Bob Ostertag – Musica Politica Gente e Macchine
Marco Pandin di Stella Nera Edizioni ci parla di Bob Ostertag e del suo libro “Musica Politica Gente e Macchine”
“…La politica, nella sua accezione più convenzionale, riguarda la lotta per gli equilibri di potere che coinvolgono i grandi nodi della rete delle relazioni umane con le sue molteplici diramazioni… Molte delle attività politiche coinvolgono persone che occupano posizioni forti nella rete e che cercano di difendere la propria posizione… Ma c’è un altro tipo di politica che cerca di ristrutturare la rete stessa, in modo da ridistribuire il potere più equamente. Chiamiamo questa politica “insorgente”. La politica insorgente è necessariamente sperimentale, senza regole e dirompente. Esamina, verifica, espande, rompe e ristruttura i fili tra i nodi nella rete. E’ sempre incentrata sulla lotta. Ciò è talmente vicino alla mia estetica artistica che sotto questa luce è difficile per me finanche riconoscere la linea di demarcazione tra arte e politica, poiché tutto il mio lavoro riguarda in qualche modo la lotta contro i limiti sociali e fisici del mondo: verificare, esaminare, estendere, rompere e ristrutturare. Cercare possibilità laddove prima non ce n’erano, creare nuove connessioni e rompere quelle vecchie. Si riferisce principalmente alla lotta – lotta contro e dentro il mondo sociale e fisico. Altri possono fare musica pacifica sulla bellezza e la simmetria, e celebrare il mondo così com’è. Per me la lotta è la radice, la fonte…” (ritagli da “Musica politica gente e macchine”)
Bob Ostertag, dunque. Lo so, ve lo state chiedendo tutti: ma chi cazzo è? Risposta frettolosa: un musicista, un giornalista/scrittore e un attivista statunitense. E chi l’ha mai sentito? I più informati e appassionati tra voi staranno già scorrendo ciascuno una differente lista mentale di componenti di gruppi-meteora minori e microscopici, liste chilometriche di dischi introvabili e di cassette duplicate in poche copie. Altri si saranno già attrezzati con pc e/o smartphone affidandosi a un motore di ricerca, e avranno trovato presto un Bob Ostertag alto pelato coi baffi e il pizzetto e iperproduttivo (musica, film, libri, informatica, performance, attivismo, insegnamento eccetera) che col punk come lo si conosce qui e adesso magari non c’entra granché. Ma non è del tutto vero. Tra le note accompagnatorie di un suo album scrive: “…Io e i miei compagni non ci infilavamo spille da balia né ci facevamo la cresta, ma non sono sicuro che non fossimo dei punk. Eravamo davvero rumorosi e la nostra musica andava benissimo per il CBGB’s, dove infatti suonavamo spesso…”. Diciamo che del punk, specie di quello a stelle-e-strisce della metà/fine anni Settanta Bob è stato un coinquilino di sala prove, un compagno di palco e un fiancheggiatore. Lui conosceva, ascoltava e frequentava la scena, ma faceva tutt’altro e gli interessava tutt’altro – ad esempio i conflitti sociali, la storia, il giornalismo radicale.
Penso che Bob Ostertag sia una persona interessante, con parecchie cose da dire e altrettante esperienze da raccontare, e che abbia composto alcune opere notevoli – e se non sono grossolanamente etichettabili come “punk” tanto meglio. Un suo libro è stato recentemente tradotto e stampato in Italia: io l’avevo letto anni fa in inglese e trovo che chi si è sbattuto (letteralmente per anni) per far arrivare qui in Italia Bob e il suo libro, e le sue intuizioni, le sue riflessioni e la sua lucidità di analisi abbia fatto un grosso favore a me e anche a voi.
Ho pensato di parlarne qui perché sono convinto che questo sia un posto dove gira gente attenta e curiosa. Di sicuro non vi inviterò all’acquisto di niente, ma spero che leggendo vi si accenda un qualche fuoco dentro in testa e vi venga voglia di investigare, di approfondire e di aprire le orecchie alla sua musica così strana, carica di significati e costruita in maniera così misteriosamente attraente.
“…I pensieri che occupano le pagine di questo libro hanno inizio a Manhattan, dove mi sono trasferito nel 1978 all’età di ventuno anni per suonare, e qui finiscono, in un caffé nello stesso isolato dell’appartamento in cui vivevo. La mia vecchia porta di casa si trova adesso vicinissima alle macerie delle Torri Gemelle, proprio al limitare della zona dove si può accedere senza avere un permesso speciale. I soldati in mimetica affollano il marciapiede di fronte… Giù nella metropolitana, come spesso succedeva quando abitavo qui sopra, un afroamericano sta suonando un sax soprano. Il suono rimbalza dai muri piastrellati e dai pavimenti di cemento alle travi d’acciaio, in alto, fino a riempire la stazione… [Il sassofonista] ha un tono dolce e un bel gusto per l’ornamentazione melodica, ma invece di suonare i classici della metropolitana di New York come “Take the A train” o un “My favorite things” di ispirazione coltraniana, sta suonando “Onward christian soldiers” e nell’ascoltarlo la mia schiena viene percorsa da un brivido di freddo. Su, in strada, le bandiere americane sventolano ovunque…” (ritagli da “Musica politica gente e macchine”)
Per raccontarvi di “Musica politica gente e macchine” (era il sottotitolo di “Creative life” nell’edizione originale americana del 2009) come prima cosa mi era venuto in mente di mettere a confronto gli ambienti in cui Ostertag ed io siamo cresciuti, e tracciare dei paralleli attraverso gli anni della nostra giovinezza ed adolescenza. Certo è che le nostre terre d’origine e le nostre famiglie sono state entrambe diverse e distanti, così come diverse e distanti sono state le opportunità e le occasioni che ci ha offerto la vita, ma sotto sotto avevo il forte sospetto (o forse la pretesa) che fossimo passati attraverso esperienze e vicissitudini simili o per lo meno accostabili, e potessimo quindi avere dei punti in comune. Mentre mi apprestavo a tessere una qualche rete presumibile di relazioni, mi sono reso conto del rischio incombente di trasformare il tutto in un’impresa autoreferenziale e velleitaria. Così, molto più semplicemente, sono tornato coi piedi per terra e ho raccolto i miei appunti nella forma che segue.
“…La mia musica è spesso descritta come “politica”, e tuttavia non ho mai cercato di convincere nessuno di qualcosa, non ho mai provato a far pensare gli altri come me né di spingere qualcuno a marciare per qualcosa… Però utilizzo elementi “politici”: una registrazione di un ragazzo salvadoregno che seppellisce it padre (“Sooner or later”), immagini di guerra (“Special forces” e “Yugoslavia Suite”), memorie di amici che sono morti di Aids (“Spiral”), lettere ai capi di stato (“Dear prime minister”), audio di una rivolta queer (“All the rage”, “Burns like fire”) e altri ancora. Non uso questi elementi con l’intenzione di raggiungere un risultato politico, ma semplicemente perché sono le cose che mi muovono. Sono la mia vita, vissuta in America centrale, a New York, a San Francisco durante l’epidemia di AIDS, e negli Stati Uniti in un periodo piuttosto bellicoso del suo regno da superpotenza. Li uso perché per me sarebbe impensabile non usarli. Tutti quelli che passano la vita a fare arte hanno una particolare propensione per alcuni aspetti particolari del proprio mestiere. Alcuni pittori sono attratti dal colore, altri dalla forma. Alcuni musicisti hanno un’affinità istintiva con l’armonia, altri con la melodia. Per quanto mi riguarda, le relazioni umane in cui vivo e faccio musica sono sempre state il materiale da cui sono attratto e che richiama la mia curiosità…” (ritagli da “Musica politica gente e macchine”)

Da tutt’altra parte del mondo rispetto a Venezia, e cioè nel Colorado, uno stato americano di forma rettangolare posto all’incirca a metà strada tra la costa est e la costa ovest e all’incirca a metà strada fra il confine canadese e quello messicano, nasce Bob Ostertag grossomodo quando nasco io, lui in aprile e io in ottobre dello stesso anno. Era il 1957, e io non ho minimamente sospettato della sua esistenza fino al 1980, quando ho preso un suo disco perché ci suonava dentro Fred Frith – un chitarrista inglese che apprezzavo parecchio e che avevo conosciuto personalmente qualche anno prima col suo gruppo di allora, gli Henry Cow. In “Getting a head” la chitarra di Fred, già di per sé suonata in maniera assai poco convenzionale, viene resa praticamente irriconoscibile dal trattamento che le viene riservato. Bob aveva progettato e realizzato un sistema di tre registratori a bobina interconnessi: il passaggio del nastro magnetico sulle testine veniva reso instabile ed irregolare in maniera casuale perché questo veniva fatto scorrere attraverso degli anelli collegati a palloncini gonfi d’elio lasciati liberi in aria (si riesce a farsene una mezza idea dalla foto che sta sul retro della copertina del disco, e che riporto poco sopra), così come instabile e irregolare era il funzionamento dei registratori stessi – un aggregato di congegni analogici e meccanici, economici e traballanti. Tutt’altra cosa rispetto alla precisione matematica e alla resa sonora cristallina dei lussuosi loop progettati e realizzati da Robert Fripp, i cosiddetti “frippertronics”.
Ho poi preso il suo album successivo “Voice of America”, che documenta due performance assai agitate registrate a Londra e a New York in compagnia di Phil Minton e Fred Frith. Da allora ho poi acquistato molti altri suoi dischi e qualcuno dei suoi libri: Ostertag ne ha scritti parecchi – “Creative life” è il suo primo e per adesso unico libro tradotto in Italia, una coproduzione tra i napoletani di Candilita e i milanesi di Colibrì.
“…“Voice of America” è stato fatto nel 1980 in un momento di svolta, dopo il Vietnam e il presidente Carter, dopo anni di un’America liberal è arrivato Ronald Reagan che nessuno si aspettava e che è stato l’inizio di una politica di destra che continua a tutt’oggi. Io avevo ventitre anni, ero appena tornato dal Nicaragua dove c’era stata la rivoluzione e mi venni a trovare in una situazione del tutto opposta. Era un weekend particolare, erano stati liberati gli ostaggi americani a Teheran e si sentiva la rinascita di uno spirito nazionalista, e al tempo stesso c’era il Super Bowl, la finale del football americano, che è un’altra cosa supernazionalista americana. Ho preso il registratore e ho registrato dalla televisione Reagan e il Super Bowl. La sera dovevamo suonare con Fred Frith e senza dirgli niente ho messo le cassette durante il concerto. Non l’ho fatto per fare una dichiarazione politica, l’ho fatto perché ero incazzato. Era musica incazzata, forse inascoltabile, non so, ma sicuramente incazzata…” (intervista a cura di Giuseppe Aiello, 2015)
Nei primi anni Settanta, quando ho cominciato a frequentare le scuole superiori, ero un ragazzino introverso che tendeva a perdersi e confondersi. Ero uno sfigato, ecco. Il quartiere dove vivevo era un posto difficile dove la campagna stava soccombendo velocemente al cemento e all’asfalto. A casa però ci stavo bene, nel senso che i miei si amavano e si sostenevano l’un l’altro e non hanno mai fatto grandinare addosso a me i loro problemi, le loro difficoltà e frustrazioni. Diversamente da quelli di molti miei amici, i miei genitori non rappresentavano una fonte di stress né esercitavano un controllo eccessivo: papà si ammazzava di turni in fabbrica al Petrolchimico, mamma era di salute scarsa e stava spesso in ospedale o era costretta a letto per lunghi periodi, così io già da quando andavo alle scuole medie avevo le mie chiavi di casa ed orari di rientro piuttosto elastici. La situazione difficile, quando non critica, della mia famiglia deve avermi fatto responsabilizzare un po’ prima del tempo. I miei erano una presenza affettuosa e di me si fidavano: non mi hanno mai ricattato esigendo grossi risultati a scuola, non mi hanno mai messo in imbarazzo investigando sulle compagnie che frequentavo né messo in difficoltà chiedendomi di giustificare la presenza nella mia stanza di certi libri, dischi e giornali.
Erano stati anni duri, tutti quei mesi di scioperi e manifestazioni – papà era stato più volte minacciato di trasferimento da Marghera agli stabilimenti di Priolo in Sicilia e come alcuni dei suoi compagni aveva talvolta rischiato addirittura il licenziamento. Si era appena all’inizio degli anni Settanta dunque, e l’effetto delle contestazioni del Sessantotto si sentiva ancora forte nell’aria: soltanto da poco in Italia ci si era accorti della presenza, dei ragionamenti, delle esigenze e più in generale della cultura di quel soggetto sociale nato dalle proteste – “i giovani”. Indossare magliette colorate e farsi crescere i capelli erano diventati i simboli più evidenti e diffusi della contestazione: succedeva abitualmente che polizia e carabinieri, insospettiti per il tuo look, ti fermassero per strada o davanti alla scuola e ti portassero in questura o in caserma per un controllo e una schedatura, per poi magari convocare i tuoi genitori (allora si diventava maggiorenni a ventuno anni) per strapazzare pure loro e piantargli delle grane.
Ma noi ragazze e ragazzi lo sapevamo nel profondo del cuore: non eravamo solo vuoti a perdere al servizio di padri preti mariti e patria, né casalinghe obbedienti e madri obbligate a tacere e fare figli e quei figli poi crescerli, e nemmeno carne sacrificabile nei campi, in caserma, al fronte, nelle officine e in fabbrica, ma avevamo ciascuno un’individualità e dei diritti, avevamo una testa e un cuore con dentro delle idee, delle esigenze, delle aspirazioni, delle aspettative. Ci piaceva certa musica, leggevamo certi libri e certe poesie, amavamo guardare certi film. Tra i desideri, oltre a quello innocente di farci crescere i capelli e indossare magliette multicolori, in tante e tanti avevamo quello di poter studiare e magari quello di poter viaggiare – un destino generalmente riservato prima soltanto ai figli dei più ricchi.
Non è poi così complicato farsi un’idea di quella che potrebbe essere stata la vita da ragazzino di Bob Ostertag. Me lo posso immaginare isolato, disorientato e sotterrato fino al collo nel bel mezzo della campagna americana con intorno centinaia di chilometri di nulla, una vita grama e inesorabilmente piatta come la pianura scandita dai tempi della scuola e del calendario liturgico – ma le mie sono solo supposizioni mutuate da cinema e letteratura. Sul suo sito ufficiale (raggiungibile al link bobostertag.com) è riportata una biografia lunga neanche quaranta righe che però inizia nel 1978 quando lui ha già 21 anni. Ma della sua storia personale precedente, anche di quella più profonda ed intima, se ne trovano frammenti e tracce nei suoi libri, in particolare nel suo recente “Encounters with men” (Black Lawrence Press, uscito in America l’anno scorso).
In questo libro, fra le altre che si è ritrovato a dover fronteggiare nel corso della vita, Bob racconta delle sue difficoltà a scuola fra bullismo e insegnanti insidiosi quando non pericolosi, del fatto che i suoi lo abbiano costretto a praticare sport perché così si sarebbe tenuto lontano da quelle che ritenevano fossero cattive compagnie, e dell’ispirazione e degli stimoli all’apprendimento che proprio quelle cattive compagnie spesso gli hanno fornito.
Riesco a ricostruire così una vita in una famiglia nucleare campagnola come quelle messe in mostra nei telefilm americani che da decenni guardiamo abitualmente anche noi alla televisione. Vista da fuori sembrava una vita semplice e felice, fatta di scuola e palestra e cene iperproteiche e punteggiata di ricorrenze celebrate a forza di tacchini messi nel forno e gite a casa dai parenti nel New Mexico, ma appena sotto la normalità quella vita nascondeva parecchi interrogativi e punti oscuri. Il padre, un prete della chiesa episcopale, che sistematicamente si accanisce su di lui prima a sculacciate e poi a pugni e calci finché Bob non cresce abbastanza per reagire. La madre di Bob, un’anaffettiva in sintonia obbligatoria col marito, che non così avanti negli anni contrae una malattia renale e decide di porre fine ai suoi giorni rifiutando la dialisi. Solo dopo la morte della moglie ed in preda ad un grave esaurimento nervoso e alla depressione, il padre di Bob confessa ai figli la sua bisessualità e cerca di ricostruirsi una vita che gli rassomigli.
“…Se ci penso adesso, mi sorprende quanto preoccupato fossi di mantenere una certa distanza da mio padre. Meno sapeva della mia vita e del mio orientamento e meglio era… Adesso so che buona parte dei preti sono omosessuali in segreto, che lo erano i suoi più cari amici… Ho fatto di tutto per non volerne sapere niente di quella gente. Niente dei loro desideri, niente della loro vergogna, niente delle loro storie. Non volevo confessare loro i miei peccati. Non volevo mangiare il corpo né bere il sangue di Gesù. E non volevo fare il chierichetto e restare da solo con loro in sacrestia, specialmente con mio padre. Eppure, per un periodo, per me questo è stato inevitabile. Ero il figlio del prete, e i ragazzini come me era normale facessero i chierichetti in chiesa… I chierichetti sono quelli che si vestono come i preti e portano la croce e le candele nelle processioni e servono messa. Uno dei loro compiti è aiutare il prete a svestirsi dei paramenti sacri dopo le funzioni. Il prete se li toglie di dosso uno a uno e te li consegna, borbottando frasi misteriose. Una magia, un incantesimo… Ho dovuto farlo un sacco di volte con mio padre, sempre secondo il rituale specifico disposto dalla chiesa episcopale. Non era previsto che ci si toccasse o che ci si spogliasse del tutto, eppure se dovessi descrivere quella mia esperienza di ragazzino la definirei senza dubbio una molestia sessuale. Un adulto e un ragazzino completamente soli, nessun altro doveva vederci né sentirci, la svestizione e quella che sarebbe dovuta essere “l’unione nel corpo di Cristo”…” (ritagli da “Encounters with men”).

Rispetto a quelli che avevano dovuto affrontare i miei genitori quando avevano la mia stessa età, tipo sopravvivere attraverso la seconda guerra mondiale, i miei problemi di teenager per fortuna erano diversi e molto meno pesanti e complicati e si concentravano a scuola: all’ITIS mi insegnavano cose che capivo molto poco o per niente. Me la cavavo benone in italiano e in inglese, ma durante le ore delle altre materie rimanevo seduto al mio banco in stato vegetativo ad accumulare perplessità ed interrogativi dentro in testa fino allo squillare della campanella di fine lezioni. Per il resto della giornata andavo allegramente alla deriva fantasticando di musica pop. Mi nutrivo di briciole da una radio, da una fonovaligia mono e da un registratore a cassette molto economico.
A quel tempo c’erano categorie grossolane tipo pop, jazz, rock, classica: il punk, il metal e le altre varie etichette divisorie in campo musicale non erano ancora state inventate. Oppure quelle etichette forse già c’erano, ma noi non lo sapevamo. Per “noi” intendo io e un pugno di miei amici e compagni di scuola e di quartiere, ragazzini un po’ così a cui la musica aveva occupato una zona strategica dentro in testa e che passavano mezzi pomeriggi ad ascoltarla e a praticarla più o meno clandestinamente invece di studiare. Non eravamo in tanti – meno di quanto ci sarebbe piaciuto, ma comunque troppi secondo i gusti della gente intorno. Certi insegnanti a scuola scuotevano la testa pensando che fossimo proprio nati storti e cresciuti sbagliati, e siccome non frequentavamo la parrocchia certi genitori pensavano anche di peggio e pretendevano che i loro figli e le loro figlie si tenessero alla larga da quelli come me.
Quelli come me abitavano nei cosiddetti “condomini di cartone” e nei casermoni disposti lungo le traverse della statale 245 Castellana, allora si era già alla periferia di Mestre in quello che solo entro qualche anno si sarebbe trasformato in un quartiere a rischio. Eravamo tutti figli di operai delle fabbriche di Marghera, cresciuti in famiglie povere. A metà mese nel giorno di paga papà e mamma si sedevano al tavolo in cucina e, tolte le spese per affitto e cibo e per quel paio di viaggi in autobus o in motonave fino al paese, si rassegnavano a constatare che non restava granché per fare festa. Succedeva press’a poco lo stesso anche a casa delle mie amiche e dei miei amici. Alla povertà eravamo abituati, e comunque a noi ragazzini bastava davvero poco: un paio di jeans smessi da qualche cugino più grande e una giacchetta presa all’American Strasse (da notare il doppio senso, comprensibile solo a chi parla veneto: era il soprannome di un banco al mercato che vendeva roba usata recuperata chissà dove e spesso pulciosa), una vecchia borsa militare a tracolla per ficcarci dentro libri quaderni cassette e dischi, d’inverno qualcuno il basco altri una caciòa da pescatore, però tutti affamatissimi di parole, suoni, visioni, suggestioni – una fame che spegnevamo a forza di sognare. Sognare era bellissimo e gratuito ma per continuare a sognare bisognava continuare a dormire. E così, un bel giorno succede che io e un paio di miei amici ci siamo svegliati.
In tutto il quartiere c’era solo un altro ragazzo che come me amava la musica più di qualsiasi altra cosa: Mauro abitava proprio dietro casa mia in un altro “condominio di cartone”. Aveva quasi un anno meno di me e durante le medie aveva cominciato a studiare il flauto traverso per poi iscriversi al conservatorio a Venezia. Come me, neanche lui frequentava l’oratorio. Si era procurato chissà dove un’eco a nastro Binson strausato e, nel garage di casa mia trasformato una volta alla settimana in sala prove per la gioia del vicinato, lo usava per modificare, stratificare e straniare la voce del suo flauto. Un microfono lo avevamo rubato a un concerto. Assieme a Roberto, un mio compagno di scuola di un paio d’anni più grande, avevamo messo in piedi un nostro trio cui s’era presto aggregato un batterista e una lista chilometrica di chitarristi che generalmente duravano molto poco nel gruppo – un pomeriggio, qualche settimana, qualche mese. Roberto era già in quarta e studiava elettronica: aveva progettato e costruito un complicato generatore di suoni, ingombrante il giusto e completo di cavetti, entrate e uscite, manopole e pulsanti vari – più di qualche led colorato intermittente serviva solo a fare scena. Una vera e propria macchina da rumore: eravamo l’unico gruppo in città con un’attrezzatura simile – a parte Toni Pagliuca delle Orme e Claudio Ambrosini degli Arid Land, che avevano un sintetizzatore vero, anzi forse più d’uno.
Dario ci aveva visti e sentiti suonare a un concerto collettivo nell’aula magna della sua scuola. Abitava in campagna appena a un paio di chilometri più avanti sulla statale, studiava elettrotecnica e frequentava la quinta. Ci incontravamo abitualmente sull’autobus e un giorno è venuto con la sua borsa dei ferri a casa mia: ha dato una sistemata al potenziometro del volume del mio basso elettrico scalcagnato e una messa a punto complessiva al mio amplificatore. Una volta che sono andato a trovarlo a casa sua, probabilmente per scambiarci dei dischi, mi ha regalato un paio di distorsori pazzeschi su cui non so come aveva messo le mani e che aveva poi modificato. Ogni volta che schiacciavo il pulsante col piede e facevo passare il mio basso attraverso quei fuzz mi si rizzavano i peli sulla schiena e mi succedeva qualcosa di bizzarro alle parti basse.
Al nostro casino aggiungevamo quello prodotto da un paio di vecchi lettori di cassette modificati sempre da Dario con dei pulsanti aggiuntivi che servivano ad accelerare o rallentare la lettura del nastro. Con vecchie cassette smontate e riassemblate, nastro adesivo e lamette Roberto ed io avevamo costruito dei brevi loop con registrazioni spazzatura quali frequenze radio, spezzoni di quelli che a me parevano notiziari in lingua straniera, latrati di cani, rumori di traffico registrati sulla statale e il passaggio dei treni sulla ferrovia dietro casa.
I nostri rarissimi concerti facevano discutere parecchio. Non so se il nostro fosse coraggio, stupidità, sfrontatezza o faccia tosta: forse era un misto di tutto questo. Neanche serve dire che facevamo schifo, ma non era importante: suonare ci teneva occupati e lontani dai pericoli. Immaginare e fare musica ci manteneva vivi. Allora, prima metà degli anni Settanta, cose come il “circuit bending” e la “tape manipulation” neanche si sapeva cosa fossero, o volendo essere più precisi i miei compagni ed io non ne eravamo affatto consapevoli, persi com’eravamo nel nulla della provincia nordestina. Lo si faceva e basta. A quanto pare, però, a queste pratiche in giro già ci si stava pensando: si lavoricchiava di tentativi col saldatore a stagno in chissà quante piccole officine elettrotecniche clandestine e abusive come quelle che Dario e Roberto avevano ritagliato a casa loro in fondo a uno scantinato e a una rimessa.
Pure Ostertag aveva fatto parecchia fatica a farsi degli amici lì in paese, ma un giorno era finalmente riuscito a trovare un paio di tipi strani con cui aveva legato: erano Jerry e George, che frequentavano la sua stessa scuola superiore. Presto avevano cominciato a suonare insieme – Jerry alla batteria, George al basso e Bob alla chitarra passavano mezze giornate a spremersi fuori lunghissime improvvisazioni e canzoni sghembe.
Jerry era figlio di contadini e viveva fuori città con due genitori problematici, un fratello ritardato e un altro iperattivo e prevaricatore. George era stato preso in affido familiare da una coppia di cristiani devoti e praticanti. Gli doveva praticamente la vita, ma non si sentiva affatto credente così cercava di spegnere rimorso e tristezza ascoltando Frank Zappa e lasciandosi crescere i capelli lunghi fino al culo. Tutt’e tre ci davano parecchio dentro con l’LSD.
La storia del trio anche se a intermittenza durò fino alla fine delle superiori: George era sempre più depresso e non riusciva ad applicarsi neanche al basso elettrico, andava male a scuola e non poté permettersi l’accesso al college, così decise di impiccarsi. Jerry semplicemente un giorno sparì dalla circolazione, Bob lo incontrò casualmente molti anni dopo su un autobus a San Francisco – sarebbe morto di AIDS di lì a breve. In “Encounters with men” Bob riflette a posteriori sul fatto che tutt’e tre fossero giovani omosessuali, ma senza però rendersene conto. C’erano già stati qualche anno prima i moti di Stonewall a New York, a San Francisco si erano già organizzate e stabilite diverse organizzazioni e associazioni collegate alla comunità LGBT, ma loro non ne avevano saputo assolutamente niente. Erano solo dei ragazzini disorientati e del tutto inconsapevoli di sé cresciuti nel mezzo del nulla e isolati dal resto del mondo. In quel posto lontano da tutto certe informazioni ci mettevano tanto tempo ad arrivare – sempre che riuscissero ad arrivare.

Coi miei compagni suonavamo musica pop. Pop era un nome come un altro, nel senso che non erano cose su cui valesse la pena perdere dell’energia e del tempo a discutere: non c’era affatto l’esigenza di contrassegnare specialisticamente il nostro suono preferito. Eravamo soltanto dei ragazzini, eravamo così marginali che il mercato non si era ancora accorto di noi per trasformarci in consumatori, né noi sfigati e spiantati ci eravamo ancora accorti del mercato. Piano piano però mi accorgo che le cose intorno stanno cambiando. Quando prima facevo fatica a trovare una qualche informazione attendibile (mai fidarsi di riviste come Giovani e Ciao2001 che ti spingevano a comprare dischi sempre nuovi da portare su di un’isola deserta), adesso escono in edicola delle riviste come Muzak e Gong fatte molto bene, critiche e riflessive e quindi utili. Sugli scaffali della libreria Moderna in piazza Ferretto espongono dei libretti pop semplici e accessibili e libri pop più grossi e più fighi, addirittura delle enciclopedie pop. Mi piacerebbe mettere le mani su certi libri coi testi di Bob Dylan e Joan Baez: non costano tanto ma è comunque troppo e non riesco a comprarli. Ecco che il mercato si accorge di me, ed ecco che io mi accorgo del mercato: da adesso in avanti la musica si paga. Non si trovano più in giro dei dischi a noleggio così ripiego su cassette riciclate e dischi usati, perché quelli nuovi costano troppo. Per gli spettacoli al teatro La Fenice c’erano tariffe ridotte per gli studenti e spesso si poteva entrare anche gratis, ma ai concerti di musica pop e jazz negli altri teatri e al palasport chiedono biglietti che non so come pagare: se non hai soldi resti chiuso fuori. Io non ne ho, e resto chiuso fuori. Non ho coraggio a sufficienza per rubare i dischi e i libri che vorrei ascoltare e leggere, e resto chiuso fuori. Imparo presto a farmi qualche scrupolo in meno, e anche a smettere di farmeli: non avrei mai pensato che fosse così facile prendere un paio di dischi o di libri dagli scaffali dei negozi, nasconderli sotto l’eskimo e uscire senza fretta e senza dare nell’occhio.
“…Nel 1976 lasciai la cittadina in cui vivevo per andare a studiare all’Oberlin College and Conservatory in Ohio… Ero iscritto al corso di improvvisazione del conservatorio… Passai il primo anno in estasi per essere riuscito a fuggire dal mio paesino in Colorado e aver trovato una comunità di persone della mia età con interessi simili ai miei. Il secondo anno lo passai a sbattere la testa contro il muro. Tutto quello che imparai lì lo appresi da altri studenti e da un unico insegnante, un compositore fantastico al quale, quando passai al secondo anno, venne tolto l’incarico…” (ritagli da “Musica politica gente e macchine”)
Già alla metà del diciannovesimo secolo Oberlin era un importante centro dell’abolizionismo: gli schiavi fuggiaschi erano relativamente in salvo nel raggiungere, approfittando della linea ferroviaria, le vicinanze della città, da cui poi per via d’acqua verso il lago Erie avrebbero potuto raggiungere il Canada occidentale e quindi la libertà. L’università cittadina fu una delle prime negli Stati Uniti ad accogliere iscrizioni di studenti afroamericani, e la prima ad accogliere delle studentesse – ma queste sono tutte informazioni che potete trovare ed approfondire in rete.
Dunque, a vent’anni Bob riesce ad andarsene via dal paese: si iscrive al conservatorio e lì forma presto un trio con due suoi compagni di corso: Jim Katzin al violino e Ned Rothenberg ai fiati, lui a smanopolare su un sintetizzatore usato acquistato dopo essersi sbarazzato della vecchia chitarra elettrica. Si chiamano Fall Mountain e, appena un paio d’anni più tardi, i tre registreranno a NYC il loro primo ed unico album “Early fall” per la Parachute di Eugene Chadbourne.
Nonostante fosse un’istituzione bianca e conservatrice, l’università di Oberlin era eccezionalmente aperta agli scambi culturali: nel 1977 invita nientemeno che Anthony Braxton, un sassofonista e compositore nero radicale ed una superstar del jazz, per un laboratorio di musica improvvisata. Bob si iscrive subito, e partecipa portando con sé il suo sintetizzatore Serge comprato per corrispondenza ed autoassemblato – una scatola con manopole bottoni e cavi ingarbugliati, e senza tastiera. In Italia, al tempo, ne aveva uno simile Paolo Tofani degli Area: l’aveva preso dietro consiglio di John Cage, per poi utilizzarlo in “Maledetti”.
“…Il laboratorio di Anthony [Braxton] fu una rivelazione. Mentre la maggior parte dei professori del conservatorio erano abilissimi nel trasmettere nei corsi il proprio senso di noia, dall’istante stesso in cui lui entrò in classe si sprigionò un’elettricità completamente aliena rispetto a qualsiasi altra esperienza scolastica. Imparai più cose nella prima ora con lui che in due anni di corsi… Fu subito chiaro che si aspettava di fare grande musica, in quel momento e in quel luogo preciso. Il suo modo di comportarsi non sarebbe stato diverso se si fosse trovato in una sala piena di virtuosi di livello internazionale invece che di studenti in difficoltà… Da Anthony ho imparato che cosa significa essere un musicista impegnato. Come concentrare la tua vita su questo. Come la musica debba assorbirti. Come tu debba entrare in ogni situazione musicale con l’aspettativa che sia sublime. E come condividere questo tipo di coinvolgimento con le persone che ti stanno accanto… Tutto il resto lo devi imparare da te…” (ritagli da “Musica politica gente e macchine”)

Pochi soldi, dischi comprati nuovi pochi / trovati usati di più / rubati tanti, cassette casalinghe autogestite ma soprattutto: musica dalla radio. Per fortuna era iniziata l’epoca delle radio libere e per fortuna mi ci sono ritrovato in mezzo: sono stato uno dei collaboratori più giovani di Radio Mestre 103, una delle primissime in Italia.
In radio bazzicavano degli anarchici: mi hanno fatto da sorelle e fratelli maggiori, da maestri, da guida, da riparo, da fendinebbia, da ispirazione e da esempio. Ero curioso e cercavo di partecipare a quante più potevo delle occasioni che mi capitavano a tiro: con la scusa dei servizi e delle interviste per la radio talvolta riuscivo a intrufolarmi ai concerti già dal primo pomeriggio a chiedere cose ai musicisti approfittando delle pause del soundcheck. E se non ci riuscivo mi aggregavo ai gruppi di ragazzi più vecchi di me che protestavano per il prezzo eccessivo dei biglietti d’ingresso e sfondavano. Non me ne importava niente se dentro al teatro o al palasport suonassero jazz o rock o robaccia: volevo riprendermi qualcosa che sentivo mi era stato stato portato via, e riprendermi la musica – qualsiasi essa fosse – è stato un tentativo come un altro per tentare di riprendermi la vita, un pezzetto alla volta. Come mi piaceva fare casino, ritrovarmici in mezzo.
Tra le bestie varie che frequentavano la radio c’era una coppia di hippies che avevano almeno quindici/vent’anni più di me. Non so di preciso cosa facessero per mantenersi e non escludo che magari spacciassero, fatto sta che erano sorridenti e pacifici, sempre vestiti alla moda e profumati di patchouli e perennemente in viaggio preferibilmente nel nord Europa. Da lì ogni tanto tornavano con degli scatoloni pieni di dischi mai visti fatti da musicisti mai sentiti, che poi rivendevano a basso prezzo alla redazione della radio e a noi collaboratori. E’ da loro che prendo l’album dei System Tandem su Japo che influenzerà molto pesantemente lo stile del nostro gruppo, e anche “Afric pepperbird” e “Sart” dell’allora sconosciuto sassofonista norvegese Jan Garbarek. I due mi propongono qualche vinile di John Fahey, un chitarrista americano che mi fa saltare le valvole. Una volta mi regalano un ellepì dei Brainticket (c’era appiccicato sopra un adesivo delirante: “Dopo che gli avrai fatto ascoltare questo disco i tuoi amici non ne vorranno più sapere di te”) e “Children at play” di Tom Van der Geld, non vogliono niente perché hanno la copertina un po’ rovinata.
C’era un tipo magro magro capelli lunghi che veniva da fuori con un furgone che puzzava terribilmente di benzina e di guarnizioni bruciate e che sembrava sempre sul punto di esalare l’ultimo respiro là sul ciglio della strada. Si piazzava con una bancarella autocostruita di libri e magliette fuori dai concerti, lo avevano soprannominato Agonia, immagino perché sembrava davvero messo male di salute – come il furgone. Quando gli chiedevi qualcosa gli ci voleva un po’ di tempo per riflettere e rispondere tra i colpi di tosse. Ogni tanto Agonia mi regala un libro troppo sporco e rovinato per poterlo vendere: aveva disposti a mucchi sopra il banco un sacco di stampati semiclandestini a basso costo, ciclostilati con poesie e fumetti hippy oppure con i testi tradotti di cantautori tipo Neil Young e di gruppi stranieri tipo Jefferson Airplane, cronache di contestazioni ai concerti, volantini, testi dove si criticavano le case discografiche maggiori e certa editoria borghese – è tutta roba molto economica, autoprodotta, pubblicata oppure diffusa da Stampa Alternativa. Neanche sapevo esistessero cose simili: è là che imparo che esistono i padroni della musica e che gente come me è arruolata nella guerriglia per combatterli.
“…Il secondo giorno del laboratorio Anthony mi chiese se volessi unirmi al suo ensemble per un tour in Europa. Ero esterrefatto. Poche settimane dopo mi trovavo a New York a provare in una big band di quattordici elementi con virtuosi come George Lewis, Kenny Wheeler, Marilyn Crispell e molti altri. Per un ragazzino di una cittadina del Colorado il solo fatto di trovarsi a New York era una specie di assalto sensoriale totale… Quando arrivai al primo giorno di prove Anthony mi accolse, mi diede le mie parti e poi se ne andò ad occuparsi del caos che lo circondava… Fissai le carte che mi aveva dato e mi si fermò il cuore. Parti per tastiera! Io non sapevo suonare le tastiere. Il mio sintetizzatore neanche ce l’aveva una tastiera… Lo si suonava utilizzando dei cavetti colorati per collegare ingressi e uscite in modi diversi, ascoltando i suoni che venivano fuori e modificandoli variando i parametri con delle manopole. Che cosa dovevo fare? Ero assolutamente convinto che non avrei dovuto essere lì. Un ragazzo di campagna nella metropoli. Un ragazzino tra adulti (avevo compiuto ventun anni la settimana prima). Un bianco in una stanza piena di neri. Uno studente tra insegnanti, e soprattutto: con lo strumento sbagliato… Cosa ci faceva un ragazzino bianco con un carillon automatico che faceva bliip e bluup elettronici senza un particolare ritmo o chiave su un palco con un gruppo di grandi jazzisti che ci davano dentro?” (ritagli da “Musica politica gente e macchine”)
Qualche giorno dopo le prove Ostertag e gli altri della Creative Orchestra sono in volo verso la Germania, destinazione Colonia. Si radunano tutti nell’enorme sala da concerti della Westdeutscher Rundfunk, l’emittente radio nazionale che aveva commissionato grandi lavori a compositori come Karlheinz Stockhausen e John Cage – la punta di diamante della musica d’avanguardia. Seguono due settimane difficilmente descrivibili, che Bob riassume così: “…Anthony [Braxton] mi ha insegnato come interiorizzare nella musica un senso di lotta… Una celebre frase di Frederick Douglass recita: se non c’è lotta, non ci può essere progresso. Per Anthony se non c’è lotta non ci può essere musica…”.
Dopo quel tour europeo Bob decide di non ritornare al conservatorio. La maggior parte dei componenti dell’ensemble di Braxton viveva a New York, così anche lui si ritrova a affittare un buco nell’East Village e presto stringe amicizia con musicisti come Fred Frith, sbarcato in America da Londra poco tempo prima, Tom Cora, Eugene Chadbourne e John Zorn che abitavano nelle immediate vicinanze. Non avevano soldi, nessun sussidio, nessun finanziamento e scarsissima attenzione da parte della critica. Ma vivevano di niente, suonavano in posti da niente e non dovevano rendere conto a commissioni culturali né fare code di attesa agli sportelli negli uffici per la concessione di finanziamenti in sostegno alle arti. Siccome nessun locale li voleva, spesso Zorn organizzava concerti casalinghi a cui potevano assistere solo cinque/sei persone. Suonare al CBGB’s era il massimo a cui potessero aspirare. Quando nel 1979 venne organizzato il New Music New York Festival, che in teoria avrebbe dovuto rappresentare ampiamente la scena cittadina, compresa quella alternativa, nessuno li invitò. Così, Zorn e Chadbourne organizzarono in velocità un controfestival di tre giorni con tutti concerti di piccole formazioni e musicisti snobbati dal festival ufficiale: venne poca gente, e nessuno ne scrisse.
Il mio sogno di ragazzo volava attorno a quattro grosse corde. Quando frequentavo la prima superiore, risparmiando anche sull’aria che respiravo sono riuscito ad acquistare il mio primo basso elettrico – un rottame usatissimo senza marca. Le corde erano disastrate e andavano sostituite ma l’odore della mia povertà deve aver fatto impietosire la vedova del maestro di musica, rimasta sola a gestire il negozio che, invece che darmi le spalle e l’occasione di rubare ha preferito regalarmi un ricambio completo. Mi ha regalato anche qualche plettro, che non ho però mai utilizzato: mi piaceva usare le dita.
Allora mi portava via il modo di suonare di Mauro Periotto dell’OMCI: forse è stato il primo bassista a cui avrei voluto somigliare come stile, ma non gli sono mai arrivato neanche vicino. In quegli anni ho assistito a numerosi concerti degli Area, rimanendo inesorabilmente impigliato nella vertigine intessuta dalle dita di Ares Tavolazzi. Quando nell’ottobre 1980 ho avuto la fortuna di avvicinarlo per due concerti consecutivi con i Weather Report, sono rimasto sbalordito dalla disponibilità, dalla meravigliosa allegria e dal sorriso di Jaco Pastorius, così come mi ha avvilito e ferito profondamente la sua fine.
Ho continuato per anni a tentare di far volare alto quel mio vecchio basso elettrico, senza davvero mai riuscirci. Mi sono ritrovato mille volte ad ascoltare un disco dove avrei voluto leggere anche il mio nome scritto in copertina, dove mi immaginavo di essere lì dentro a suonare mentre nella stanza accanto c’è qualcuno che registra, io che sto a guardare gli altri del mio gruppo che mi guardano e gli viene da ridere e poi viene da ridere pure a me e ci si ritrova a tirarsi addosso manciate di note col flauto e la chitarra e la batteria come fossero palle di neve, a impazzire di felicità e volare, dissolverti, scomparire, bruciare, diventare luce.

“…La nostra cittadina del Colorado era bianca come la neve, a meno che non si andasse oltre i binari della ferrovia dove vivevano i latinos che lavoravano nelle fattorie. Ma un giorno, quando andavo alle scuole superiori, si materializzò dal nulla un’apparizione. Aveva la pelle nera come il carbone. Gli attraversava la faccia un sorriso bianchissimo e perfetto. Era altissimo, forse due metri o anche di più. Ed era magrissimo… Ma c’era di più: suonava la chitarra elettrica e usava il pedale wah-wah proprio come Jimi Hendrix. Aveva dei vestiti bizzarri, girava in città con un berretto color argento e gli occhiali con la montatura viola. E infine era bellissimo, non avevo incontrato mai un altro uomo così bello. Aveva una ragazza nera come lui e altrettanto alta e bella, che parlava con un accento francese. Splendida… Non ho mai capito come quei due fossero capitati in un posto come da noi, come non ho la più pallida idea di quello che avessero fatto o chi fossero prima di incontrarli… Ed ecco la parte migliore della storia: gli piacevo. A tutt’e due. Gli piaceva che stessi con loro. Avevano una casa tutta loro, senza genitori a intralciare, e io ero il benvenuto! Al tempo mi dedicavo allo studio della chitarra elettrica, lui ed io eravamo press’a poco allo stesso livello, e a tutt’e due piaceva da impazzire Jimi Hendrix. E quindi abbiamo cominciato a suonare insieme… Una sera avevano organizzato una festa a casa loro, c’erano tutti i loro amici. Non so per quale motivo, ma io non ci sono potuto andare. A un certo punto la polizia butta giù la porta ed entra in casa puntandogli addosso i fucili… La nostra era una cittadina di campagna e la polizia in paese di solito non tirava mai fuori le pistole dalla fondina. Io frequentavo drogati e spacciatori, qualche volta pisciavamo fuori del boccale ma stavamo ben attenti a non avere a che fare con gli sbirri. Ci siamo andati parecchio vicini, ma non è mai successo che ci puntassero contro le pistole. Mai. Quelle due bellissime persone non avevano fatto niente, eppure la polizia gli aveva buttato giù la porta di casa ed era entrata con le armi spianate. Il giorno dopo erano spariti tutt’e due. Nessuno sa che fine abbiano fatto…” (ritagli da “Encounters with men”).
Il tempo passa, è il 1977. Sono cresciuto, non sono più il ragazzino che arranca all’ITIS ma mi sono diplomato e mi sono iscritto all’università. E’ già da un paio d’anni che sto rosicchiando lavoro precario e amaro come ragazzo-di-bottega fattorino magazziniere cameriere aiutante novantista manovale commesso sfruttato stagionale part-time tuttofare. Ho anche avuto i miei primi scontri frontali col sistema: licenziato in tronco perché obiettore di coscienza al servizio di leva militare quando ancora non si poteva dire no. Mesi e mesi di rogne in questura, in capitaneria di porto, all’ufficio leva e all’ufficio collocamento. Sono tempi pericolosi. Se alzi la voce per protestare o anche solo per farti sentire rischi la vita: la polizia e i carabinieri e i fascisti ammazzano ogni giorno per strada ragazze e ragazzi come me. Nel giro di pochi anni ammazzano Franco Serantini, Claudio Varalli, Giannino Zibecchi, Alceste Campanile, Francesco Lorusso, Roberto Franceschi, Giorgiana Masi, Walter Rossi, Fausto Tinelli, Lorenzo Iannucci e tante altre e tanti altri. Una lista di morti lunga come l’Italia. Erano tutti colpevoli di essere giovani e non rassegnati. Forse per voi sono solo parole distanti, gente che non conoscete, nomi senza faccia che raccontano poco o niente, ma per me ognuno è un taglio di traverso sul cuore che in cinquant’anni non si è rimarginato.
Quell’autunno e quell’inverno all’università è tutto tranquillo, più che altro perché parecchi insegnanti ci scavalcavano a sinistra: dietro le cattedre c’erano staffette partigiane e gente che la Resistenza l’aveva vissuta e costruita, sperimentatori, scrittori e traduttori di poeti, artisti e frequentatori di artisti. A Venezia non è come a Roma, come a Milano, come a Bologna: qualche assemblea sì, ma niente bottiglie molotov né passamontagna, niente sindacalisti venuti da fuori a rimproverarci da un palco e niente carri armati a caccia di sovversivi tra le gondole e i turisti. A Venezia c’è la nebbia, e la città viene smantellata in silenzio mattone dopo mattone. Decido di mollare l’università all’inizio del secondo anno – per via della dichiarazione di obiezione di coscienza ero stato premurosamente avvisato in questura che non avrei mai potuto insegnare a scuola. Prima di tornare a casa mi fermo all’ufficio collocamento, e accetto un posto da manovale alla Montedison offerto da una ditta di manutenzioni in subappalto. Mio padre si incazza di brutto, manca tanto così che mi metta le mani addosso: lui dentro in fabbrica non mi ci vuole. Mi urla che vuole per me un futuro diverso dal suo, e mi stringe a sé disperato bagnandomi delle sue lacrime.
I miei vent’anni hanno un colore grigio scuro e sporco, una puzza chimica asfissiante e una colonna sonora fatta di rumore a volume insostenibile. Ogni giorno mi ritrovo a dover scegliere per forza tra disoccupazione e lavoro nero, tra bandiere rosse e indiani metropolitani, tra le prime canne fatte con l’erba cresciuta di nascosto dietro casa e gli spacciatori che ti danno la prima dose gratis (ma solo la prima) e girano coi motorini truccati e le tasche gonfie di soldi, tra un comizio in piazza e i posti di blocco sulla statale, tra pacifismo e autonomia operaia, tra raccolta differenziata ecologica e aria inquinata, tra scappare via o restare a casa.
Il nostro gruppo va in frantumi quando consegnano la cartolina precetto a Roberto, lui ce lo viene a dire solo il giorno prima di partire. Dopo un lungo silenzio veniamo a sapere che l’hanno ricoverato in ospedale militare a Padova. Poi lo rimandano a casa, ma non sembra più lui: tu gli parli e lui se ne sta zitto e guarda lontano attraverso i muri. La sua macchina da rumore l’ha smantellata. Mauro ed io cerchiamo di tenere insieme il gruppo per un po’, ma lui un giorno decide di concentrarsi sui suoi studi. Con l’aiuto di un mio amico che piuttosto maldestramente si ingegna a costruire chitarre, assemblo (corpo, manico, meccaniche e pickup da quattro diverse provenienze) un basso elettrico senza tasti e trovo presto posto in un altro gruppo già praticamente formato, loro sono simpatici e molto bravi. I nostri pezzi sono complicati e bizzarri, ma il suono complessivo è un po’ troppo morbido e prog per i miei gusti. Ma chissenefrega, Marco, chissenefrega: dacci dentro con quelle quattro corde.
Stando al telegiornale c’era una nuova guerra mondiale in corso: il punk. E stando alla faccia scandalizzata del conduttore, “chissenefrega” del punk sarebbe dovuta essere la parola d’ordine. Di questa nuova guerra noi a Mestre e a Marghera non ne sappiamo niente: il punk non passa per la stampa di movimento e non passa attraverso le radio libere. Johnny Rotten e quegli altri deficienti a fare gli sberleffi dalle pagine dei giornali, erano proprio ridicoli: di delinquenza e teppismo e disgrazie e malessere e ribellione e disagio e bestemmie ne avevamo ognuno una ricca e lunga esperienza diretta. Mica c’era bisogno di quegli stupidi punks inglesi per sapere come si sta male.
Avevo comprato i primi dischi di Patti Smith perché mi sembrava che ci fosse una mia sorella a cantarci dentro. Avevo fregato in radio un settepollici dei Television e poi preso anche il loro primo album, perché quel Tom che ci suonava dentro mi sembrava un fratello da cui ero stato separato alla nascita. Il primo disco dei Clash arriva come una cometa alta nel cielo quando io sono e tutti siamo dentro alla merda fino al collo. Non sono più abituato a guardare in alto, così non ne so niente fino a quando un ragazzino che frequenta la radio osa mettere in onda “God save the queen” e “White riot”, due canzoni del cazzo tratte da due dischi del cazzo che gli aveva regalato una zia dopo un breve viaggio a Londra. I compagni in redazione gli piantano un casino che metà basta: è musica fascista che deve restare fuori dalle nostre onde, sentenziano. E io che pensavo che quel nero fosse tutt’altro nero.
Il tempo passa veloce e sempre grigio scuro e sporco, è già arrivato il 1979 e io ho tanto tanto tanto tanto bisogno di respirare e di sognare e di sfogarmi e di aria e di cielo e di musica e di andarmene via. Sono fra quelli che sfondano al palasport di Mestre per vedere Fabrizio de André con la PFM, ma ne esco deluso. Ho bisogno di trovare un mio posto nel mondo, fosse a Londra, a Parigi, Berlino, New York. Magari domani. Domani, dai. Sogno tutte le notti di comprarmi un Fender Jazz Bass nero e poi scavalcare i reticolati della tangenziale e mettermi a fare l’autostop per andare a suonare chissà dove in culo al mondo. E invece decido di restare a casa ad assistere i miei genitori che di salute stanno sempre peggio. Quell’estate un amico di ritorno da un viaggio a Londra mi regala un disco dei Crass e porcodio nel giro di mezz’ora tutte le mie convinzioni sulla musica, sul come farla e perché farla erano ridotte in frantumi. Vado al concerto di Patti Smith a Bologna, sguscio dentro tra la calca senza che nessuno all’ingresso mi chieda un biglietto. Trovo un lavoro fisso, e non in fabbrica. Compio ventidue anni. Dopo neanche sei mesi decido di smettere di suonare.
“…Con l’andar del tempo mi sono pareccio riavvicinato a mio padre. Era lui che adesso aveva bisogno di me e non io di lui, così mi è stato possibile costruire una certa familiarità tra di noi. Ha avuto bisogno di assistenza per anni, di assistenza sempre maggiore… Sono riuscito a mantenere comunque una certa distanza: ha passato anni dentro e fuori una clinica psichiatrica per la depressione che era difficile capire se quando gli parlavi ti seguiva o se la conversazione l’avrebbe portato sull’orlo di un’altra crisi di nervi. Un giorno suona il telefono, era lui, chiamava dall’ospedale dopo un’operazione. “Bob, ho avuto tanto tempo per pensarci sopra, penso di doverti chiedere scusa”. “Davvero? E perché?”. “Ti ho sculacciato troppo forte, è una cosa che mi è rimasta impressa in testa. Ti ho picchiato troppo forte”. “Non preoccuparti, papà. Non è più un problema tuo. E’ un problema mio, adesso”… (ritagli da “Encounters with men”).
Direi di tagliare qui, penso che vi siate potuti costruire un quadro generale sufficiente per affrontare la lettura di “Musica politica gente e macchine”. Pensando di fare cosa utile, avevo tradotto anche degli altri stralci di interviste anche recenti, ma sono convinto che non aggiungano granché a questi appunti. Il libro raccoglie scritti di Bob Ostertag per buona parte già pubblicati su riviste americane comunque del tutto inediti in Italia. Il libro sprigiona calore umano ed attrazione: ci sono un’interessante scritto su “Arte e politica dopo l’11 settembre” perfettamente chiaro e comprensibile anche a noi europei, un resoconto sull’attività giornalistica di Ostertag in centro America al tempo della rivoluzione sandinista (quando l’unico commento giunto allora nella nostra parte del mondo sono state quelle due/tre righe su “Washington bullets” dei Clash – fatto su cui mi sono parecchio soffermato a riflettere), e un estratto del diario del suo viaggio in Europa dell’Est al tempo della guerra nei Balcani. Il quarto ed ultimo capitolo del libro è ricco di considerazioni e spunti di discussione sul rapporto tra musica e macchine.
Molto spesso, se non sempre, Bob scrive col cuore stretto tra le mani. Le sue riflessioni sono illuminanti e condivisibili: si fa presto a rendersi conto che non sono scritti teorici pallosi e distanti, quanto suggerimenti per aprire gli occhi e mettersi finalmente a ragionare, per accorgerci delle connessioni nascoste quando non delle strategie esplicite e di quelle sottilissime che il potere mette in atto per mantenersi in vita e schiacciarci. Mi viene da dire che questo è un manuale utilissimo per avventurarsi a vedere il mondo in profondità senza accontentarsi di galleggiare sulla superficie.
“…Non sono uno di quegli artisti che si eccitano con la tecnologia. Non penso che i computer ci renderanno liberi… La uso, ne sono attratto, ma non mi metto lì ad adorarla… La tecnologia è ambigua, porta con sé molti aspetti negativi e molti aspetti positivi. Ma più che altro la tecnologia è dappertutto… E’ diventata un po’ come l’aria che respiriamo… Penso che con la tecnologia ci si ritrovi costretti a confrontarsi, è diventata parte della vita quotidiana di tutti. Questo succede negli Stati Uniti, certo, ma penso che con le nuove tecnologie vi stiate confrontando anche qui in Yugoslavia, anche se in maniera diversa. Le nuove tecnologie qui ve le ritrovate sotto forma di nuove armi da guerra… La mia intenzione non era certo quella di fare l’americano arrogante che viene nei Balcani convinto di avere capito tutto… Mi ha spinto a comporre questo pezzo il capire che guardare la guerra attraverso uno schermo grazie alla tecnologia la rende del tutto priva di contatto e comunicazione. I soldati sui due fronti sono distantissimi, sono in volo a diecimila metri d’altezza oppure imbarcati su una nave chissà dove a schiacciare dei pulsanti e neanche si vedono tra loro… Con il mio pezzo non voglio dare la colpa a nessuno per quello che è successo, non è un pezzo scritto per convincere che c’è qualcuno che ha ragione e qualcun altro che ha torto. E’ un pezzo che denuncia il fatto terribile che la tecnologia americana ha raggiunto il punto per cui fare la guerra è come mettersi a giocare coi videogiochi… So di rischiare grosso perché uso delle immagini della guerra che sono convinto siano percepite qui in maniera completamente diversa dalla nostra, noi in America la guerra l’abbiamo solo guardata alla televisione… ma sono convinto che sia giusto far ascoltare questa musica e soprattutto farla ascoltare proprio qui…” (intervista a Radio FreeB92, Belgrado 1999)

Marco Pandin
stella_nera@tin.it