Crass e DIY: sentite come gridano, sentite cosa gridano
Marco Pandin ci porta alla scoperta dei Crass e del loro Stations of the Crass, disco autoprodotto uscito nel 1979
Di ritorno da un viaggio a Londra, fine estate del 1979, un ragazzo che si chiamava Marco come me e abitava nel mio stesso quartiere mi ha regalato un disco che a lui non piaceva. L’aveva preso per la copertina insolita e senza sapere bene di che cosa si trattasse. Era “Stations of the Crass“, un disco che sin dal primo ascolto mi ha fulminato: allora dei Crass non sapevo praticamente niente, anzi no avevo saputo qualcosa a proposito di un loro pezzo censurato ma non li avevo mai sentiti. Ero abituato a musiche sperimentali e difficili, a certo rock pesante pestone e spaccatimpani, avevo ascoltato sia i Gong che Fabrizio de Andrè e mi ero fatto con loro una mezza idea del suono dell’anarchia ma non avevo mai letto testi così espliciti accostati a musiche così approssimative e sferraglianti – anch’io suonavo in un gruppo allora, per me la tensione e il rumore della cantina erano riconoscibilissimi.
“Stations” era un album doppio, i due dischi alloggiati dentro una copertina che si apriva a poster: da una parte un collage incredibile, dall’altra una selva fitta di parole. Dichiarazioni, testi, spiegazioni, poesie, quintali di parole scritte a macchina. Non me la sono sentita di attaccare al muro la copertina: la mia stanza non era granché e avrei dovuto togliere il poster di Che Guevara o quello di Frank Zappa seduto sul cesso. La musica che veniva fuori dal disco era ruvida ma poco consistente e si confondeva con quella di altre dozzine di gruppi che improvvisamente popolavano gli scaffali dei negozi di dischi, le frequenze radio e le pagine dei giornali musicali. Era suonata senza particolare talento, registrata senza grosse intuizioni né innovazioni per il periodo e complessivamente poco attraente, ma i testi erano assai diretti ed espliciti. L’incazzatura dei Crass invece che per il suono passava per di là, per quei testi gridati. Anzi, più che incazzati questi che urlavano sembravano proprio schifati, sbalorditi, sbigottiti dell’apatia che soffocava i ragazzi come me. Era un invito disperato a muovere le chiappe, farcito di parolacce, urlato in bianco e nero. Senza mezze misure.
Sentite cosa gridano in “White punks on hope” – punks bianchi che sperano, è la presa per il culo di un pezzo fatto appena qualche anno prima dagli americani Tubes (“White punks on dope”, punks bianchi drogati):
“Hanno detto di noi che siamo spazzatura ma il nostro nome é Crass, non Clash
Possono anche ficcarsele nel culo le loro credenziali punk
Visto che sono loro quelli che si intascano i soldi
Non riusciranno a cambiare mai niente con i loro discorsi così alla moda
Con i loro distintivi di “rock contro il razzismo” e le loro marce di protesta
Se date un’occhiata più da vicino a come stanno veramente le cose
Vi accorgerete che siamo tutti degli schiavi per chi comanda in questo paese.”
“They said that we were trash
Well the name is crass, not clash
They can stuff their punk credentials
Cause it’s them that take the cash
They won’t change nothing with their fashionable talk
All their rar badges and their protest walk
Thousands of white men standing in a park
Objecting to racism’s like a candle in the dark
Black man’s got his problems and his way to deal with it
So don’t fool yourself you’re helping with your white liberal shit
If you care to take a closer look at the way things really stand
You’d see we’re all just niggers to the rulers of this land“
In “Big man, big M.A.N.” Eve e Joy, le ragazze nel gruppo, strepitano e urlano contro mariti, militari, soldati, preti e poliziotti:
“Ti dicono di fare come vogliono, cresci e riga dritto
Ti dicono che se fai così tutto andrà bene
Oh, sì, sì, che vita meravigliosa
Dio, la regina, la patria, una televisione a colori, un’automobile e una moglie
È fantastico se ci riesci
Potrai trattare tua moglie come una merda
Potrai stare un po’ fuori la sera a divertirti di nascosto
E se tua moglie protesta prima scopala, poi falle un occhio nero
Quella nell’esercito è una vita da veri uomini
C’é una buona paga e ci si può divertire un casino
L’uniforme ti sta bene addosso e attira sempre un sacco di sottane
E quando ti sei stancato di fotterle digli che fanno schifo
Perché uomo è sempre scritto in grande: U. O. M. O.
Uomo è sempre scritto in grande: U. O. M. O.
La legge è dalla sua parte.“
“They’re telling you to do it,
Grow up and tow the line,
They tell you if you do it,
Everything will turn out fine.
Oh yes, oh yes, oh yes, what a wonderful life,
God, queen, country, colour telly, car and wife.
Oh yes, oh yes, oh yes, what a wonderful life,
God, queen, country, colour telly, car and wife.
It’s great if you can do it, it doesn’t take a lot,
Just means you must destroy what sensitivity you’ve got.
Well, that’s an easy bargain for the things you’re going to get,
You can treat the wife like shit, own a car, a telly set.
Slip off in the evenings for a little on the sly,
And if the wife complains, fuck her first, then black her eye.
There’s lots of worthwhile jobs for the lad who wants to know,
Lorry driving’s fun, you’re always on the go.
One hand on the wheel, the other up some cunt,
Or jerking off to Penthouse with with motorway up front.
The police force offers chances for a bright intelligent lad,
To interfere with anyone ‘cause they’re there just to be had.
It offers quite a range for aggression and for spite,
To take out your frustrations in a justifiable light.
It’s a mans’ life in the army, good pay and lots of fun,
You can stab them with your bayonet, fuck them with your gun.
Look smart in your uniform, that always pulls the skirt,
Then when you’ve fucked them good and proper, tell them they’re just dirt.’Cause man is spelt big M.A.N. it’s the letters of the law.
Man is spelt big M.A.N. that’s who the law is for“
Ascoltare “Fun” a neanche ventidue anni è stato praticamente come prendersi una raffica di schiaffi in faccia:
“Divertiti finché sei giovane, figlio mio
Divertiti finché sei giovane
Divertiti
Divertiti
Divertiti che il tempo passa.“
“Have some fun while you’re young, son,
Fun while you’re young, fun while you’re young,
fun, fun, fun, fun, fun, fun, fun, fun, fun […]
It’s gonna go on, it’s gonna go on“
Quell’album mi aveva preso molto così ho fatto la cosa più banale che si poteva fare, cioè ho scritto una lettera ai Crass e gliel’ho spedita all’indirizzo stampato sulla copertina, che poi era quello del negozio di Rough Trade a Londra. Non era una lettera tipica da fan: gli ho raccontato di me, dei miei compagni e di cosa succedeva nella mia zona. Un po’ temevo non ci fosse nessuno dall’altra parte. Speravo che non si trattasse di un altro scherzo anzi, peggio, di un’altra bugia: sono sempre state fatte così tante promesse (puntualmente mai mantenute) dai palchi dei concerti e dalle canzoni dentro ai dischi. E invece dopo un po’ mi è arrivata una risposta: non una circolare ma una lettera scritta a mano, nella busta c’erano anche dei volantini. Erano gentili, ringraziavano e mi chiedevano se possibile di mantenere i contatti. Così gli ho mandato un’altra lettera, poi un’altra e un’altra ancora e loro hanno risposto sempre.
Nei primi anni Ottanta coi miei amici e compagni facevamo una fanzine, Rockgarage, così durante le ferie dell’estate 1982 ho fatto un viaggio a Londra e ne ho approfittato per passare da Rough Trade e portargli qualche copia dei primi numeri (c’erano delle traduzioni dei testi di Crass e Poison Girls) e proporgli degli scambi. In negozio ho incontrato Scott Piering, che allora seguiva più che altro gli Smiths ma che ha telefonato a John Loder e combinato un appuntamento a distanza di un giorno o due. John è stato davvero cordiale e generoso, mi ha dato alcuni dischi in regalo e il numero di telefono di Dial House invitandomi a chiamare alla comune e ad andare a trovarli.
La prima volta che sono stato dai Crass ad Epping è stato nel giugno 1983, ci sono andato con Gino Collelli – cantante degli Wops, gruppo anarcopunk di Venezia e mio grande amico. Arriviamo lì e subito si sono ribaltate le prospettive: pensavamo di essere due ragazzotti provinciali disperati in pellegrinaggio alla sede del gruppo anarchico più figo e più pericoloso del mondo, e invece ci siamo ritrovati oggetto della loro attenzione e soprattutto della loro curiosità: gli sembrava davvero strano che ci fosse qualcuno a mille chilometri di distanza che apprezzasse il loro lavoro e ne fosse addirittura ispirato. Avevamo portato con noi le nostre cassette e fanzine, che gli piacevano parecchio. Insomma, hanno fatto più domande loro a noi che noi a loro, e se non fossero stati così cordiali ed affettuosi sarebbe stato imbarazzante. Abbiamo bevuto in compagnia litri di tè e mangiato metri cubi di pane fatto in casa e tostato con spalmato sopra il Marmite.
Negli anni successivi sono stato ospitato altre volte a Dial House, anche con la mia compagna, mi hanno spedito abitualmente del materiale e invitato ai concerti – sono riuscito ad assistere ad uno soltanto, quella volta mi hanno addirittura permesso di collegare al mixer il mio registratore. Poi si sono sciolti ma ci si continua a vedere e a sentire, so ancora rintracciare tutti: ho scambiato battutacce al telefono con Pete Wright, il bassista del gruppo, proprio fra natale e capodanno. Con Pete siamo molto amici, è sempre stato molto vicino alla mia famiglia e col tempo è diventato una specie di fratello maggiore.
Tornando per un momento ancora a “Stations”: il canto politico anarchico degli anni Ottanta è un coltello che ha affondato la lama nel cuore dei grandi temi politici del nostro tempo. Non ci sono state parole migliori per urlare rabbia e disperazione, non c’è stato suono migliore per rendere il rumore dell’emarginazione e della disoccupazione. Non ci sono state parole migliori per descrivere l’incubo nucleare e il ghigno dei potenti, non c’è stato suono migliore per raccontare le cariche di polizia, la consapevolezza, l’impossibilità della rassegnazione. Il punk anarchico ci ha fatto aprire finalmente gli occhi: ci siamo ritrovati stanchi di disoccupazione sfruttamento paura ed eroina. Eravamo improvvisamente ossessionati dall’idea che bisognava fare qualcosa: non volevamo morire in fabbrica, o finire a bere in un bar fino a non poterne più, o in un parco con una siringa piantata nel braccio. Il punk anarchico ci ha acceso sotto il culo la miccia del coraggio: non c’era niente da perdere, ed avevamo tutta la vita davanti.
I Crass non hanno avuto paura di sporcarsi le mani di merda per tirarla addosso alla regina, al papa, al governo, alla polizia, ai preti, ai guerrafondai, ai politici, ai benpensanti, ai punks milionari, a quelli che preferiscono restare zitti, a quelli che se ne fregano.
Rifiutando l’obbedienza e il silenzio hanno restituito dignità alla protesta. Hanno convinto tanti ragazzi ad usare la creatività come arma. Meno male che erano inglesi: fosse successo qui da noi gli avrebbero cercato l’anima a forza di botte per poi farli scomparire dentro qualche pilone dell’autostrada. Anarchici, pacifisti, antimilitaristi e vegetariani, i Crass sono stati considerati (è il parere del giudice del tribunale che, ritenendo i loro dischi “materiali volgari contenenti parole offensive” ha condannato il loro album “Penis envy” per oscenità e loro al silenzio) “un’associazione che opera al limite estremo della legalità”. E’ il limite che ci separa dalla libertà: quello che chi ci governa non ci permetterà mai di oltrepassare.
Articolo a cura di Marco Pandin – stella_nera@tin.it
Supportaci:
Siamo un progetto autogestito e puoi sostenerci attivamente, se ti va, in due modi:
-puoi dare un’occhiata al nostro catalogo e ordinare eventualmente dischi, cd, libri, spillette o altro ancora.
-puoi partecipare alla nostra call sempre aperta con un tuo contenuto inedito.