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Guida alla discografia degli Iron Chic, il sound DIY negli anni ’10

In questo approfondimento sulla band americana, scopriamo la discografia degli Iron Chic e il loro lato Do It Yourself

Una breve premessa, magari qualcuno si chiederà perché scrivere un articolo su una band come gli Iron Chic, che sicuramente non ha inventato nulla e nemmeno è considerata capostipite del proprio genere, in fondo sarebbe più pertinente parlare di Menzingers, Pup, Off With Their Heads ecc. Una cosa degli Iron Chic però mi ha colpito, ossia i punti in comune con un gruppo di Genova che amo molto, i Cocks. Entrambe le band, con i dovuti raffronti, hanno evoluto in maniera simile il proprio sound, in modo lento ma progressivo, entrambe hanno guadagnato, grazie all’etica DIY, il rispetto dei gruppi hardcore politicizzati e non (gli Iron Chic sono stati più volte in tour di spalla ai Propagandhi) e entrambe le band hanno uno spiccato senso della melodia più melodrammatica, cosa che diciamocelo, alla mia generazione è sempre piaciuta.

L’orgcore, termine che cercherò di usare il meno possibile ma che serve in questa sede per capire su che campo stiamo giocando, non è esattamente la mia cup of tea se andiamo a vedere, fatto sta che è sicuramente il genere punk che appartiene ai miei coetanei, ossia i nati a cavallo tra gli anni 80′ e 90′. Ovviamente nessuna di queste band ha inventato l’approccio DIY al concetto di punk melodico, è una cosa che è sempre esistita ma che diciamocelo, anche per colpa nostra, si stava spegnendo. Da un lato il genere ha generato troppi gruppi collaterali abbastanza inutili, fighetti di 30 anni con un laptop e la barbetta curata che pensano che il punk sia un blog aggiornato con la connessione scroccata da Starbucks, dall’altro però ha dato vita ad una serie di fenomeni molto interessanti, ha contribuito all’evoluzione del pop punk che sembrava arenato sulla cazzonaggine dei primi 2000 e lo ha allontanato dai fenomeni effimeri del metalcore e del new emo. Per questo trovo importante parlare di un gruppo, magari non fondamentale, che però racconta una storia (stra)ordinaria di passione, album e carriera costruita passo dopo passo o, per citare i Cocks, “Day by Day”.

Siamo nel 2008, l’avventura dei Latterman volge al termine dopo tre album molto importanti per i ragazzi che vivono quella fine anni 2000. Un’epoca vuota dal punto di vista punk, i generi interessanti all’epoca erano solo lo stoner ed il post metal. Proprio in quel momento nasce il sound emocore che molti chiamano Orgcore ma che è la naturale risposta all’Emo mainstream (scusate Ian e Guy per l’appropriazione terminologica) che in quel momento andava morendo insieme al metalcore, e ringraziamo il cielo per questo, Gli Off With Their Heads hanno appena fatto il loro ingresso a gamba tesa nella scena con “Hospitals” e sono in procinto di rilasciare l’ancor più centrato “From The Bottom”. I Menzingers sono al primo album, le cose sembrano girare nuovamente in favore di un approccio meno commerciale al punk. Proprio ad inizio anni 2000, Band come Latterman e Dillinger four non si erano arrese a ciuffi colorati e iper produzioni, preferendo portare avanti la bandiera del punk di matrice Ramones alla Screeching Weasel, ma anche di quello più alla Get Up Kids, imbastardendolo con miscele in parti variabili di folk americano (Against Me!) e di new school emo alla American Football che riscontriamo per l’appunto di più nei lavori dei Latterman. Il look camicia di flanella, berrettino di lana e barba, che andando avanti negli anni è diventato quasi una macchietta, era, almeno inizialmente, una bella risposta all’attenzione maniacale per il vestiario promosso dalle major, con Mtv che propinava h24 sui suoi canali dei Green Day con camicie di due taglie più strette rispetto agli anni 90′. Video come quelllo di Jesus of Suburbia rimandavano ad un’immagine del punk più simile a quella commerciale e visiva dei Sex Pistols che a quella hardcore o grunge più dimessa dal punto di vista estetico. 

Come già detto i Latterman si sciolgono portando Canino ad unirsi a vari progetti fino a formare gli ottimi RVIVR, mentre Douglas suona la batteria per un breve periodo negli Small Arms Dealer, dove conosce il cantante Jason Lubrano, i tempi sono maturi per imbracciare nuovamente la chitarra e formare gli Iron Chic. 

Lubrano e Douglas reclutano Gordon Lafler alle pelli, Joh Mee al basso e l’altro ex Latterman Brian Crozier alla seconda chitarra, in breve tempo escono il Demo Tape ’08 e l’Ep Shitty Rambo. Ovviamente non siamo di fronte a due demo di quattro ragazzini in un garage, l’esperienza nel songwriting di Douglas è ormai decennale e i pezzi della band sono subito funzionali e perfetti per essere suonati dal vivo e per far conoscere la band attraverso la distribuzione della piccola ma apprezzabile Dead Broke Rekerds di Mike Bruno. L’ottima produzione curata dallo stesso Douglas nel suo Hobo Studio e gli Artwork del cantante Jason Lubrano, diverranno da subito un vero e proprio marchio di fabbrica.

Nonostante l’ottima critica  ricevuta dopo l’uscita dell’EP, Crozier e Mee decidono di lasciare il gruppo a causa di incomprensioni mai chiarite, al loro posto subentra prontamente al basso Mike Bruno, proprietario dell’etichetta discografica, è il 2010 e sembra il momento perfetto per produrre il primo Full Length: Not Like This.
Musicalmente troviamo un gruppo che ha capito esattamente le necessità del pubblico dell’epoca, ormai lontano dalla brutalità dell’hardcore macho, annoiato dallo skate punk più cazzone e desideroso di canzoni sincere, emozionali e potenti. Le velocità non sono estreme, i pezzi midtempo sono perfetti per essere cantati a memoria anche se le liriche non sono quelle estremamente melodiche del pop punk,  vengono equamente cantate e urlate, creando, soprattutto dal vivo un coinvolgimento con il pubblico che scalcia e suda come davanti alla più veloce delle hardcore band anni ‘80.
Il disco si apre, dopo una breve intro a cui segue la frase d’impatto “I want to smash my face into that god damn radio, it may seem strange but these urges come and go”. 

L’urgenza di suonare, di scrivere e di creare tornano ad essere un tema importante dopo anni in cui per molte band sembravano più importanti le foto su MySpace che l’andare in giro a suonare, sudare e bere birra scadente con gli amici. 

Non mancano i momenti più tirati come “Time Keeps On Slipping Into The (Cosmic) Future” o “Know What I Mean, Jellybean?”  Ma le velocità non sono a rotta di collo, sono appena finiti gli anni dell’ipertecnicismo dell’hardcore melodico e dell’easycore, adesso ogni scelta musicale è fatta per rendere la canzone migliore, non per dimostrare le proprie doti musicali: gli ingredienti sono un basso ciccione e distorto che spinto da una batteria chiara e potente, una chitarra che si muove tra arpeggi e accordi senza prevaricare con distorsioni eccessivamente metallare, soli semplici di scuola Lookout (I Always Never Said That esempio perfetto ), e una spiccata vena poetica in contrasto con voci roche e graffianti.

Il risultato è un album d’esordio perfetto che farà scuola negli anni a seguire e che verrà ristampato praticamente ogni anno per i dieci anni successivi, arrivando a vendere almeno 10000 copie negli Stati Uniti tramite la Dead Broke Rekerds e almeno 2000 in Europa tramite le stampe della tedesca Yo-yo records. 

Dopo l’uscita del disco la band parte per l’Europa dove scopre un’accoglienza insperata, merito forse del buon lavoro fatto dalla Yo-yo records e in parte dovuto alla notorietà dei Latterman.

Siamo in un’epoca nuova che paradossalmente ha molti punti in comune con gli anni ’80, dischi se ne vendono relativamente pochi e la musica punk non è più un’opzione di impiego a tempo pieno, la grande illusione dei 20 anni precedenti è svanita in un battito di ciglia. Douglas registra agli Hobo studio di giorno e lavora come guardiano di notte, gli altri si barcamenano tra lavori in ambiti artistici e consegne di pizza, la voglia di portare avanti una band deve essere ancora più grande ed ogni scelta oculata e conciliabile con la doppia vita di artista e persona comune. 

Nei tre anni successivi la band pubblica diverso materiale secondario:
Uno split con gli inglesi Pacer per la serie di split su 7” della All On Vinyl series number 2, una collana con gli animali del bosco raffigurati in copertina, dove troviamo Elway, Gamits e Murderburgers tra gli altri. 

Il 7” (Cosmic) Future in esclusiva Yo-Yo records che contiene un brano già presente su Not Like This, un inedito e una cover di Jet Ski delle Bikini Kill.

Infine esce in USA l’EP Split N’ Shit che, come il resto del catalogo della band fino a quel momento, è reso disponibile su Bandcamp con donazione facoltativa, il pubblico può decidere se scaricarlo gratis o pagare per avere i file, un po’ come alcuni gruppi anarcho punk ai propri banchetti lasciano che sia l’acquirente a decidere il prezzo giusto del merch, gli Iron chic contano sul supporto dei propri fan e la loro onestà. In una vecchia intervista Jason racconta di come sia interessante capire quanto la gente paga per un EP digitale, dai goliardici 6,66$, ai bizzarri 4,20$ fino agli 0,25$ probabilmente inviati da uno di Genova.

Assoldato Rob MacAllister alla seconda chitarra il gruppo di New York entra in studio per il secondo album, ormai la piccola label di Mike Bruno sta un po’ stretta e non riesce a garantire una distribuzione adeguata, entra quindi in gioco la Bridge Nine di Boston, che proprio in quel periodo sta cercando di eterogenizzare il proprio catalogo prettamente hardcore con qualche band dal sound fresco


Dopo 6 mesi di registrazioni all’Hobo Studio esce The Constant One, un disco che riprende la linea tracciata da Not Like This rallentando ulteriormente i ritmi ma solidificando il muro di suono. Le tematiche cambiano, l’atmosfera è meno opprimente e il messaggio finale è, soprattutto nei contenuti, più positivo. Le liriche trattano maggiormente di rapporti umani e forse per questo risultano molto più personali, un’arma a doppio taglio perché di fatto il disco risulta meno coinvolgente dal punto di vista emotivo dell’ascoltatore. Un ottimo album sul piano della scrittura punk rock e perfetto a livello di sound ma che non tiene il passo con il precedente nonostante alcune canzoni da brividi come Wolf Dix rd, Spooky Action At A Distance e Sounds Like A Pretty Brutal Murder che non a caso chiudono e aprono le due facciate del disco, apice che non viene replicato fino alla chiusura dell’album. Non mancano i tentativi di sperimentazione come A Serious House On Serious Earth dove i nostri giocano a fare gli Smashing Pumpkins, nulla di mal riuscito ma la sensazione è che qui gli Iron Chic stiano viaggiando un po’ lontani dal proprio territorio. L’album non è totalmente un passo falso ma smorza la carica di Not on This che li stava proiettando in alto nella scena mondiale, nonostante tutto però il gruppo continua a macinare date, suonare concerti infuocati e scrivere canzoni.

Nello stesso periodo esce il singolo di  Spooky Action At A Distance che ha la particolarità di contenere la cover di Bonzo Goes To Bitburg nell’edizione Bridge Nine e di Goofy’s Concern dei Butthole surfers in quella Yo-yo/Drunken Sailor. 

Ci vorranno quattro anni per un nuovo album ma nel frattempo fioccano i lavori secondari: uno split con i Low Culture, l’EP Ys uscito appositamente per il tour Australiano del 2015 contenente due inediti e la solita cover (questa volta Dog Bite dei Dead Kennedys) e infine Radio Recordings, un 12” monolato registrato durante le BBC sessions e venduto in occasione del tour europeo del 2016 e dove si può ascoltare Cry Baby, una canzone della Demo del 2008.


Finalmente consacrati e reduci da tour in tutto il mondo raggiungiamo il 2017, anno di grazia e di ottime uscite punk rock che fortunatamente accompagnano l’apertura di Flamingo records.
Alla seconda chitarra Jesse Litwa subentra a Rob MacAllister, il resto del quintetto è quantomai solido e maturo per fondere l’urgenza di Not Like This con la raffinatezza di The Constant One, il risultato è micidiale, You Can’t Stay Here è un capolavoro sotto ogni punto di vista, dalla produzione, al songwriting fino all’artwork. Terzo album e terza etichetta, Side One Dummy è quanto di più vicino ad una major nel circuito del punk rock indipendente. Il disco conta una manciata di ristampe solo nei primi due anni. 

Undici gemme solidissime senza punti morti, con inserti di elettronica e piccole digressioni ambient a dare un senso di continuità, non ci si stufa mai, non c’è noia nemmeno nelle parti più riflessive come nell’appositamente incespicante inizio di You Can’t stay safe, che poi si trasforma in un incedere inarrestabile sostenuto da un basso granitico (leggermente meno distorto che in passato ma dal suono ancora più massiccio e avvolgente). Altro brano la cui carica non scema, nemmeno dopo vari ascolti, è Ruinous Calamity, Folk apocalittico che pian piano romba in un tripudio di feedback di chitarra disperata, esplosione di piatti e voce baritonale. Questo brano è un ottimo esempio di come il passaggio attraverso i tre album abbia affinato una certa raffinatezza da parte di Douglas e Lubrano. Una canzone del genere agli esordi sarebbe finita sicuramente con un Jason urlante, mentre il suo canto che qui strizza l’occhio all’ultimo Johnny Cash, si solleva di intenzione e trasmette con più efficacia di un grido la grandiosità della canzone, un notevole passo avanti rispetto ai tentativi di ballad nel disco precedente.
Non mancano certo i bei pezzi midwest da pogare e cantare a squarciagola, To Shreds, You Say? Che chiude l’album, è una mina punk rock che ha l’efficacia comunicativa dei pezzi della demo unita alla classe maturata nei quasi 10 anni di attività, ancora una volta un basso enorme scuote le viscere anche se quasi per tutto l’album la chitarra la fa da padrona, prendendosi i suoi momenti alla Dinosaur Jr, superando in efficacia le performance sui due dischi precedenti.

Il 7 Maggio 2021 appare una News sul sito della band, “Abbiamo passato l’intera pandemia a scrivere una sola canzone” potete trovare il brano su Bandcamp, stavolta a pagamento per dare un supporto a chi è reduce da due anni di inattività e non ha certo le tasche gonfie di royalties, la produttività non è mai stata il forte degli Iron Chic, ma forse è un bene, non è un gruppo immediato, i loro dischi possono lasciare indifferenti ai primi ascolti, per poi svelarsi nel corso dei mesi in tutte le loro sfumature, io ho impiegato un anno per assorbire You Can’t Stay Here, riprova del fatto che a volte impegnarsi nell’ascolto è bello e aiuta ad amare più musica anziché snobbarne tanta per basarsi sui nostri soliti quattro gusti.

Nel 2018 Esce uno split con i Toys that kill che contiene 4 inediti, brani che non sono stati inseriti nell’album precedente per motivi di coerenza.

Chissà se il 2022 sarà l’anno del quarto album e chissà se ci metterò un anno ad assorbirlo o se sarà più catchy, com’è di moda dire adesso. In fondo forse mi importa che la band vada avanti più ancora del risultato effettivo, perché sarebbe la prova che c’è un po’ di speranza, che si può fare musica intelligente, vendere qualche migliaio di copie, girare il mondo anche senza essere dei cliché ambulanti  o l’ennesima band di paraculi.

Articolo a cura di Albe Flamingo

Credit Foto: Nicole Kibert / www.elawgrrl.com 

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