Franti – “Luna nera” tra autogestione e anarchia
Marco Pandin ci racconta gli anni ’80 dei Franti tra autogestione e anarchia
La volta scorsa, raccontandovi dei Dead Kennedys, scrivevo che i miei primi anni di lavoro sono stati, tutto sommato, anche divertenti e istruttivi. Mi spiego meglio. Come progettista informatico mi sono ritrovato spesso in trasferta nelle varie sedi aziendali, sia per curare l’esportazione dei lavori realizzati a Venezia che per prendere in consegna quelli fatti altrove che, ritornato a casa, avrei dovuto rendere operativi e manutenere. Tranne qualche rara emergenza quando si arrivava ad oltrepassare la mezzanotte, di solito si finiva di lavorare entro le 18, quindi avevo per me tutta la serata e la nottata libere: ogni trasferta a Roma, Napoli, Milano, Bologna e Torino diventava per me un’occasione di avvicinamenti, scoperte e incontri. Ho avuto la fortuna di capitare in un team dove al coordinatore piaceva il mio modo di lavorare, malgrado il piercing e le mie magliette anarcopacifiste. Trovo che questo abbia in qualche maniera facilitato l’approvazione delle mie improvvise richieste di ferie – è capitato spesso che un’amica che lavorava in un’agenzia di viaggi mi offrisse di imbucarmi all’ultimo minuto tra le comitive in partenza per Londra. Il mio capo non ci aveva messo molto a capire quanto quei viaggi fossero importanti per me.
Primi anni Ottanta. Un collega di Torino, press’a poco la mia età e come me appassionato di musica, mi regala un giorno una cassetta di un gruppo della sua città. E’ una cosa dall’apparenza povera: un foglio scarno fotocopiato dentro la scatoletta di plastica, e due sole canzoni. Sopra ci sta scritto laconicamente “a/b” e il gruppo che l’ha realizzata si chiama Franti, come uno dei personaggi del libro “Cuore” di Edmondo de Amicis – una lettura obbligatoria quando andavo alle scuole elementari e medie. La musica che c’è dentro è proprio tutt’altra cosa dalla grandine anarcopunk che imperversava in buona parte del vinile che passava allora sul mio giradischi. Mi incuriosisce parecchio che uno dei pezzi sia costruito su un testo di Cesare Pavese, l’altro è un rallentamento cantabile dell’apocalisse del non-futuro dentro cui trova spazio addirittura un assolo di sax – cosa che fino ad allora nelle mie orecchie risultava credibile solo nei dischi di Bruce Springsteen. In occasione di una mia trasferta successiva a Torino il mio collega mi regala un’altra cassetta sempre dei Franti: questa si chiama “Luna nera”, ed è appena uscita. Stavolta ci canta dentro Lalli, una ragazza che pare sapere il fatto suo. La registrazione è fatta meglio e ci sono più pezzi, così riesco a farmi un’idea più completa di cosa fanno e cosa vogliono questi. Per farla breve i Franti mi piacciono e la loro cassetta viene ad abitare stabilmente nel mio walkman e nell’autoradio. Oltre al volantino con le note tecniche e la lista delle spese affrontate per la produzione nella scatoletta c’è un biglietto con un indirizzo: così decido che gli scrivo, dopo un po’ mi rispondono e poi la cosa da allora è andata avanti. In una delle prime lettere c’era dentro un volantino in cui raccontavano così di sé: “…E’ quello che rompe i vetri, fa uscire matto il maestro, ride quando il re d’Italia muore. E’ un personaggio negativo, nel senso che nega l’ordine. Per noi è una delle personificazioni di un modo di vivere e pensare antiautoritario. Scegliere Franti come nome era abbastanza logico per costruire un gruppo musicale: eravamo studenti e non ci piacevano (e non ci piacciono) gerarchie, autoritarismo, scuola, lavoro o famiglia. Volevamo anche che questo gruppo fosse diverso…”. Me ne sono innamorato subito, di Franti.
Provate a immaginare a come sarebbe se nel 2050 a scuola raccontassero ai vostri figli e nipoti che il nostro presente, questi anni Venti del millennio nuovo, fossero ignoranti stupidi e inconsistenti come i reality televisivi. E’ già da qualche anno che gli specialisti del revival e le mummie esperte da talk show raccontano gli anni ‘80 ufficiali. Quelli celebrati dai media e dal loro clero sono descritti come anni permeati di leggerezza, superficialità e fuga dall’impegno. Ebbene io c’ero, e vi dico che non è affatto così, che è solo squallida propaganda di regime: la realtà della nostra vita di ventenni era tutt’altra – droga, disoccupazione, repressione mentre alla radio passavano ballabili e new wave plastificata e alla televisione mostravano tette e culi. Tanti si adeguavano alla musica leggera è vero, ma tanti altri non ne erano capaci, e tra questi che non ne erano capaci c’ero anche io. E c’erano anche loro, i Franti. Dai primi scambi di posta con un certo Stefano viene fuori che tutt’e due avevamo press’a poco le stesse storie familiari, tutt’e due vivevamo in quartieri operai ed eravamo attratti da forme culturali simili, come simili erano i nostri sogni. Per dire, condividevamo l’amore per certe canzoni e certi libri e certo cinema, come una certa idea dell’America, dell’antimilitarismo, della ribellione. Anch’io negli anni ‘70 suonavo in un gruppo, ho respirato anch’io l’aria sporca delle cantine, mi sono sbattuto anch’io per recuperare strumenti e amplificazione, insomma anche se da poco avevo smesso di suonare mi sentivo comunque parte attiva dell’ambiente. C’erano senz’altro delle affinità nel nostro modo di sviluppare creatività, come ce n’erano nel nostro malessere. Fra lettere e telefonate Stefano ed io facciamo amicizia molto presto, e appena mi mandano a Torino per lavoro riusciamo finalmente a incontrarci e a passare un po’ di tempo insieme. Non ci si era mai visti in faccia, eppure ci siamo riconosciuti subito. Sì, perché non si sapeva che facce avessero, i Franti: non avevano messo in giro foto di sé stessi, suonavano poco in pubblico e comunque Torino era distante da Venezia e si veniva a sapere di un loro concerto solo all’ultimo momento, quando non a concerto già finito.
Questa è “Only a new film”, al primo ascolto sembra un outtake dal primo album dei californiani X e invece sono i Franti. E’ un esempio pratico di come raccontano quegli anni – sembra sia attraverso un tubo catodico rotto:
Quando tutte queste cose ti girano attorno
da non lasciarti via d’uscita
e le luci blu intermittenti risalgono
le strade umide tutt’attorno alle nostre case
Tienimi un posto, e per favore siediti
non ho chiuso occhio per aspettarti
Tutto sta correndo dentro il telefono
Le voci su nastri inalterabili ti stanno parlando
E’ solo un nuovo film alla televisione
Ascoltale: dicono di eroina
Cerca solo di essere il mio vicino di casa
Non agitarti, non amarmi
Imbarazzo tutt’attorno alle nostre case
Puoi fare un po’ di soldi, avere i poster sui muri
Stanno infilando le loro mani nel mio forno
giocano ai dottori nazisti con noi
Ti stanno parlando
E’ solo un nuovo film alla televisione.
Trovo molte cose di me qui dentro. E’ come se vedessi coi miei occhi Lalli e Stefano che si scambiano uno sguardo d’intesa mentre si avvicinano al microfono ogni volta che questa canzone mi risuona dentro in testa, Marco che pesta così meravigliosamente sui tamburi, Massimo così preciso a darsi da fare con quelle quattro corde, Vanni ad arpeggiare nell’aria. E’ come se tutti mentre cantano e suonano questa canzone si guardassero intorno in cerca di una via d’uscita, disperatamente. Cantano il bisogno di tenersi per mano, di correre via, di cercare affetto, di condividere uno sguardo, una promessa, un segreto – cose strane e complicate che proprio non si usavano cantare nei nostri giri precari e sconnessi all’inizio degli anni Ottanta. Quante domande, quanti dubbi: a un’occhiata veloce di superficie “Luna nera” sembrava un prodotto povero tipico della scena punk nostrana. Punk? Sì, e anche no. Sì per l’atteggiamento incompromissorio, perché diversamente da altri che l’avevano soltanto predicata dal palco e dalle copertine dei dischi loro, i Franti, avevano davvero realizzato l’autogestione e la condivisione orizzontale delle loro scelte collettive. Ascoltarli ti rendeva più consapevole e ti costringeva a fare delle scelte, ti faceva capire da quale parte era giusto stare. E invece no, no, assolutamente no per il suono che non era affatto riconoscibile come punk, anzi era tutt’altro che punk: all’ascolto i Franti sembravano piuttosto dei Jefferson Airplane disintossicati e con vent’anni di meno addosso, ogni canzone un improvviso volo di rondini, un panorama inaspettato. Non era punk ma non era neanche roba sonora identificabile come rock, non era pop e non era blues, non era folk e non era jazz, non era neppure sperimentale: era tutto questo insieme, ed era ancora di più. Era musica, musica e basta, musica che ti entrava in testa e non se ne andava più via, era Musica con la m maiuscola, era Musica e non solo questo perché portava addosso un bel carico di cose da dire. Erano canzoni che suonavano come certi fuochi di guerra che rimangono a divorare ciò che rimane dopo un bombardamento. Canzoni nere di un nero senza scampo, eppure smaniose di futuro, nel senso di sole senza buchi nell’ozono e di aria pulita senza polveri sottili o radioattive. C’erano dentro “Bob Dylan, Victor Jara e i Banshees, Robert Wyatt e John Cale, Patti Smith e Francesco Guccini, Fabrizio de André e i Crass”, tanto per citarsi addosso. Ogni verso un ritratto di ragazzo che mi assomiglia, che mi guarda e che non abbassa lo sguardo. A ogni ascolto un segno rosso sul cuore.
“Franti: gruppo musicale di esseri umani che tentano, nell’agire e nel pensare, di creare cultura/autogestione, antagonista allo stato di cose attuali. per una società senza servi né padroni, perché dominare (dentro la tua casa, rapporto, gruppo etc.) è essere dominati dal proprio fallimento umano ed essere dominati è subire la propria distruzione..” (da un volantino).
La prima volta che ci siamo visti a Torino, Stefano mi ha presentato a tutti gli altri del gruppo e insieme quella sera siamo andati nella cantina dove provavano. E infatti la prima cosa che mi viene in mente, quando devo raccontare di Franti, è proprio il ricordo dell’odore di quella cantina: un misto grigio di polvere e umidità che, a me, che sin da ragazzino frequentavo cantine simili, era assai familiare. Loro ed io tutti con meno di trent’anni addosso, “col fuoco che ci bruciava dentro e la voglia di non arrenderci al nuovo stato delle cose”, tutti molto presi da quell’aria nuova che ci sembrava di respirare di riflesso da Londra, da Berlino, da New York. Ognuno intimamente convinto di essere parte attiva di una rivoluzione rumorosa che avrebbe lasciato un segno, se non proprio passando per le strade giù sotto le nostre finestre, almeno tra le pareti della nostra cantina e della nostra stanza.
Il sole scalderà gli ultimi piani
Sotto casa c’è disperazione
Se guardo adesso oltre l’insegna
ci vedo il fumo che si sta agitando
Sotto la nostra lingua muta
Il vecchio cine spento da anni
Le scale, i nervi sempre sconnessi
Un nuovo inverno per combattere
Nuovo messaggio da stelle lontane
Sotto la nostra lingua muta
No dreams, no future
No dreams, no future
Lo spazio intorno è già sparito
Vivo nell’Europa abbandonata
Non piove mai
Non piove mai mai più
Il mio futuro è già finito
Sotto la nostra lingua muta
No dreams, no future
No dreams, no future
Niente sogni né futuro un cazzo. I Franti i sogni e il futuro se li sono ripresi a muso duro, e hanno ispirato chissà quante ragazze e ragazzi come me a raccogliere coraggio e fare altrettanto. Punk un cazzo, allora. Diversamente dai Sex Pistols e dai Clash e dagli altri che se ne stavano col culo al caldo delle multinazionali dell’intrattenimento, i Franti non avevano niente da vendere – non hanno mai fatto una sola canzone per venderla. Hanno suonato senza mai chiedere in cambio un biglietto, partecipato a raduni davvero indipendenti e disperatamente indipendenti e orgogliosamente indipendenti, sostenuto apertamente iniziative che andavano controcorrente, diffuso cassette e vinile su cui erano riportati i dettagli dei costi di produzione e la richiesta di un sostegno responsabile invece del prezzo di vendita. Tra le note di copertina di un loro disco, dato via a offerta libera, hanno scritto: “Qui non si consuma nulla, non ci si diverte a pagamento”.
Con Stefano già ci si scriveva. In cantina e dopo al bar con Massimo, Lalli, Marco e Vanni cominciamo a raccontarci e a conoscerci, così mi accorgo molto presto che Franti è tutt’altra cosa in confronto agli altri gruppi di ragazzi new wave – belle facce, pettinati, ben vestiti in posa sulle copertine dei dischi e dei giornali (“…In questi anni molto spesso ci siamo trovati quasi completamente isolati, in quanto la maggior parte dei gruppi sono dentro la logica professionistica e del controllo sulla musica e sulla gente da parte del denaro…” – da un volantino distribuito ai concerti). Insomma, in mezzo al mucchio dei gruppi dell’epoca i Franti erano una cosa completamente a parte e differente. E non mi riferisco soltanto allo stile espressivo, ma anche al modo complessivo che avevano di offrirsi, di ragionare, di muoversi, di scegliere e di invitare a scegliere. Oltre a questo aspetto tecnico, secondo me tutt’altro che trascurabile, le canzoni dei Franti erano differenti dal solito andazzo punkitaliano e/o rockitaliano anche per com’erano organizzate, oltre che per le motivazioni che stavano dietro ad ognuna. Non somigliavano a niente. Anzi, ad ascoltarle oggi ti accorgi meglio che non somigliano neanche a cose che sono state fatte dopo. Vi invito a soffermarvi e riflettere su come i loro testi scavano a fondo: non so se e quanti altri ragazzi italiani di vent’anni fossero stati in grado di trovare ispirazione dalla non-vita all’interno delle carceri di massima sicurezza (“Voghera”, nello split-LP con i Contrazione), dai massacri nei campi profughi di Sabra e Shatila (“Le loro voci”, nel primo album “Luna nera”), o certe occasioni di meditazione zen che permeano “Il giardino delle quindici pietre”.
Eccola, “Le loro voci”. Una filastrocca di bambini quasi, tessuto dietro le parole c’è un filo sottile che le tiene insieme. E’ quello che bisogna leggere, e avventurarsi oltre la superficie delle cose:
Poco sole, pochi i giochi
I bambini guardano su
Una scia graffia il cielo
Occhi scuri cercano un sé
Inventa madre, tu che sei dolce
Storie impaurite di felicità
Presto il sonno ci prenderà
Suoni lievi la tua voce.
Quattro di mattina
Piove piano
Me li vedo i marciapiedi trasparenti, il buio e i neon
E’ solo un altro giorno
Ti svegli e sei dentro un sogno
Mi dici dormi, guardi l’ora
Una piega cancella il tuo viso
Suoni lievi la tua voce.
Una mano conta i minuti
Respira storie di gioia bruciata
Una mano tatuata sul palmo
E’ fredda
E’ notte
E’ Beirut
Sembra una notte come tante
Ruba ancora aria là fuori
Occhi feroci uccidono il giorno
Forse domani solo una foto.
Mani, le mie mani su Beirut
Taglio di luce spezza il sorriso
Mani, le mie mani
Il cuscino
La fine del sonno è dentro
Sembra una notte come tante
Quasi sento gridare qua sotto
Sì, lo so, è molto lontano
Anche la strada è sempre uguale.
L’avventura di Franti dura lo spazio di una stagione, l’ultima volta dal vivo nel 1987 (“…Abbiamo fatto pochi concerti perché abbiamo scelto solo quelli che ci sembravano permettere un rapporto più diretto con la gente in quanto concerti autogestiti e motivati politicamente. Né festival dell’Umiltà, né concorsi ippici in discoteca…” – da un’intervista). Ma, a dispetto della rivoluzione punk che finirà in fondo a un contratto con una major oppure suicida in un trafiletto in cronaca, Franti riprende presto vita in nuove forme e nuovi suoni. Nomi nuovi eppure sempre diversi, come nuovi e sempre diversi sono gli anni che si susseguono: Howth Castle, Environs, Yuan Ye, Panico, Tirofisso, Kina, Orsi Lucille, Ishi coinvolti in incroci, riunioni, collaborazioni, sovrapposizioni. Per raccontare queste innumerevoli resurrezioni di Franti su A/Rivista Anarchica avevo scritto questo:
“…L’avventura non è finita. Il sogno non è finito. Adesso c’è un nuovo bambino in città: gira in bicicletta per le strade come Dante Di Nanni, figlio bastardo del Franti bastardo, libero dai recinti della scuola e senza l’obbligo del catechismo, il sole nei capelli, un sasso in mano ed una fionda in tasca. E, statene certi, non appena la sua canzone si spargerà per l’aria, il bastardo quella fionda la impugnerà e farà volare sassi contro le finestre appena pulite che tengono lontana l’aria della strada, e lancerà un bullone rovente contro il tubo catodico del vostro televisore sempre acceso…”.
Ci sono delle registrazioni fatte in studio nel 1992 a cui non ha partecipato Stefano e altre fatte verso la fine del 2005 a cui non ha partecipato Lalli. Il gruppo si è riunito un paio di volte per esibirsi dal vivo al No Fest del 2011 (senza Vanni e Massimo) e per un concerto al Blah Blah (tutti e cinque) sempre a Torino nell’aprile 2019. Di questi concerti ci sono dei frammenti su YouTube.
Sono stato coinvolto nella realizzazione dei vari lavori di Franti sin da quando abbiamo stampato su vinile “Luna nera”, proprio quella cassetta che ci ha fatti incontrare quasi quarant’anni fa. Non che io sia il loro produttore discografico, sia chiaro: è che siamo sempre stati molto vicini, molto amici, ed abbiamo mantenuto vicinanza ed amicizia anche dopo quando non c’era più Franti. Verso la fine degli anni ’90 Massimo, Lalli, Marco, Vanni e Stefano hanno tutti acconsentito a che la ristampa dei vari materiali di Franti fosse curata da me e diffusa a sostegno di A/Rivista Anarchica. Come senz’altro già saprete, il gruppo ha sempre praticato l’autogestione totale dei concerti e della realizzazione e distribuzione dei propri dischi, e c’era un’attenzione particolare alla gestione del ricavato della diffusione. Va detto che non sono mai state raccolte grosse cifre: la tiratura media di un disco era circa di un migliaio di copie, una parte andava inevitabilmente a finire nel buco nero dei distributori indipendenti e dei collettivi sedicenti alternativi che non pagavano affatto oppure dopo mille insistenze offrivano materiale in scambio spesso difficile da smerciare. Di Franti, curate assieme a me, circolano ancora due raccolte: “Non classificato” (in tre cd gli album in studio e materiale aggiuntivo) e “Estamos en todas partes” (una raccolta di registrazioni anche inedite, più una traccia video), dalla diffusione delle quali – tanto per ribadire – trae beneficio la stampa anarchica. Cercatele, se vi va chiedete a me – c’è il mio indirizzo e-mail qui sotto. Se sono riuscito a incuriosirvi, vi invito caldamente a fare un giro sul sito http://www.magazzinifranti.it, dove potete leggere, guardare, ascoltare e anche scaricare gratuitamente.
Articolo a cura di Marco Pandin
stella_nera@tin.it
Per supportarci:
Siamo un progetto autogestito e puoi sostenerci attivamente, se ti va, in due modi:
-puoi dare un’occhiata al nostro catalogo e ordinare eventualmente dischi, cd, libri, spillette o altro ancora.
-puoi partecipare alla nostra call sempre aperta con un tuo contenuto inedito.