Bomb City: Recensione del film di Jameson Brooks

Trailer:

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ATTENZIONE SPOILER ALERT!!!

Bomb City è il primo lungometraggio del regista americano Jameson Brooks.
Un film intenso, cupo, emotivamente molto forte. Una volta finita la visione si rimane lì… Storditi sul divano con il magone e un senso di rabbia e impotenza, insomma, il classico pugno nello stomaco che in questo caso, però, è subito seguito da un altro inaspettato pugno nello stomaco.
Sin dall’inizio della pellicola si intuisce che questa storia finirà male, anzi, malissimo, e gli sporadici momenti di gioia che i protagonisti si trovano a vivere ingenuamente nella loro quotidianità, nella loro ribellione e nella loro semplice voglia di vivere, rende il finale ancora più crudele, ancora più grottesco.
Il film è tratto da un triste fatto di cronaca, è la storia di Brian Deneke, un ragazzo ucciso a sangue freddo e immotivatamente, con l’unica “colpa” di essere punk.
Ormai che lo spoiler è fatto procediamo con ordine.
É il 1997 e ci troviamo nella sperduta città di Amarillo in Texas, una sparuta ma molto attiva comunità punk vive in città, organizza concerti, realizza opere d’arte (Dynamite Museum) e gestisce un posto che è a metà fra uno squat e un locale. Ovviamente i punk non sono ben visti, sia dalla polizia locale, che dai loro coetanei compagni di scuola, soprattutto dal gruppo di fighetti (in inglese “jocks”), dai giocatori di football e dalle loro ragazze cheerleaders che spesso li provocano e cercano lo scontro con futili pretesti.
Una notte di dicembre i punks, stanchi di tutte le angherie subite, cercano la propria vendetta e si recano, nonostante siano in netta inferiorità numerica, fuori dal locale dove si incontrano i jocks. Ne nasce una violenta rissa in cui i palestrati sportivi hanno subito la meglio, e tanto basterebbe per finirla qui, invece, Dustin Camp, star della locale squadra di football decide, di calcare la mano: i punks hanno cercato di ribellarsi, meritano una lezione… al volante della macchina del padre punta dritto verso Brian e lo investe a tutta velocità uccidendolo sul colpo.

Primo pugno nello stomaco: la morte di un ragazzo come noi.
Secondo pugno nello stomaco: il processo.

Un processo che subito si trasforma in farsa, dove i ruoli vengono ribaltati. Camp, l’assassino, se la cava con una condanna a 10 anni che sconterà in libertà vigilata senza andare mai in galera insieme ad una multa di 10.000 dollari poi ritirata (in uno stato come il Texas dove si rischia la pena di morte anche se le prove non sono cosi schiaccianti, come in questo caso) e subito diventa vittima degli eventi. Nonostante abbia deliberatamente investito Brian, viene descritto dal suo avvocato, fra gli sguardi compiaciuti della giuria, come “un buon americano, un buon cristiano, un buon giocatore di football”. Mentre parlando di Brian l’avvocato lo apostrofa come sovversivo e violento e ci domanda retorico: “Distruggere tutto? É questo il messaggio che vogliamo lasciare ai nostri figli?” alludendo alla toppa dei The Filth con la scritta “Destroy Everything” che il diciannovenne morto aveva sul retro del proprio giubbotto. Aggiungendo: “Quello che è successo a Brian è il risultato di una lunga lista di scelte sbagliate fatte negli ultimi sei anni della sua vita”.
Un processo prettamente ideologico, quindi, a difesa dello status quo WASP, contro ogni forma di diversità e di ribellione sociale, culturale, politica, che potrebbe minare le fondamenta della sana società capitalista dedita a Dio e al Denaro.
Credo che il nocciolo della questione sia proprio questo.
Un senso di comunità distorto, conformista, ma soprattutto escludente e intrinsecamente fascista, che diventa germoglio di una normalità intollerante nei confronti di chiunque sia fuori dagli schemi (sia esso di colore, omosessuale, ribelle, povero, pazzo o semplicemente punk) dove la diversità non è qualcosa da comprendere o magari da valorizzare.
No. l’unico antidoto, l’unica opzione possibile è l’emarginazione, la violenza o addirittura la morte.
Sia chiaro, non che ci potessimo aspettare altro da un tribunale composto da uomini bianchi della middle class del sud degli Stati Uniti timorati di dio, ma un verdetto cosi è un ulteriore colpo inferto a Brian (e ai suoi famigliari e amici). Un ragazzo che, comunque, non penso abbia mai creduto nè nei loro tribunali nè nelle loro galere.
Un ragazzo che ha pagato un prezzo decisamente troppo alto per voler vivere libero.

“DON’T TELL ME WHAT TO DO! I’M AN FUCKING ANARCHIST!”
Brian Theodore Deneke (March 9, 1978 – December 12, 1997)

Filth – The List

https://www.youtube.com/watch?v=mtZ6z2sEqr8

The list is thousands long
People who decided it wasn’t for them
Did they really make that decision?
Conditioning runs deep in the U.S.A.
Teenage rebellion is just fine as long as you stop once you turn eighteen
Thousands of punks turned to society’s tools
There is something in their eyes
You can tell they sold out
Remember punk is more than teenage rebellion
Sure it starts there. But why does it end?
And the list is thousands long
What other life is there besides a life of freedom?
Never give in
Never give up
When boredom sets in
Think of the young kids who we once were
That enthusiasm is still there
You look around
What do you see?
One to replace every five that leave
And the list is millions long
But, lately I see an upsurgency
Back to old values of dedication and fuking rebellion
Perhaps the list is only hundreds long.

Recensione di Ombra Punx