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Detonazione: Sorvegliare e Punire

Marco Pandin ci parla dei Detonazione, storica band friulana

Detonazione.
Sognare sempre a volume alto, e un giorno scomparire.

Coi miei amici ascoltavamo di tutto, senza metterci dei grossi problemi. Siamo andati in gruppo e alla spicciolata a tanti concerti, generalmente senza biglietto d’ingresso né soldi in tasca e senza affatto preoccuparci di generi e sottogeneri musicali. Ci piaceva ascoltare musica, fosse jazz o rock o sperimentale o qualsiasi altra cosa, e farlo insieme era bellissimo. Come i miei compagni, ero curioso e vorace. Ascoltavo volentieri punk, preferibilmente anarcopunk e certo anarcopunk pure mi piaceva parecchio e ne traevo ispirazione, ma non mi vestivo come i punks che c’erano sui palchi e dentro ai dischi. Un chiodo allora costava trecentomila lire, praticamente un intero mese di paga. Degli anfibi decenti che non mi rovinassero i piedi costavano come minimo altre cento/centocinquantamila lire. E’ vero, avevo un lavoro fisso, ma una parte del mio stipendio serviva a dare una mano in casa: vestirsi da punk per me era economicamente impossibile – in giro però la gente, che ci vedeva come un branco di straccioni sfigati e spettinati, pensava che io e miei compagni fossimo dei punks.
Noi però non ci sentivamo parte di alcun movimento e men che meno ci si sentiva protagonisti di una qualche scena: tendevamo a farci i cazzi nostri, frequentavamo le periferie e quelli che si erano organizzati in branco e stilavano liste di appartenenza parrocchiale noi li si guardava con un certo sospetto – da cani randagi quali eravamo preferivamo starcene alla larga. Non ci interessava essere niente e nessuno. Eravamo capitati in mezzo al punk e alla new wave, e non ce ne fregava assolutamente un cazzo di niente. 

A quel tempo fiorivano ogni settimana nuove agenzie di intermediazione che si inframettevano come passaggi obbligati di pedaggio fra noi appassionati e certi musicisti per poter organizzare qualsiasi cosa. Quel che forse era peggio era che si inciampava ovunque in nuovissimi esperti superinformati intrallazzati e vestiti all’ultima moda che pretendevano di spiegarci come eravamo, cosa bisognava fare e cosa dovevamo pensare. La nostra creatività, così misera, instabile e intermittente, si adattava poco o niente ai meccanismi che regolavano le nuove onde ufficiali, così molto presto coi miei compagni ci siamo ritrovati spintonati ai margini. Anzi, ci siamo ritrovati ben chiusi fuori dalla scena. E meno male.
Ho imparato presto che quella sedicente scena alternativa ed indipendente, ufficiale perché riconosciuta dalla stampa dalla radio dalla televisione dalla pubblicità e quindi da tutti come tale, era saldamente in mano ad organizzazioni e personaggi che di alternativo e indipendente non avevano proprio nulla. Per quanto a Milano, Torino e Bologna i punks si sbattessero e facessero rumore, il giro rockitaliano che contava era in mano ai soliti vecchi ricchi e a gente giovane altrettanto benestante che già allora poteva permettersi le videocamere comprate da papà e stampava giornali approfittando del sostegno neanche tanto velato dei partiti politici. Brutte facce che andavano a predicare in televisione – la mattina impiegati a farsi pagare in banca, la sera dee-jay della nuova onda a farsi pagare in discoteca. Io non avevo affatto voglia di arricchirli: per me e quelli come me l’unica era togliersi di torno e rintanarsi nelle cantine, nei primi posti occupati e presto sgomberati, nelle autoproduzioni, nella precarietà, nel circuito sottoterra. Ho fatto così, ho scelto una strada che mi andava bene e che oggi sto ancora percorrendo con gambe diventate vecchie e malmesse. 

Dai miei compagni della libreria anarchica a Venezia ero venuto a sapere che nella Bassa friulana si riuniva un gruppo di ragazze e ragazzi della mia età per leggere e commentare insieme degli stralci appena tradotti e fotocopiati de “L’ecologia della libertà” di Murray Bookchin. Il libro non era ancora uscito in Italia, ed era un testo piuttosto inusuale che faceva riflettere e suggeriva approcci nuovi al modo di fare gruppo, di fare rete, di relazionarsi agli altri e al mondo. Questo americano sembrava avere mirato al mio cuore: le sue erano le parole suggestive che descrivevano perfettamente certi miei sogni e me li facevano toccare con le mani. Così un giorno prendo la macchina, la posiziono in direzione Udine e vado a San Giorgio di Nogaro – là incontro Cespuglio, Marc, Pauli, Stefano, Lino e Tiziana e altre ed altri. Il gruppo sociale, così si chiama, si riunisce abbastanza regolarmente. Abbiamo tutti press’a poco la stessa età e si parla, si sta insieme, ci si prende sul serio e si cerca di capire, di ragionare, di avvicinarsi e conoscersi, ci si costruisce insieme un’idea o almeno ci si prova. 

Un giorno i friulani decidono di organizzare un concerto di un gruppo di loro amici: non li conosce nessuno, si chiamano Detonazione, vengono da Udine e dintorni e credo sia la prima volta che escono dalla cantina per farsi sentire in pubblico. Hanno appena registrato e stampato un disco, pare abbiano fatto tutto da soli.

Prima di cominciare a suonare distribuiscono un volantino:

“…Mentre centinaia di giovani agonizzano schiavizzati dall’eroina, instupiditi dalla noia, frustrati in ogni loro aspirazione, una squallida congrega di politici corrotti, giornalisti bugiardi di professione, bottegai sempre pronti alla genuflessione farneticano sull’isola felice che secondo loro sarebbe questa palude sempre uguale a sé stessa dove viviamo. Guardandoci attorno ci pare impossibile avere trovato la forza per metterci a suonare, ma ora che l’abbiamo fatto in qualche maniera vogliamo convertire la nostra disperazione, la nostra nevrosi, la nostra sfiducia in energia  che ci consenta di continuare a urlare sempre più spesso e sempre più forte perché finché continueremo a farlo vorrà dire che non ci siamo ancora arresi. In ogni parte d’Italia, ed è anche in situazioni peggiori in cui viviamo noi, stanno nascendo gruppi con attitudini e intenti simili ai nostri: ciò ci conforta e ci spinge a sperare nella possibilità di poter un giorno leggere il terrore sul volto di chi ora ci opprime…”.

Più che un palco quella allestita in Bassa friulana è una pedana, anzi no più che una pedana sembra una pista da circo. Là in mezzo, invece che saltimbanchi e bestie varie c’è un gruppo che suona, ma non è come succede di solito: non c’è qualcuno che si mette in mostra ma dei ragazzi come me che come me sono proprio stufi e hanno deciso di non restare zitti e di inventarsi qualcosa invece che restarsene a guardare, che si sbattono, che cercano di darsi da fare. Ci provano insomma, fanno quello che possono, come possono. Sanno suonare, ed è fatta di musica la loro protesta, alta di volume e di agitazione, e tutta storta e convulsa, nervosa, inquieta, frammentata. Solo qualche pezzo ha una qualche forma riconoscibile introduzione/strofa/ritornello/fine, dentro al concerto si agitano lunghe improvvisazioni e numerosi cambi di rotta e di ritmo. Ogni tanto sembra di stare dentro a una strada felliniana, ma è un’impressione che svanisce in fretta: i cani ringhiano e rizzano il pelo sulla schiena, i giocolieri e i trapezisti hanno artigli affilati, i clown hanno disegnato in faccia un ghigno e corrono in cerchio sulla segatura impugnando mazze da baseball. 

Migliaia di madri stanno gridando e pregando il loro dio
migliaia di soldati stanno combattendo in tutto il mondo
ma ora abbiamo visto cosa hanno fatto nel passato
ma ora abbiamo capito come hanno controllato le nostre menti
perché questa è la religione.
Migliaia di corpi stanno bruciando senza scopo
e migliaia di bambini stanno morendo di fame
ma ora è il momento di fermare questo crimine
e noi combatteremo fino alla morte
perché questa è la religione.

Assieme a Bruno là in mezzo alla pista del circo ci sono Gianni, Loris, Giorgio, Massimo e Fabio – ciascuno sembrava impegnato in una guerra personale contro il mondo che da sotterranea e intima si stava facendo attraverso la musica sempre più carica di tensione, aperta ed esplicita. Bruno soffia l’anima dentro al suo sax tenore e si interrompe solo per abbaiare alla luna, la sua voce ha la cattiveria di una rasoiata. E gli altri non sono da meno, testardi a costruire e rincorrere ritmi di guerra per poi ridurli in frantumi o interrompersi per poi riprendere con diversa velocità e tensione. Il loro è un modo curioso e assolutamente inedito di mescolare in musica l’angoscia e la speranza, un’irrefrenabile voglia di vivere alla luce del sole e il bisogno dell’ombra e dell’oscurità come protezione. Non potevano scegliere un nome più giusto, per raccontare l’effetto che la loro musica mi fa dentro il cuore.

“… Vivendo circondati dal conformismo spinto fino alla demenza, e dalla passività più masochista, il solo fatto di agire liberamente, con sincerità e sentimento può avere un profondo valore eversivo, ed è partendo da questo concetto base che abbiamo cominciato ad elaborare il nostro progetto, musicale e non. Noi non cantiamo slogans. Ci interessa di più esprimere sensazioni ed emozioni non per vacuo egotismo, bensì proprio per sottolineare con maggiore efficacia il nostro disgusto per le istituzioni, i mass media, il potere, dato che, e non è scoperta di oggi, anche la nostra vita privata più intima viene attaccata dalle nevrosi e dall’angoscia imposteci dal sistema. I nostri testi hanno lo scopo di denunciare le devastazioni operate sulla nostra psiche dalla morale, dalla religione, dalla repressione sessuale, piuttosto che soffermarsi a descrivere le violenze subite dai nostri corpi attraverso il lavoro, la repressione poliziesca, le torture, dato che queste sono molto più evidenti e riconoscibili…”

(dalla presentazione di “Sorvegliare e punire”, 1983)

Facciamo un passo indietro rispetto a quel mio primo impatto: partiamo da quell’esordio su vinile, un settepollici con quattro canzoni. Due col titolo in inglese, due col titolo in italiano. Raccontare “Sorvegliare e punire” fino a qui è facile. Ma trovare qualche parola buona oggi, ad oltre quarant’anni dall’uscita, per me è ancora una strada in salita: immaginate il mio spaesamento di allora. Quando si appoggia la puntina sui solchi esce dagli altoparlanti pioggia così dura che sembra grandine, o peggio sembra una gragnola di sassi che mi ammaccano non tanto la carrozzeria quanto l’esistenza, e non c’è riparo intorno.
I testi raccontano di grigiore e disagio e frustrazioni, di desideri spezzati e sogni interrotti ma mettendo le parole in stringhe contorte assai diverse ed altre dall’abituale retorica delle rime anarcopunk del tempo. Ad ascoltarli al primo momento sembrano punk, tutti così scattosi e nervosi, ma ci si accorge presto che non somigliano a niente e a nessuno. Ma l’avrete già letto sui libri ufficiali anche voi, quelli scritti dai reduci e da quelli con la patente, che coi giri punk tricolori i Detonazione non c’entravano un cazzo. Erano quelli sbagliati, quelli inadeguati, quelli insufficienti, quelli inclassificabili. E invece forse sì che lo erano, secondo me: sembravano degli anarcopunk del nordEuropa – più bravi a guardare avanti, più desiderosi di sperimentare rispetto alle nostre bande, più curiosi a spingersi verso il margine e oltrepassarlo, per mettersi a correre verso le zone non ancora mappate per avventurarsi in sentieri sonori poco battuti, più coraggiosi nel masticare e risputare, liberi e liberati. Quella che bagnava in profondità le loro canzoni era un’anarchia schiumosa e corrosiva, più di un chilometro anzi dieci cento mille chilometri avanti rispetto alla confusione, al fracasso e alla cagnara. Solo che sembrava non accorgersene nessuno – e a loro di quello che pensava la gente non gliene fregava niente. Non vi piacciamo? E allora?
Invece che raccontarvi la musica, che potete recuperare con facilità in rete, vorrei soffermarmi sul fruscio disturbante dei ragionamenti che la tengono insieme. I gusti, le tendenze e gli ascolti di ciascuno andavano in direzioni diverse ma ognuno non ritrovava nell’altro una controparte, quanto uno stimolo, una scintilla. I Detonazione sapevano intrecciarsi e sostenersi a vicenda: forse era la provincia friulana ad averli fatti crescere così, generosi e solidali gli uni con gli altri. Un gruppo solido e composito come raramente s’era visto, e per me è stata una grande fortuna poterci capitare in mezzo.

“…Ci piacerebbe che si discutesse di più del rapporto che intercorre fra tendenza politica e forma musicale, e questo volantino vorrebbe essere uno stimolo a farlo. A nostro parere il capitalismo è in grado di assorbire e neutralizzare qualsiasi opinione, qualunque sia la forma che la “riveste”. E ciò perché è la forma stessa che, nel momento in cui si sclerotizza, neutralizza il messaggio che contiene. Il problema, però, si risolve se questo veicolo (la musica) su cui noi vogliamo far viaggiare le nostre idee, viene continuamente reinventato, stravolto, senza fossilizzarsi sui soliti schemi, solitamente importati dall’estero. Creare musica originale, personale, anticonvenzionale, è una pratica eversiva straordinariamente efficace in un mondo dove vorrebbero farci essere tutti uguali, grigi e privi di fantasia. Se la musica è un mezzo per favorire la crescita collettiva ed individuale, è ovvio che essa dovrà seguire, o meglio precedere, questa crescita, e non rimanere perennemente uguale a sé stessa…”

(dal volantino distribuito il 4.9.1983 a un concerto a Udine).

Va a finire che con Gianni e Massimo e tutti gli altri facciamo presto amicizia, e amicizia forte. Passiamo insieme un sacco di tempo da loro in sala prove, in studio di registrazione, tanti chilometri sulla strada, tante e ancora tante sere fino a tardi tardissimo tra una birra e una canna e quattro risate. A un certo punto avevano deciso di non suonare più a Udine e dintorni perché i concerti sì andavano bene, le loro canzoni venivano trasmesse spesso a radio Onde Furlane ma anche in certi programmi carbonari e partigiani della Rai, insomma avevano cominciato a riscuotere un buon successo e la gente li riconosceva per strada come “i Detonazione” e non più come Gianni, Bruno, Fabio, Giorgio, Massimo. La città gli stava troppo stretta addosso, loro ci erano rimasti male e si erano intristiti. Li avevano chiamati, credo tramite qualcuno dell’Arci, a suonare in Olanda e a Barcellona, e al ritorno i loro erano resoconti di incontri improbabili e comici, le avventure e soprattutto le disavventure in quei posti lontani sempre così strani e diversi dalle nostre periferie. A me sembrava raccontassero delle specie di fiabe, Bruno e Giorgio come dei Jack Kerouac nordestini: le case occupate, le comuni hippie, i concerti dei gruppi più assurdi, i dischi a prezzo imposto, i mercatini dei bootleg, le fanzine e i libri alternativi, musica a ogni ora del giorno, il teatro e il circo in strada, l’erba, i cibi vegetariani e naturali… a sentire queste storie la mia disperazione, che già allo stato normale era in ebollizione, finiva per esplodere. Bruno mi raccontava di John Coltrane, mi indicava costellazioni nuove e io restavo a guardare la catena che mi serrava il collo. E mi veniva da piangere, davvero. 

Sovrapproduzione di informazioni
Il cervello beve immagini e colori
per placare la sua sete di calore.
Fascino e mistero hanno un prezzo caro
Una coltre densa di ignoranza e noia
per placare la mia sete di calore.
Fletti le ginocchia, spera e sii felice
non avrai mai più bisogno di null’altro
per placare la tua sete di calore.

D’accordo con tutti abbiamo ristampato “Sorvegliare e punire” e l’abbiamo allegato alla nostra fanzine veneziana, Rockgarage. Poi abbiamo prodotto insieme un singolo, un oggetto urgente e realizzato in velocità, una canzone e un pezzo strumentale che pensavamo non dovessero essere costrette ad aspettare. Giorgio se ne va, entra Anna – bellissima, che si dà da fare col sintetizzatore e trasforma decisamente gli equilibri sonori del gruppo. I Detonazione registrano e producono da soli il loro primo album “Riflessi conseguenti”, un disco dove per arrivare alla fine ci si deve far largo fra reticolati, trabocchetti, zone oscure e meraviglie improvvise. Una bella storia, troppo bella – forse era davvero troppo bella per poter durare. A un certo punto, un brutto giorno hanno azzannato un’esca avvelenata che li ha prima portati via da Udine e dal nordest e poco dopo praticamente cancellati dai radar.  

Marco Pandin
stella_nera@tin.it

Credit foto: archivio del locale Simplon di Groningen in Olanda