Chicago 7, processo al film
Il processo ai Chicago 7 e la propaganda filoamericana hollywoodiana.
Se ancora non avete visto the Trial of Chicago 7, allora non leggete quanto segue, se non avete intenzione di farlo ma siete curiosi andate pure avanti con la lettura…
I titoli di coda scorrono sulla fine di The Trial of the Chicago 7, resto perplessa a fissare lo schermo. È indubbio che Aaron Sorking abbia fatto una buona drammatizzazione dei fatti avvenuti a Chicago nell’agosto 1968, dove durante la convention nazionale del partito democratico, i maggiori collettivi politici statunitensi organizzano una settimana di proteste contro la guerra in Vietnam, e del successivo processo per cospirazione ai sette esponenti di questi collettivi. Gli eventi si svolgono tra gli ultimi mesi del mandato del contestato presidente Johnson, e durante la presidenza Nixon. La settimana di proteste dell’agosto ‘68 è considerata da molti storici come uno dei momenti più critici della storia americana in un periodo che vide grande fermento politico, sociale e culturale. In molti raggiunsero Chicago, e il 28 Agosto furono in 10.000 a manifestare il proprio dissenso. La settimana fu teatro di violenti scontri con la polizia, furono impiegati ingenti numeri di uomini in divisa, al grido di “law and order” e la violenza brutale delle forze dell’ordine fu definita “police riot”; una dinamica repressiva che potrebbe ricordare ai molti il luglio genovese del 2001.
La sceneggiatura e intensa, e come nelle migliori tradizioni hollywoodiane punta dritto al “cuore”, condita da quel romanticismo tutto americano. Il film è girato per gran parte in un’aula di tribunale, per un budget di 35 milioni di dollari. Nonostante lo sforzo di arricchirlo con alcuni filmati di repertorio storico, probabilmente nel tentativo di assicurarne l’attendibilità, il film manca di sostanza. Il regista non contestualizza abbastanza il tema, la presentazione dei personaggi principali è sommaria e superficiale, la stessa settimana di protesta (iniziata con l’uccisione del diciasettenne Dean Johnson per mano della polizia) è rappresentata timidamente, quasi a far sospettare che ci sia stata un intenzionale censura.
I fatti sono eccessivamente romanzati e messi alla rinfusa nello svolgersi della storia, scelta stilistica piuttosto incomprensibile, soprattutto perché limita molto il respiro del film e il suo potenziale. Appare più urgente la preoccupazione a confezionare emozioni stereotipate, nello stile melenso del “Attimo fuggente”, piuttosto che a raccontare la storia, che risulta in un ulteriore appesantimento del film.
Il senso di confusione che si percepisce nello svolgersi degli eventi è forse dovuto alla genesi del film. Nel 2006 Spielberg commissiona a Sorkin la sceneggiatura, il film salta e da lì la produzione nomina diversi registi che si conclude con un nulla di fatto, fino al 2019 anno d’inizio delle riprese con la regia di Sorkin. Il film è prodotto in tempi record, il che potrebbe servire da scusante per la poca puntualità storica del film.
È forse per questa “frettolosa” produzione che il clima di violenza e i disordini di quella settimana di protesta sono narrati superficialmente?
Sembra che il regista non si assumi la responsabilità di raccontare una piazza storicamente importante come quella di Chicago; già scenario di proteste nell’aprile dello stesso anno, esplose a seguito dell’omicidio di Martin Luther King, che aveva visto violenti scontri con la polizia, che portò a 2150 arresti e undici vittime tra i manifestanti.
Sorkin ha la fortuna e la maledizione di trattare di un luogo simbolo e di un’America cosciente, sembrerebbe una grande opportunità per un regista nel clima caldo che il mondo attraversa oggi, invece Aaron Sorkin forza la mano del politically correct, restituendo una ricostruzione dei fatti parziale e a volte faziosa.
Sembra chiaro dunque che il regista e la produzione cavalcano l’onda della inquietudine generalizzata, che negli ultimi due anni ha portato grandi folle a manifestare il proprio dissenso nelle arterie delle grandi città internazionali e che anche in tempi di pandemia, nonostante l’estrema riduzione delle libertà individuali, ha visto manifestanti riversarsi nelle piazze di tutto il mondo al grido di Black Lives Matters.
Trattasi allora di un’intelligente manovra per assicurarsi l’ambita posizione del “most watched” su Netflix?
Sembrerebbe proprio che il limite di questo film sia la sua identità meramente commerciale, e sulla quale potremmo continuare a discorrere a lungo; ma così ci toglieremo il diritto sacrosanto di fare tutta una serie di considerazioni, necessarie a smascherare la totale mediocrità di un film osannato da molti e che probabilmente si guadagnerà qualche nomination agli oscar.
Cos’altro in questo dramma storico non quadra? Forse l’eccessiva presenza di cliché hollywoodiani? Sorkin racconta i personaggi ma non la loro storia, la sua diviene quasi una caricatura grottesca, il regista racconta Hoffman e Rubin, interpretati rispettivamente da Sacha Baron Cohen e Jeremy Strong, cofondatori della Youth International Party come dei buffoni, li sveste della carica rivoluzionaria e della loro identità politica. Mentre il pubblico ministero Schulz, interpretato da Joseph Gordon Levitt, è la chiara rappresentazione di quell’insopportabile buonismo paternalista e nazionalista statunitense.
È forse perché il film costruisce la farsa del lieto fine? Sembra che il regista non abbia fatto i compiti a casa e non abbia studiato abbastanza da conoscere l’importanza del tema e dei fatti svoltisi. Inoltre, il processo di Chicago passò alla storia anche per essere stato spettacolare e pieno di colpi di scena, non sembra quindi che il regista/sceneggiatore abbia fatto troppi sforzi nel prendere una storia già confezionata.
Ancora, nonostante un’eccellente interpretazione di Frank Langella nel ruolo del feroce e fazioso giudice, qualcosa proprio non torna nel film, ed ecco la rivelazione; l’intero film è occupato dalla presenza di uomini bianchi!
Ovviamente ogni regista è libero di stravolgere, se lo trova necessario un fatto storico in nome dell’arte, di preferire la fiction al racconto storico, ma deve anche farsi carico delle scelte e del messaggio che lancia attraverso i suoi film, e delle critiche che ne seguiranno.
Le donne in questo film sono dipinte come mere cornici all’interno di una storia fatta e raccontata da uomini, eppure quelli sono gli anni della rivoluzione culturale, del movimento femminista. Il movimento Women Strike for Peace è presente a Chicago in quella settimana di rivolte, e sono ben sei le attrici con un ruolo non esattamente marginale all’interno del film, e tredici le attrici con un ruolo secondario. Ma la donna di Sorkin è passiva, giace incapace e muta all’ombra del militante politico, che è dipinto un po’ come un clown ma che resta virile.
Le donne in questo film, non solo ricoprono il ruolo stereotipato della donna rilegata alla sola immagine, ma le stesse militanti politiche sono spogliate della loro forza identitaria; nella scena del tentato stupro la manifestante, interpretata da Madison Nichols, è una donna in preda all’isteria (sic!) e incapace a reagire. Anche nel caso della giurata 6, interpretata da Juliette Angelo, il regista ci restituisce un personaggio muto, pauroso, “vittima inerme e debole” come solo una donna è descritta negli stereotipi di genere. Nel personaggio femminile delle Black Panthers, Sondra, interpretato da Tiffany Denise Hobbs, Sorkin mostra il cliché della donna prudente perché paurosa, e ignobilmente e subdolamente si lascia passare l’idea silenziata della fanatica, della matta che allunga una pistola al suo compagno di militanza Bobby Seale, cofondatore delle BP, il che desta in me parecchi sospetti su Sorkin.
L’unico personaggio donna al quale è concessa una capacità intellettiva guarda caso è l’agente di polizia Daphne O’Connor, interpretata da Meghan Rafferdy. Il personaggio è quello di una stronza, inutile girarci intorno con tanti paroloni ed ecco un altro stereotipo di genere spuntare fuori. Al personaggio si aggiunge un altro cliché, quello del buonismo americano, perché nonostante l’agente Daphne si sia introdotta nel collettivo sotto mentite spoglie e abbia tradito la loro fiducia, alla fine è “una buona” che dà giusti consigli in momenti di tensione.
E ancora, il regista descrive le Black Panthers come un gruppuscolo di poco conto, dei modaioli che si presentano in aula di tribunale vestiti tutti uguali, deride la forza visiva dell’immagine e dell’immaginario delle BP e la sua importanza. Già solo questo potrebbe bastare per spingere a cambiare film, o per decidere di boicottare definitivamente Netflix.
Il mondo di Sorkin è intriso di destrismo spinto, dove in fin dei conti lo stato e i suoi rappresentanti sono i buoni, che lottano contro le mele marce dentro e fuori dal sistema; e come nelle migliori opere di propaganda filoamericana, l’epilogo ci mostra un’America unita dagli stessi valori di giustizia e nazionalismo. Un’azione questa di chiara rimozione della memoria storica sui fatti dell’estate del 1968 a Chicago e sull’arbitrarietà dell’accusa di cospirazione contro i 7. Messaggio questo che passa nonostante il tentativo goffissimo di camuffarsi con l’idea di essere un film di denuncia e dalla parte dei “giusti”, che lascia però lo spettatore confuso con un film che non sa di nulla.
Sono sicura che molte delle mie riflessioni saranno considerate eccessive se non inopportune, qualcuno potrebbe obiettare che il film è sul processo ai sette esponenti di alcuni dei più importanti collettivi “rivoluzionari” americani, e che questi sono uomini bianchi. Ma è la rappresentazione che doniamo che conta, è il come raccontiamo la storia, e Sorkin sembra vivere in un mondo in bianco e nero, dove esistono i buoni e i cattivi, e chi conta è uomo ed è bianco.
A cura di Giuseppa Stanislasky
Post scriptum da Radio Punk
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