racconto che in Inghilterra mi piace restarci ma non a lungo, dopo un po’ mi viene nostalgia di casa. Anche lei, mi dice, qui si sente un po’ fuori posto. Mentre si trucca di bianco la faccia, dice che stasera o domani dovrà trovare un po’ di tempo per chiamare a casa. Mi sta mostrando delle cose sue che aveva scritto su un blocnotes quando improvvisamente qualcuno le viene a dire che tocca a lei e lei molla tutto, afferra una parrucca bionda dalla borsa, si fionda sul palco, si concentra solo per una manciata di secondi e attacca.

Non è un cantare vero e proprio, è più un salmodiare, un recitare, ululare, rantolare, sussurrare, dimenarsi e urlare su un tappeto sonoro complicato: sono nastri di origine diversissima, cose prese per strada e dalla radio mescolate a loop di vecchi dischi fruscianti e a suoni inventati col sintetizzatore dalla sua amica Kishi Yamamoto e intrecciati in forma stupefacente dall’allora marito di Kishi, il beatmaker Adrian Sherwood.

La gente si accalca sotto il palco come ci si accalca sotto a una fontana d’acqua fresca: è musica forse difficile da avvicinare, da comprendere, da ballare eppure ci bagna tutti, ci rinfresca, ci disseta e ci fa stare bene. Annie cambia forma a seconda delle basi: adesso è un temporale, poi diventa una sirena, una gatta che fa le fusa e viene a strofinarsi sulle gambe, un ipnotico serpente tentatore: era come se riuscisse, non so per quale potere, a trasformare ogni sua parola e gesto in una cascata di emozioni che riuscivo a sentire a livello fisico.

La sua performance dura poco, una ventina di minuti forse, ma per me è un vero e proprio shock. Lei scende dal palco, torna al tavolo comune, prende una tazza di thé e riprende a parlarmi e sorridermi e domandarmi cose come se non fosse successo niente – io per dire stavo ancora cercando di rimettere insieme i pezzi. E’ stato proprio questo a conquistarmi, la naturalezza con cui aveva mescolato creatività e banale fare quotidiano, ed è stata la ragione che mi ha spinto a proporle di venire in Italia per qualche giorno. Alcuni miei compagni anarchici stavano organizzando fra la fine di settembre e i primi di ottobre un importante convegno internazionale a Venezia, e pensavo sarebbe stato bello, con questa scusa, portarla a fare un giro nella mia città e trascorrere qualche giornata insieme. Mi sorprende che l’invito esca così spontaneamente dalla mia bocca – forse sotto sotto c’era anche dell’altro, qualche filo di speranza. Mi sorprende di più la sua risposta, arrivata veloce mescolata a una delle sue risate roche: “Magari! E quando si comincia?”.

La porta è chiusa
Cervello e pugno stretto forte
Le finestre sono ridipinte con arsenico e lacrime
La luce non può attraversarle, ora
Sono avvolte nell’ovatta come in un bozzolo
Si resterà al buio per anni, adesso
E’ finita
Bicchieri di birra stantia allineati sul muro e cicche che galleggiano
Pozzanghere di latte cagliato
Il sangue si coagula nel nostro campo di forze
Possiamo frantumare uno specchio e sanguinare, bestemmiare e scopare
Rotolandoci tra le macerie
Precipitando giù per le scale
Ora non c’è più nulla
I sorrisi cadono dalle nostre facce così come la placenta si stacca e cade a terra
Ora non è rimasto nulla
Soli, in mezzo ai fuochi velenosi
Insieme ci copriremo di piaghe per poi marcire e morire.

Annie è solo un po’ più giovane di me, tre-quattro anni direi, è nata in un quartiere periferico di New York City da un tipografo e una casalinga con l’hobby della pittura. A diciassette anni decide di andarsene di casa per girare il mondo: Inghilterra, Germania, Olanda, Francia e anche Italia. L’Europa le piace, dice che qui c’è un modo di vivere tutto sommato meno complicato che in America. Annie dipinge, disegna, scrive poesie e brevi racconti: sono frasi spezzate, spesso concetti appena abbozzati, così come essenziali e geometrici sono i suoi disegni.

Mi fa: “…Quando disegno succede esattamente lo stesso di quando mi metto a scrivere una poesia. Non so esattamente che cosa verrà fuori, nel senso che non decido prima un soggetto o un argomento. Lascio che le idee vengano fuori da sole. Scrivo e disegno dove capita, su un foglio qualsiasi, sul muro, sul tavolo. Ho l’abitudine di portare con me qualche colore, delle matite e un blocco. Finora ho collezionato decine di quaderni, pieni zeppi di poesie, di frasi buttate giù, di bozzetti o disegni. Succede lo stesso quando voglio trovare della musica per le mie poesie. Prendo un registratore e mi metto a registrare tutto quello che mi capita a tiro, anche il rumore delle macchine che passano per la strada…”.

Al loro concerto a New York Annie fa amicizia con Steve e Penny dei Crass, così un giorno arriva a Londra, si stabilisce nella comune di Epping con loro e ci rimane per degli anni. Con l’aiuto in studio di Penny Rimbaud, nel 1981 Annie pubblica il settepollici “Barbed wire halo” su label Crass Records: si tratta di due poesie, “Horror” e “Cyanide tears” alle quali fanno da sfondo rumori e suoni tratti da quei suoi nastri creativi. Nell’anno successivo la piccola casa editrice indipendente Xntrix, legata a Lance D’Boyle delle Poison Girls, pubblica una sua raccolta di scritti intitolata “Tropical depression”. Col frequentare Adrian Sherwood, Annie si ritrova coinvolta nell’attività dei gruppi reggae-dub legati alla sua etichetta, la On-U-Sound, tra cui Missing Brazilians, Dub Syndicate e Creation Rebel come scrittrice di testi e occasionale tastierista. Alcuni rasta suoi amici collaborano alle sessions del suo album di debutto “Soul possession”, prodotto da Sherwood e Rimbaud e pubblicato da Corpus Christi all’inizio del 1984. Messo in vendita a prezzo massimo di sole 4 sterline, quasi la metà del prezzo abituale delle produzioni indipendenti di allora, il disco vende l’intera prima tiratura di ventimila copie in meno di tre settimane.

Penso che questo disco sia stato importante. Più che per la musica in sé, più che per l’arte, più che per l’impatto e la costruzione poetica dei testi, penso sia riuscito a dare una specie di svolta decisiva alla nostra percezione complessiva delle cose e del mondo. Invece che limitarsi a dare l’indicazione di una nuova strada, “Soul possession” dimostrava concretamente che l’anarcopunk poteva oltrepassare le barriere di genere stilistico, sconfinare verso zone sonore diverse da quelle ascoltate prodotte e riconosciute fino ad allora e spingersi nella scrittura di testi non necessariamente espliciti e urlati pur rimanendo assolutamente radicale, militante e incompromissorio. Si trattava di avere il coraggio di fare un passo in avanti per rompere gli schemi espressivi che ci ingabbiavano – ed Annie c’è riuscita. Trovo assai significativo che a pensare questo disco, costruirlo e realizzarlo, sia stata una ragazza poco più che ventenne. Trovo assai significativo che il suo essere punk sia stato così individuale e caratteristico e altro dagli stereotipi, così come la sua idea di anarchia sia stata così aperta e curiosa, distante dalla cattiva militanza che caratterizzava la nostra scena. Con questo disco l’anarcopunk ha alzato la testa, e ha osato mettersi in discussione. Peccato non sia successo qualcosa di simile anche nel nostro paese: allora, chi non rientrasse nei canoni identitari ufficiali per rigorosa appartenenza di stile e provata devozione alle parrocchie cittadine veniva prontamente e rancorosamente spinto ai margini.

Per cercare di raccontare questa deriva, scrivevo così in “Nel cuore della bestia”:

“…Secondo alcuni, certi gruppi punk non erano abbastanza schierati politicamente, altri non erano correttamente, esplicitamente e coerentemente impegnati, altri ancora non completamente affidabili. Erano dei poseurs borghesi certi gruppi punk anarchici come i Chelsea Hotel perché cantavano in inglese e non in italiano, ma c’era da obiettare su altri gruppi che cantavano in italiano e non in inglese come i Detonazione perché non erano abbastanza punk o non sufficientemente anarchici. Era sbagliato seguire i gruppi del GDHC perché puntavano troppo sull’abilità tecnica ed i loro testi non erano sufficientemente politicizzati, ma c’era da ridire anche su chi seguiva i Nabat perché scrivevano testi troppo politicizzati e reali e comunque erano degli skinhead e non dei punk. Erano dei filocapitalisti venduti i Raw Power ed i Negazione perché avevano cominciato a fare dei concerti e stampare dischi all’estero ottenendo un buon riscontro, ma erano dei bastardi fottuti anche i Crass perché non avevano accettato di suonare a Comiso e i Conflict perché non si fidavano e non davano via i loro dischi in conto vendita. Erano delle teste di cazzo i Franti che si erano rifiutati di partecipare ad una manifestazione organizzata dall’Arci in solidarietà coi minatori inglesi in sciopero, così com’erano dei bastardi traditori compromessi col sistema quelli del Victor Charlie che si erano associati all’Arci pur di riuscire a tenere aperto il loro centro. E che cazzo…”.

Annie in Italia poi ci viene per davvero. La accompagna Pete Wright dei Crass in una decina di giorni di concerti (Bologna, Carpi, Merano, Milano, Padova), spesso a fianco dei Detonazione, che culminano con la performance al Convegno internazionale anarchico di Venezia, dove condivide il palco con il Politrio di Giorgio Canali, Kina e Franti (e con i Contrazione che sono riusciti ad imbucarsi all’ultimo momento).

In campo santa Margherita, una birra ciascuno, Annie ed io siamo seduti vicini a Murray Bookchin – io che gli guardo quelle mani incredibili da muratore e da tagliaboschi, lei che alterna i sorsi poggiando il bicchiere per succhiare fumo dall’ennesima sigaretta accesa, nell’altra mano una matita. Scrive, scrive, scrive sempre e dappertutto – frasi, pensieri, uno schizzo, un commento. Una poesia sul bordo di un pezzo di carta raccolto da terra che poi, strappato a pezzettini come coriandoli di un carnevale punk, va a finire dentro a un cestino dell’immondizia.

Articolo di Marco Pandin, stella_nera@tin.it

Le foto presenti nell’articolo di Annie Anxiety sono del concerto del 2 maggio 1984 a Nottingham a sostegno del giornale pacifista Peace News. Le foto sono state scattate da Marco Pandin

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