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Detriti – Una storia fatta di disastri e di montagne abbandonate

Marco Pandin di Stella Nera Edizioni ci parla della band Detriti e del loro album omonimo

La diga del Vajont in copertina. Il rumore dentro. Forte, schiacciante, compresso, amplificato, distorto, insostenibile.

Con ogni probabilità la parola Vajont a una parte di voi non dirà granché: è il nome di una diga della Società Adriatica di Elettricità (in seguito incorporata nell’Enel), piazzata da cent’anni in una zona persa tra il Veneto e il Friuli.

E’ là che è successa una vecchia disgrazia: voi che siete nati dopo non ne saprete praticamente niente e mica è colpa vostra, ma se ne ricorderanno senz’altro i vostri nonni e genitori. Se cercate su internet si chiama così anche un libro di Tina Merlin, partigiana e giornalista dell’Unità che si impegnò a indagare a fondo sull’accaduto e che i carabinieri per conto dei padroni si adoperarono a zittire, ma senza riuscire nell’intento. Tra le occorrenze restituite dal motore di ricerca troverete senz’altro anche uno spettacolo di teatro civile impressionante ed intensissimo di Marco Paolini e Gabriele Vacis che magari avrete visto in televisione quando ancora certe cose le trasmettevano – se non l’avete fatto, vi invito a procurarvene una copia in qualche modo e a guardarlo tutto, con tutta l’attenzione di cui siete capaci: è un ottimo punto di partenza per costruirsi un’opinione.

Dietro al nome Vajont c’è una brutta storia accaduta quando ero bambino, allora avevo solo sei anni: nell’ottobre 1963 è franato il fianco di una montagna nel bacino artificiale formato dalla diga, un’inondazione che ha causato quasi duemila morti. Vittime del progresso e della sfortuna s’era detto, ma non era vero.
Quella del Vajont è stata una catastrofe annunciata da segnali premonitori gravemente ignorati dai vertici dell’azienda costruttrice e del tutto inconsistenti alle orecchie della politica che avrebbe dovuto sorvegliare, e per un motivo soltanto: il rumore dei soldi era molto più forte. Ovvio poi, come successo per il Petrolchimico a Marghera e per mille altre storie accadute ovunque in cui gli interessi di pochi hanno più valore degli interessi di tutti, che secondo il tribunale non sia stata colpa di nessuno.
Mi ricordo i discorsi a frammenti e a voce bassa dei miei genitori. Mi ricordo che nei giorni subito dopo il disastro non c’era scuola perché la maestra dicevano si fosse precipitata quella notte a Longarone per cercare di vedere cos’era rimasto del suo paese, della sua casa e della sua famiglia.

Mi ricordo di un amico di mio papà che lavorava in ospedale ed era partito subito come volontario sul Piave. Andava “a dare una mano con le pertiche”: avevo sentito dire così i miei mentre si cenava, ma solo dopo anni ho capito che le pertiche le usavano giù dai ponti da Vittorio Veneto fino a Conegliano come denti di pettine sopra il fiume per cercare di fermare i cadaveri portati in braccio dalla corrente. Mi ricordo che a scuola dopo qualche giorno la maestra è tornata, ma era come invecchiata e non sorrideva più.

Questi sono due frammenti, estratti rispettivamente da “Coprire tutto” e da “E allora”, due canzoni dei Detriti. Ma faccio fatica a chiamarle canzoni, somigliano di più ai pezzi di vetro incandescente che stanno per terra nelle fornaci di Murano – sembrano innocui, ti chini a raccoglierli e ti mordono le dita. Oppure le chiamerei schegge, pallottole, spine, lamette, aghi – non canzoni. Leggeteveli, ne parliamo dopo:

Sangue rappreso nel deserto umano
sabbia che vive.
Aspetto la marea
per coprire tutto.

In un mare di cocci di vetro
trovo le mani sporche di fango.

Vi ho già raccontato a settembre del 2023 dei Kina, punks anarchici montanari del nordovest. Stavolta vi racconto la storia di cinque ventenni da Feltre, Belluno, Cadore: una manciata di montanari del nordest. Ragazzi di provincia, bizzarri e problematici se vogliamo, ciascuno storto a suo modo e senza uno stile preconfezionato.
Siamo a metà/fine anni Ottanta e il punk c’entra, ma solo fino a un certo punto. Succede ogni tanto che i ragazzi crescano malamente. Che siano, come dire, strani. Che vengano su storti, un po’ spostati rispetto al branco. Quei ragazzi lo erano: desideravano e sognavano cose che la scuola non gli insegnava. Insomma, cercavano di immaginarsi e costruirsi una specie di futuro cavandosela da soli senza fidarsi del parroco e dell’insegnante di religione, né dei deejay radiofonici né di Mister Fantasy, e provavano ad andare avanti a tentoni nel loro presente pagando cari, e spesso sulla propria pelle, quegli errori di valutazione ed interpretazione del confine sottile che separa il sognare e lo sragionare.

Detriti al CPA di Firenze

Per loro il mondo conosciuto e mappato e sperimentato finiva con l’ultima casa del paese giù in fondo alla valle, eppure l’istinto gli diceva che c’era un qualchecosa lì fuori da esplorare oltre il bordo delle montagne. I contatti con quel qualchecosa che rombombava forte lì fuori, oltre che con la telepatia, si mantenevano via lettera, con l’autobus e il treno e appena possibile grazie a un’auto usata stracarica, lanciati in spedizioni avventurose con destinazione Mestre, Padova, Milano o Bologna con la scusa dei concerti. Da non sottovalutare l’apprendimento attraverso certi giornali musicali e riviste anarchiche in abbonamento postale – carta buona per far prendere velocemente fuoco a certe idee e a certi deliri.

C’è stata di recente un po’ di ressa mediatica attorno a piste di bob miliardarie che il resto del mondo ritiene inutili, ma di solito del Bellunese non si parla in giro. Nonostante Cortina è e resta una zona povera, cioè no dico meglio impoverita nel giro di questi ultimi cinquanta/sessant’anni – un po’ come il Polesine, altra zona di cui si parla poco in giro. Tutt’e due territori in parte abbandonati da tempo dai loro abitanti emigrati altrove in cerca di lavoro e fortuna e, mi verrebbe da aggiungere, divenuti poco adatti ad essere sfruttati dall’amministrazione regionale come serbatoio elettorale. Se nelle province ricche tutt’intorno sventola garrulo il serenissimo gonfalone, Belluno e Rovigo somigliano a due tesserine messe fuori posto nel puzzle di quel nordest che nella pubblicità e nelle cronache dei telegiornali regionali appare paese a solida maggioranza neroverde con un gradevole sottofondo reggae addomesticato (o, a scelta, simil-rondòveneziano come quando si è inchiodati in attesa al call center dell’Asl per prenotare una visita).

Un borgo dei borghi fatto di muri alti e inferiae attraverso cui l’aria passa e arrugginisce, le piazze pulite senza immigrati sfaccendati in giro perché a servizio 24/7, ricco di casse piene de schei opportunamente nascoste nei sottoscala delle ville giuste e nei caveau delle banche – quelle non ancora fallite e chiuse. Un panorama fatto di prosecco e cicchetti da cui, se capita la sfortuna di nascere dalla parte sbagliata, si è completamente tagliati fuori: il nordest che gli sfigati come me conoscono dalla nascita è paese nonconsumabile di cartongesso e senza n maiuscola, un alternarsi di periferie e discariche e zone artigianali/industriali di capannoni tutti brutti uguali, gonfio di stazioni ferroviarie in disarmo ma con un’ampia scelta di outlet, ipermercati e discount a ogni rotonda.
Nelle zone sorvegliate dalle nottole abitate dai padroni-a-casa-loro il nordest è perennemente affaccendato a tagliare nastri e fette di sopressa per l’inaugurazione di una qualsiasi cosa. Brillantinato e vestito da morto, il nordest sorride eternamente a noi poareti come una réclame del turismo odontoiatrico. Pfas, glifosato, discariche abusive e rifiuti tossici? Mai visti né coverti: tutta cattiveria e disinformassiòn messa in giro dai comunisti e dai comitati. Avete presente quelli che: una bella dormita e passa tutto, anche il cancro. Eccoli, i padroni-a-casa-loro. Specialisti a far eleggere ladruncoli e sceriffi deboli d’udito come sindaci, ad armare tanki finti e piantare reticolati veri, a controllare il vicinato aggregati in ronde nere e addestrare cani da morsego.

“Svanito” è il primo pezzo della prima facciata. Un calcio in faccia:

Svanito in uno degli ultimi giorni
qualche volta (qualche volta)
la precarietà
affonda in me e mi divide a metà

così la tortura è possesso
così il rispetto è vergogna
il ricordo sale risucchiato dalle scale (dalle scale).

Quella dei Detriti è una storia fatta per buona parte di catastrofi e abbandoni. Tornando per un momento ai discorsi che facevo all’inizio, hanno sbattuto in copertina una foto da vertigine della diga scattata da Vito Vecellio, ma le loro canzoni non raccontano esplicitamente del Vajont. Eppure la musica che offrono a volerla analizzare e giustificare è risultato diretto di quel disastro, anzi di quei disastri, e del loro isolamento – e geografico e psicologico.

Detriti a Rovereto (TN)

Musica che è inservibile e inutilizzabile: non offre nulla di divertente, niente di commestibile, non offre sorrisi, né riscaldamento, né pace. Porta con sé frane, smottamenti, notti lunghe, inverno, brividi. E’ il rumore dell’orizzonte allacciato troppo stretto attorno al collo, delle prospettive che non ci sono, della trappola perversa del domani uguale all’oggi e dell’oggi uguale a ieri.

Il gruppo è attivo tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, e dire “attivo” è un’esagerazione: hanno fatto solo pochi concerti perché non li chiamava quasi nessuno.
Il perché? Erano difficili anzi impossibili da consumare – prova un po’ a finire il tuo spritz mentre quelli sul palco ti mordono i coglioni.

Il disco lo mettevi su e ti aggrediva subito un misto di inquietudine e paranoia che ti spingeva a interrompere l’ascolto e a togliere in fretta quel vinile del cazzo dal piatto. Bastava un pezzo, ma anche mezzo e poi non si riusciva più a levarsi via di dosso quel malessere pesante. Era come un odore chimico corrosivo che ti invade casa e in un attimo ti entra dentro dalle orecchie, dal naso e dal buco del culo. Puzza di stabilimento e ciminiere, di fosso autunnale, di malattia cronica, di cella d’isolamento e manicomio, di corridoio di ospedale, di acqua ferma dentro ai vasi di fiori in cimitero.

Ecco “Queste parole”. Come accade per i frammenti riportati poco prima, leggere questi testi dà solo un’idea superficiale e deficitaria del frastuono che li percorre. Leggendoli e basta si viene a perderne l’elettricità, il rombo sordo del terremoto che nascondono e il riverbero metallico che lo segue, così come se ne perdono gli scoppi, i lampi, il buio, la dinamica e la devastazione che ne sono parte integrante:

Queste parole sono
come il tuo bicchier d’acqua
come la tua preghiera
scritte nel sonno
quando una carezza ti sfiora.

I Detriti nascono con Tomaj Mauro e Marioerba come trio voce/batteria/basso e proseguono Tomaj e Mauro come duo voce/batteria fino a fine 1989 quando entra Hector come bassista. Pochi mesi dopo registrano una prima versione di “E allora” per la compilation benefit pro-Palestina “Shabab”, prodotta da Blu Bus. Il loro covo è la sala prove della Cayenna, il centro sociale autogestito di Feltre. Nell’estate 1991 si uniscono Belfa ed Egle, ed è questo il gruppo che mette insieme i pezzi per l’album d’esordio omonimo, uscito nel 1993 come coproduzione tra Blu Bus e Mister X. E’ l’unico disco tutto loro che sono riusciti a portare a termine.

Detriti al Cayenna di Feltre (BL)

Belfa, Egle, Hector, Mauro e Tomaj – con tutti i loro nodi, le loro difficoltà, i loro chiodi piantati addosso – avevano a disposizione un sax, una chitarra elettrica, un basso e un set di tamburi e hanno trasformato il tutto in armi improprie. Beh, dovevano pur difendersi. Come benzina anni di fantasie sbagliate e letture sbagliate e visioni sbagliate e sogni sbagliati e ascolti sbagliati stratificati. Come pallottole la voce di Tomaj, addestrata all’ululato, al ringhio e allo sputo da Phil Minton, Sainkho Namtchylak, David Moss ed altri terroristi sonici internazionali. Piuttosto significativo, secondo me, che il loro suono sia stato costruito anche con le mani e la testa di Marco Milanesio – uno abituato a maneggiare elettronica e sperimentazione pesante senza indossare protezioni.

Ogni volta che ascolto “Odia e ama” nella mia testa vedo un Caravaggio con dentro Belfa piedi staccati da terra che guarda attraverso un varco nel soffitto verso le nuvole e il cielo, gli altri dietro intenti a fare cose e Tomaj il ladro del fuoco che si dispera in un angolo:

Con tutto questo falso allarmismo
nascondere disorientare
obbedire e …rubare
cercare e …riprodursi
cosa sta succedendo?
elettricità (nei miei occhi)
nei miei occhi tanta nostalgia di verde.

Tomaj

Le montagne. Le montagne, ecco. Dietro a ciascun pezzo dei Detriti ci stavano (e ci stanno, anche oggi dopo migliaia di anni) le montagne. Montagne fatte di ragionamenti, di strade sterrate, torrenti, crepacci, sentieri, massi, punti interrogativi. Sta tutto lì, immobile. Anche oggi, anche adesso che il disco ha trent’anni e si trova in giro solo su Discogs a prezzi di merda più spese di spedizione. Sono tutte copie near mint: chi l’ha preso pensava fosse tutt’altro e ha smesso subito di ascoltarlo, vuole disfarsene e non ci riesce.

Il disco frigge di insofferenza e ustiona la pelle al primo contatto. E’ violento, tossico, delirante, ispido e sfuggente come una bestia selvatica. E’ un disco caotico, sporco, disperato, estremo sì, e mi ha conquistato da praticamente subito. Uno di quei pochi dischi che mi hanno buttato giù la porta a calci appena al secondo o terzo giro (un altro era stato “Rock bottom” di Robert Wyatt, e la facciata dei Franti nello split coi Contrazione, e “Arbeit macht frei” degli Area, e anche “Stations” dei Crass) – e io che cerco sempre di chiudermi il cuore a chiave. L’ho ascoltato decine di volte, trovandoci dentro sempre sorprese artigli spine, e addosso uno spavento nuovo, ematomi, segni di morsi, graffi e tagli sulle braccia e sui polsi.
All’uscita, citando addirittura gli Henry Cow e il Cantico dei cantici, scrissi su A/Rivista Anarchica che era un disco “bello come la luna e terribile come un esercito schierato”. Non ho cambiato idea. Forse è il più geniale e stupendo disco di free music fatto in Italia in quegli anni, e anche dopo: è musica libera da schemi, regole, imposizioni, stili, remore. Ogni tanto non è musica: sono pallottole al cuore del perbenismo musicale. Ogni tanto non sono canzoni: è un cane rabbioso che morde il silenzio. Indimenticabile come un incubo, e irrinunciabile come l’aria.

…Se ascoltate bene questo primo lavoro del gruppo Detriti potete sentire una campana che ritmicamente annuncia i signori in stazione dell’arrivo imminente di un treno. Questa musica è scomoda. Ferisce come il vetro nascosto nell’erba malata delle stazioni di benzina. Scomoda perché ci ricorda che il treno non è arrivato, non è mai arrivato. Il treno delle grandi attese, del futuro più giusto è deragliato molte stagioni fa, carico di ideologie, riformatori, sogni barattati, compatibilità. Viviamo l’inizio di un’epoca dove i futuri sono finiti: la planetarizzazione dei modelli di sfruttamento e dei modelli culturali ad essi collegati parla la lingua del nuovo ordine mondiale, di cogestione dei mercati, di luminose esistenze come clienti di merchandise, di data banks, di know-how, di teleutenti del virtuale. Ma è una lingua vecchia, dal vocabolario misero come la vita che implica: dominio, lavoro, guerra, nazione, razza, religione…” (Stefano Giaccone, dalle note di copertina del disco).

Come dicevo prima l’album era stato registrato e missato vorticosamente tra maggio e settembre 1993 da Marco Milanesio al suo studio Acqualuce in provincia di Torino. Il master poi è andato perso. A distanza di tempo ne è stato ritrovato un multipista analogico, da cui è stato ricostruito a Montepulciano un accurato alternate mix – poi messo da parte, poi parzialmente ripreso.

Grazie sempre a Marco Milanesio ne è stata ricostruita e restaurata una versione digitale che suona meglio (o peggio, secondo i punti di vista e di ascolto) di prima, e che è stata approvata dai membri del gruppo – ed è quella che per grande parte è stata poi stampata su cd da stella*nera nel 2007. Egle, Hector, Mauro e Tomaj l’hanno dedicato a Belfa, che nel frattempo se n’è andato via dalle montagne e dal nordest e dal mondo per sempre.

Belfa

Marco Pandin
stella_nera@tin.it