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Inni Della Rivolta – Quando l’anarkia verrà

Marco Pandin di Stella Nera Edizioni ci parla della compilation Inni Della Rivolta

Quando l’anarkia verrà

“…Ritengo che le canzoni popolari, sia tradizionali che contemporanee, siano espressione della storia, segno di come la gente comune vive quegli eventi che spesso ci coinvolgono profondamente. Sono le cose che succedono attorno a noi e che ci vedono come spettatori o magari come vittime, incapaci di intervenire. Alcuni di noi si esprimono scrivendo e cantando, ed è in questo senso che la canzone popolare si fa portatrice della storia: è la storia raccontata da quelli che c’erano, dai testimoni diretti. Le canzoni popolari portano in sé i racconti della gente ed offrono una visione alternativa del mondo: il mondo lo vedono dal di dentro. E queste canzoni o le si mantiene vive, o saranno perdute…”.

E’ il vecchio cantastorie socialista inglese Roy Bailey che parla. Le sue sono parole giuste, anche se difficili da ascoltare e ritrovarsi a dover gestire (appena a pochi istanti di distanza Bailey dice anche: “…Chi deve salvaguardare questa cultura sono le istituzioni, e chi comanda dentro a queste istituzioni ha un potere enorme sulle nostre vite…” – un argomento spinoso).

Mi chiedo: ma come fa la gente a raccontare il suo tempo? A raccontare le piazze, la città, la campagna, il lavoro, la guerra? E come fare per tenerlo stretto questo tempo, per raccontarlo ai figli? Tanti tengono dei diari. Alcuni, come Vincenzo Rabito, ne hanno scritti di meravigliosi: scritture private che sono divenute un caso letterario perché, come aveva fatto Carl Hamblin con la benda della Giustizia, hanno strappato la maschera rivelando la vera faccia della guerra e della storia ufficiale.
Ma tanti sono convinti di non avere testa, non avere tempo. Altri se ne vergognano delle loro storie, vuoi per la miseria che le abita, vuoi per la troppa tristezza, per le troppe lacrime versate. Oppure non hanno sufficiente stima di sé – pensano sia tempo perso, che le proprie siano vicende banali oppure troppo piccole. Penso che un enorme tesoro di impressioni e di esperienze vada perso perché si è convinti che non valga la pena raccontare.

L’unico modo che resta è cantare, fare delle canzoni inventandole tutt’attorno alla vita, attorno alle piazze, alla città e alla campagna, al lavoro e alla guerra.
Cantare, tutti cantano. Tutti cantiamo. Purtroppo, anche di grande parte delle canzoni fatte così non rimane traccia. Sono un’eredità importante che si diffonde per via orale e non viene trascritta né documentata ma raccontata e cantata da una generazione all’altra. Sono canzoni che spesso non ci si cura di trascrivere: viene disperso un repertorio fatto come di vento che non si trova negli spartiti, nei negozi, dentro ai dischi, in internet. Canzoni che, quando va bene, finiscono dentro a una vecchia cassetta che di questi tempi digitali non si può più leggere. Sono pacchi di vecchi fogli scritti a mano o a macchina, fotocopie che finiscono nella differenziata, filmini girati con una vecchia cinepresa in bianco e nero, videocassette smagnetizzate: dentro ci sono canzoni anarchiche e bastarde, canzoni che restano sospese nell’aria come fanno gli uccelli, e che così facendo scappano via lontano dalla memoria obbligatoria, dai veglioni di stato, dalla retorica che accompagna le celebrazioni ufficiali e le ricorrenze delle guerre.
Le canzoni popolari non abitano nella bocca di chi vince le elezioni, e quando chi comanda se ne appropria le avvelena: diventano nere, diventano amare, muoiono. Appartengono alla gente senza avere neanche un padrone. Sono canzoni popolari, e si tengono a distanza di sicurezza da tutta quella catasta di spiegazioni e giustificazioni storiche ingombranti, di analisi di mercato e cifre che nessuno riesce ad ascoltare fino in fondo figuriamoci a interiorizzare, da tutte quelle feste adorne di corone di fiori che puzzano di ipocrisia e di cimitero e da quelle fanfare che in segreto ciascuno (tranne chi ama indossare una divisa militare) trova ridicole e insopportabili.
Sono canzoni che non si mostrano in televisione né si ascoltano nelle radio che una volta chiamavamo libere e invece da un bel po’ si chiamano private, non vanno a Sanremo né all’Eurovision, non entrano nelle classifiche di nessun genere e di nessun paese. Se si ha la fortuna che entrino nelle orecchie, queste canzoni si mettono a volare dentro in testa e vi fanno il nido. Spesso non se ne vanno più via.

Negli anni Settanta ho avuto la fortuna di incontrare Luisa Ronchini. Era venuta da Bergamo fino a Venezia con un registratore e un blocco per gli appunti per raccogliere le canzoni che cantavano i vecchi. Noi ragazzini la chiamavamo “la signora”: era una maniera per mostrarle rispetto e soprattutto gratitudine per l’attenzione e la buonamaniera che aveva per i nostri nonni e per le loro storie. Raccontavano a lei certe storie che sapevano da sempre e avevano raccontato anche a noi piccoli, storie che spesso ci venivano offerte sbriciolate e confuse, forse troppo lontane nel tempo per essere avvicinate e comprese in tutta la nostra fretta e agitazione di bambini. Era venuta anche a Chioggia. Girava a piedi per le calli e per le isole, la signora, e si fermava a salutare tutte e tutti e a chiacchierare con tutte e tutti.

A meno che non fosse inverno, noi mica si viveva dentro le case, allora: non c’erano automobili in giro per il paese e noi bambini restavamo randagi in giro fino a quando non faceva buio o sentivamo la fame. I nostri papà erano via per buona parte della giornata a fare i turni in fabbrica o a lavorare per mare. Mamme, zie e nonne fatte le pulizie e le spese e inviato il mangiare per mezzogiorno e sera, appena la stagione lo permetteva si portavano ciascuna una sedia fuori in calle o in corte, a passare mezze giornate insieme a chi abitava dietro la porta accanto, tutte a recuperare maglie di lana vecchie sciogliendone la trama per farle diventare maglie nuove, berretti, ciabatte o quadrati che poi si cucivano insieme e diventavano coperte. O a lavorare a ferri e a uncinetto. Oppure a ricamare le reti – due nodi ogni centimetro, tre nodi ogni centimetro le più brave. E quante storie, e quante ciaccole, e quante canzoni.

La mia nonna materna si chiamava Nina, e lei e le sue sorelle ne sapevano tantissime di storie e di canzoni. Sembrava che avessero attraversato oceani di avventure, sempre insieme. Alcune delle loro storie per noi bambini erano inverosimili, così strane e incomprensibili. Altre erano come fiabe. Ricordo che a volte davanti al microfono della signora si emozionavano e si confondevano e non riuscivano a ricordare una canzone per intero: mettevano insieme dei pezzetti uno la nonna un altro la zia oppure osava intromettersi il nonno, lui che non parlava mai, e discutevano ridendo sulle parole giuste. Era così e così. No, era così e così invece, e giù tutti a ridere.

La Nina sembrava divertirsi anche quando raccontava le storie del tempo di guerra, accadute quando il nonno e la nonna erano ancora giovani, la mia mamma e le sue sorelle erano ancora piccole e io e i miei cugini non eravamo ancora nati. Spesso raccontava di quando in paese spadroneggiavano i fascisti e non si poteva pensare a voce alta, e non sempre erano storie tristi: anche nelle occasioni più nere sembrava fosse successo un imprevisto che trasformava le tragedie in comiche. Tipo quella volta che alla visita di non so quale gerarca, appena iniziato il comizio i cavalli si sono messi tutti insieme a fare la cacca in piazza proprio davanti al palco, neanche si fossero messi d’accordo, scatenando le risate di tutto il paese. Beh, di quasi tutto il paese. Lo facessero oggi ad un comizio di un qualsiasi nuovo padrone, finirebbero al galoppo in una macelleria equina.

Io ascoltavo, ma facevo fatica a entrare dentro a quelle storie: riconoscevo i personaggi, ma mi era davvero impossibile farmi largo nella trama. La nonna mi raccontava un mondo completamente differente, più buio, più polveroso, più triste e per me incomprensibile. Il fascismo per me è quel buio, quella polvere nera che rende amara, avvelena e soffoca la vita. Una notte i tedeschi hanno buttato giù la porta di casa e portato via con loro il nonno Dante, lui un giorno dopo tanto tempo è tornato a casa a piedi dall’Austria, da Klagenfurt, pelle e ossa e tutti i capelli bianchi che nessuno lo ha riconosciuto – ma questa è un’altra storia.

La Nina e le sue sorelle, ogni volta che potevano e come potevano, aiutavano di nascosto i ragazzi che disertavano e i partigiani. Mia mamma mi ha raccontato spesso dei suoi incontri di bambina con dei ragazzi terrorizzati in fuga, con gente disperata cui la guerra aveva portato via tutto, coi partigiani silenziosi – ricordava una carezza dolce sulla testa, una stella appuntata sul bavero, il fucile strappato via ai fascisti. E quella volta che la polenta avanzata era sparita, un biglietto con scritto sopra “grazie” poggiato sotto un sasso sullo scalino della porta d’ingresso una mattina, ogni tanto un fagotto con dentro una pentola di minestra lasciato sull’arzene. I racconti che ho ascoltato in casa mi descrivevano una faccia della guerra diversa da quella che mi veniva mostrata nei libri di scuola.

Dopo poco che sono nato a mio papà è stato offerto un lavoro come operaio turnista in una fabbrica a Marghera. I miei genitori, cinquant’anni in due, si sono trasferiti in un buco in affitto a Mestre – camara e cusina in un condominio de carton, chiamavamo così casa nostra.

Il quartiere così come lo si riconosce oggi allora non c’era: la Cipressina era solo un tratto della strada statale 245 Castellana compreso tra il passaggio a livello dei Quattro Cantoni e quello di Zelarino. Niente chiesa né scuole. C’erano un negozio di generi alimentari, un panificio, una macelleria, un bar/trattoria, un paio di fermate dell’autobus e qualche condominio da sei/nove appartamenti addosso alla statale. Il resto era tutta campagna, ma lo sarebbe rimasto ancora per poco: nel giro di pochi mesi sono stati costruiti velocemente tantissimi condomini de carton supereconomici, sempre più grandi dodici sedici venti ventiquattro appartamenti via via che le traverse si allontanavano dalla statale, che si sono riempiti subito di famiglie come la nostra, tutti immigrati per il lavoro a Marghera.

Da ogni finestra uscivano odori di cibi diversi dal nostro, voci con accenti e parole strane e straniere spesso difficilmente traducibili e canzoni fatte in maniera completamente differente da quelle che ero abituato a sentire in strada e per casa.
Si faceva presto amicizia con gli altri bambini, le prime cose che si imparavano erano le parolacce: mannaggia minchia e marò loro a noi, tamorticani e magnasborae noi a loro. Ogni gruppo di strade del quartiere aveva una banda di piccoli straccioni, un gruppo contro un altro a battagliare senza bisogno di una ragione precisa. Tranne qualche singola antipatia che si prolungava, generalmente si finiva presto a giocare insieme quando non a scambiarsi le figurine doppie dei calciatori: go go go manca. Oppure ci si aggregava armati di bastoni e fionde in spedizioni avventurose tipo Cipressina contro Gazzera, quartieri di immigrati e povertà diffusa separati solo da qualche campo rimasto incolto intorno ai binari.

Quando sento qualcuno alla radio o al telegiornale che afferma che la mia generazione non ha attraversato guerre, mi viene sempre da pensare che siamo stati comunque capaci di trovare maniere diverse per ammazzarci l’un l’altro.
Noi piccoli siamo cresciuti, in tanti siamo riusciti ad andare a scuola, i più fortunati a diplomarsi e qualcuno anche ad arrivare alla laurea. In città siamo stati testimoni abituali di proteste e scioperi, manifestazioni, sassaiole, cariche di polizia, posti di blocco, incidenti sul lavoro, mogli e figli picchiati, spaccio di eroina, tossicodipendenza, disoccupazione, alcolismo, degrado, discariche, avvelenamenti, chemioterapie e morte e mentre tutto questo succedeva abbiamo ascoltato imparato e cantato altre canzoni e altre storie che si sono sostituite a quelle che ci avevano cantato i nostri nonni e i nostri genitori.

La Luisa Ronchini, la signora di cui raccontavo all’inizio, l’ho poi incontrata altre volte e l’ho vista a qualche concerto anche con Gualtiero Bertelli e Alberto d’Amico. Nei primissimi anni Ottanta avevo accompagnato dei miei compagni di Murano a registrare un demo all’Odhecaton di Ermanno Velludo, proprio lo stesso studio dove in quei giorni stava registrando lei, a Venezia appena dietro l’Accademia.

Ermanno era un tecnico strabiliante: sapeva catturare il suono e imprigionarlo nel nastro magnetico per poi riprodurlo perfettamente, oppure lo manipolava rendendolo diverso e a volte irriconoscibile ma sempre assai attraente – non importava che fosse un quartetto barocco, o la voce di Luisa Ronchini, o le nostre seghe punk.
Noi aspettavamo il nostro turno in silenzio, nella stanza in penombra dove Ermanno faceva i miracoli, ad ascoltare ogni respiro della signora con grande rispetto. Non sono mai riuscito però a capacitarmi del fatto che i nostri inni anarcopunk, nonostante tutto il nostro impegno e sbattimento, non riuscissero a spiccare il volo, mentre le sue versioni così scarne voce-e-chitarra de “Le quattro stagioni” e del canto a Sante Caserio finivano a conficcarsi nella parte più profonda di me.

Molte canzoni come quelle, le canzoni anarchiche di una volta, a tanti piace ascoltarle e riascoltarle, ma ritengo che negli ultimi anni nonostante internet, nonostante la velocità, nonostante il “progresso” oppure forse proprio a causa di quelle virgolette che adesso ci ho messo intorno, siano rimaste a riverberare chiuse dentro le teste, nelle stanze delle case, tra le mura dei centri sociali, nel perimetro delimitato/autorizzato delle manifestazioni. In zone circoscritte, quindi, rese quasi impermeabili al resto del mondo.

Potrebbe essere proprio l’idea della guerra, resa abitudine come fosse una caratteristica del nostro paesaggio da anni di piombo e soprattutto di televisione, che ci ha cacciati sotto, dentro, in cerca di riparo. Pensiamo al volume: dove una volta l’impatto sonoro era parte integrante del messaggio (non so voi, io la musica amo ascoltarla con lo stomaco) adesso il suono è costretto tra le cuffiette, compresso per gli altoparlantini degli smartphone o dei microimpianti hi-fi casalinghi. Le piazze, i prati, le aree aperte sono state sottratte alla collettività e rimpiazzate da spazi ridotti, transennati, casalinghi, limitati all’uso personale. È successo lo stesso ad altre fonti di piacere, di ispirazione, di acculturazione: un affare tra te e uno schermo digitale, tra te e il tuo smartphone. Condivisione è diventata una parola diversa: era un accadimento unico e difficilmente ripetibile in serie nel quale ci si ritrovava coinvolti io e te e cento e mille e diecimila altri – adesso sta a raccontare quel mucchietto di uni e di zeri che passa dal mio computer al tuo e viceversa.

Eppure sono convinto che canzoni anarchiche se ne scrivano ogni giorno. Prendono forme diverse, suonano differenti, fanno giri strani ma per arrivare prima o poi arrivano e vanno dritte al cuore. Potrebbe succedere ancora: tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta il punk, un’espressione musicale/culturale libera e popolare, è riuscita ad aprire falle significative nel tessuto sociale che sono state ben presto rabberciate da un sistema che dal punk si era sentito minacciato. Quest’ultima frase ha senso compiuto anche sostituendo la parola “mercato” a “tessuto sociale”.

Ogni tanto tendo a soffermarmi a ragionare su questo radicale cambiamento della fruizione del fatto musicale. Se di dibattito si può parlare, mettendoci intorno parecchie virgolette, è in questa forma che prosegue nei discorsi spiccioli al banchetto di stella*nera quando vado in giro a presentare un libro o un disco, in quelle due-tre parole scambiate con la scusa di prendere qualcosa da leggere o da ascoltare, ben consapevoli tutti d’essere stati nutriti dall’ideologia del mercato obbligatorio ed avvelenati dalla cultura dominante, eppure assolutamente determinati a non soccombere, a non mollare, a non restare zitti.

…Sì, è proprio “quella” cassetta. Ma aspettate un momento prima di girare pagina o di saltare alla prossima segnalazione. Innanzitutto, due parole per chi (e immagino siano tanti) non sa con precisione di che cosa si tratta. La cassetta “Inni della rivolta” è una compilation uscita da poco e diffusa in maniera sotterranea che ha già fatto s/parlare di sé più che altro per i suoi contenuti sonori, ritenuti da molti “discutibili” come “discutibile” è stata definita l’operazione nel suo complesso. Si tratta di una dozzina di canti anarchici rivisitati (oppure “massacrati”, sempre secondo i detrattori) da altrettanti gruppi musicali italiani non a scopo di lucro ma a fin di benefit per l’ALF. Sono convinto che spesso si sia parlato e criticato senza però prima ascoltare: se n’è discusso solo perché si tratta di rivisitazioni in chiave punk, ritenute derisorie o quantomeno inadatte, di pezzi di Storia. (…) La cassetta è uscita in poche copie e costa una miseria quindi non sarebbe poi così drammatico sorvolare sulle perplessità e contribuire ad una giusta causa…” (da A/Rivista Anarchica, ricostruzione della segnalazione originale)

Trent’anni fa circa i Barboncini Punx, piccolo ma agguerrito gruppo anarcopunk piemontese, avevano immaginato e realizzato una raccolta di canti anarchici. Avevano chiesto nel giro e messo insieme una decina di versioni per così dire “personali” di inni storici, canti della tradizione e della Resistenza nonché un paio di contributi originali a cura del cantautore anarcoscettico romano Alfredo Salerni, venuto purtroppo a mancare due anni fa, e delle Officine Schwartz.
A ridosso dell’uscita della cassetta, diffusa nella scena underground in poche copie e a un prezzo irrisorio, era serpeggiato parecchio malumore tra i compagni anarchici più vecchi, e anche tra certi non così vecchi, piuttosto risentiti quando non addirittura profondamente offesi per il fatto che dei giovinastri avessero osato stravolgere, cioé cantare a modo loro, delle canzoni sacre che consideravano né più né meno che intoccabili.

La reazione negativa dei vecchi anarchici, come quella dei punk senzafuturo spesso menefreghisti e le alzate di spalle dei punk senzapassato altrettanto spesso occupati altrove, erano state senz’altro prevedibili e i promotori dell’iniziativa il problema se l’erano senz’altro posto: la presentazione dell’iniziativa nel libretto allegato alla cassetta è un’incredibile passeggiata in equilibrio precario sul filo della paraculaggine. Capisco un certo bisogno di spiegare e di spiegarsi, così come la necessità di giustificarsi politicamente tipica di certa scena punk di allora, ma forse era meglio se non scrivevano niente – però queste sono cose di cui ci si accorge col tempo.

…Eravamo un gruppo punk che soleva definirsi anarchico. Per noi questo significava cercare di portare avanti nella vita le idee professate nei testi. Niente di estremo, per carità, però non vedevamo troppo favorevolmente quei gruppi hardcore che esaurivano la loro azione nei dischi e tour europei a catena. Avevamo un piccolo collettivo a Pinerolo, la nostra città, una distro e ci organizzavamo i nostri concerti, rigorosamente autogestiti, con molti sbattimenti. Avevamo autoprodotto la nostra cassetta, organizzato feste, stampato magliette e cassette benefit per buone cause e prodotto la nostra fanzine. Come altri all’interno della scena, stanchi del ripetersi di logori cliché musicali nel punk, volevamo ampliare i nostri orizzonti, cercare altre forme di espressione musicale che avessero la stessa sincerità, energia e immediatezza del punk. Ci fu chi vide queste potenzialità nella musica industriale, nel noise, altri nella techno, altri ancora nell’hip hop. A quell’epoca scoprivo molte inaspettate affinità del punk con la canzone popolare: lo stesso disprezzo/indifferenza verso il protagonismo e le star, musiche senza autori né copyright a disposizione di tutti per essere interpretate e reinventate, il ballo spontaneo e collettivo nell’aia come il pogo, testi che parlano sì di sesso e amore ma spesso e volentieri di ingiustizie e lotte politiche. Ci avvicinammo quindi, per affinità, ai canti anarchici. Dall’ascoltarli al volerli suonare il passo è breve. (…) Rivista Anarchica la stroncò come opera di scarponi lo-fi ma per il resto vennero distribuite tutte le copie. (…) Presi dall’entusiasmo reinvestimmo gli introiti nella produzione del volume due, ne stampammo anche il libretto però poi, a causa di vari distributori morosi, la distro andò in bancarotta. Il collettivo si sfaldò e del volume due non se ne sentì più parlare… fino ad ora che lo avete qui, insieme al primo…” (dalla presentazione del cd)

Del giro dei Barboncini avevo incontrato una prima volta in redazione della A/Rivista Anarchica e poi ad alcune riunioni e concerti Carlo “Karenza” Decanale: era parecchio più giovane di me e la sua simpatia e la sua allegria erano contagiose. Avendo compreso che l’intento suo e dei suoi compagni era tutt’altro che blasfemo, ed essendo convinto anch’io che cantare oggi le canzoni di ieri serva in qualche modo a mantenerle vive, avevo scritto di questo lavoro sulla A/Rivista in una maniera ritenuta però eccessivamente positiva da buona parte della redazione.
Per evitare polemiche avevo suggerito di lasciar perdere del tutto quella segnalazione, ma con mia sorpresa a qualche mese di distanza il pezzo è stato pubblicato (con ogni probabilità perché avevo scritto poco e serviva per arrivare a fine della pagina invece che mettere un disegno o una foto) ma in forma ridotta e modificata – è stata l’unica volta in cui sono incorso in un incidente in 37 anni di collaborazione. Va anche detto, per onestà e completezza, che di lì a poco mi sono state fatte le scuse per l’accaduto.

…L’idea di una compilation di canti anarchici suonati da gruppi di oggi non ha convinto diverse persone: sia quelle abituate a pensare a queste canzoni come a qualcosa di antiquato, sia quelle che, conoscendole e venerandole in versioni precedenti e circostanze più serie, considerano questa operazione “blasfema” o quantomeno irrisoria nei confronti di questi “oggetti di culto”. Esiste infatti una certa concezione della tradizione anarchica quasi religiosa, con i suoi martiri, i suoi santi, i suoi episodi mistici, i suoi luoghi sacri, un suo aldilà e la sua liturgia, di cui questi canti fanno parte. In realtà non è nostra intenzione creare qualcosa di stupefacente, né riteniamo che i canti, così come li abbiamo conosciuti, fossero un vecchiume da rinnovare; quando li abbiamo “scoperti” ci siamo resi conto che sono una componente fondamentale della nostra storia e della nostra lotta. Inoltre, non hanno un semplice valore di “documento storico”, ma esprimono idee e sentimenti che condividiamo e fanno parte della nostra cultura. Non abbiamo inteso far rivivere qualcosa di morto, proprio perché la musica popolare, per definizione, vive in quanto continua ad essere reinterpretata e riproposta diversamente a seconda delle condizioni storiche, geografiche, sociali e culturali. I canti di lotta esistono finché esiste l’esigenza della lotta: se si modificano nel tempo non perdono il loro valore, anzi acquistano una forza che non avrebbero se ne rimanesse una versione definitiva scritta sui libri o incisa sui dischi: questo sarebbe il vero stravolgimento del loro significato e anche delle intenzioni degli autori delle gesta celebrative. A noi non interessa santificare il passato sminuendo le nostre potenzialità nel presente, ma utilizzare criticamente queste esperienze traendone spunto per le nostre attività…” (dalla presentazione della cassetta, 1993)

C’era stato una ventina d’anni prima un caso press’a poco simile. Prendendo spunto dall’inno a stelle-e-strisce intriso del suono delle incursioni aeree e dei bombardamenti in Vietnam fatto risuonare a Woodstock da Jimi Hendrix, nel 1974 gli Area proposero una loro personale rilettura de “L’Internazionale”. Anche in quel caso si gridò allo scandalo – non fra vecchi anarchici brontoloni ma sulle pagine dei giornali nazionali e nelle sezioni del PCI, del PSI e nelle sedi della sinistra extraparlamentare e dei sindacati di tutta Italia. S’era stracciato pubblicamente le vesti ed aveva tuonato a lungo persino Nicolae Ceauşescu, padrone della Romania: ci fosse stato il Risiko che conosciamo oggi, avrebbe attaccato l’Italia con sei.
Si tratta però di due diversi casi che mi riesce difficile mettere a confronto: per tutto un complesso di fattori tecnici e storici gli anni Settanta erano davvero molto diversi dagli anni Novanta.
Come la cassetta punk, anche quella degli Area era un’iniziativa di beneficenza (si raccolsero fondi per le spese legali sostenute dall’anarchico Giovanni Marini, accusato d’omicidio per essersi difeso da un’aggressione fascista). Ma una differenza importante è che la cassetta di inni anarchici in salsa punk era un’autoproduzione dal basso, mentre con e per gli Area si muoveva un’etichetta discografica di dimensioni considerevoli gestita da brillanti e scafati pubblicitari e specialisti di comunicazione. Al di là dell’innegabile talento e delle intuizioni profetiche dei musicisti, tutt’attorno alle opere del gruppo, soprattutto le più azzardate, era stato costruito dagli addetti all’ufficio stampa della Cramps un certo spessore controculturale e rivoluzionario, controcultura e rivoluzione che allora influivano fortemente sull’orientamento di vasti settori dell’espressione artistica, come anche sul mercato.
Allora poteva avere senz’altro un senso, e artistico e politico, scagliarsi contro il monolite. Qui, diciamocelo, si tratta di una serie di episodi inoffensivi suonati da gruppi della scena marginale spolverati (non tutti) di inconsistente spirito provocatorio. Resto comunque dell’opinione che l’idea che sta alla base del progetto dei Barboncini Punx sia geniale.

Questa la lista completa dei partecipanti e dei relativi pezzi:

  • R.A.M.A. – Inno della rivolta
  • Waka Waka – Sacco e Vanzetti
  • Teatro Quotidiano – Canto a Caserio
  • Cruelty Free Core – Amor ribelle
  • Dr. Domopak – Figli dell’officina
  • Officine Schwartz – Trauermarsch
  • Barboncini Punx – Stornelli d’esilio
  • Alfredo Salerni e i Folk Simile – Il Si bemolle
  • Contrasto – Né servi né padroni
  • Dice Die – Su mano alla bomba
  • Lupus In Fabula – Dai monti di Sarzana
  • CCC CNC NCN – Il galeone
  • Panico – L’estate dei poveri
  • Stige – Inno individualista
  • Ishi – Il disertore
  • D.D.I. – Inno individualista
  • Biafra – Addio Lugano bella
  • Digos SS – Evviva Pietro Gori e il suo ideale
  • Barboncini Punx – Puente de los Frances
  • Cupiazzi – Gli anarchici noi siamo di Milano
  • Boloboloquique – Siam del popolo gli Arditi
  • Fuck Simile – L’Interrogatorio di Caserio
  • Soda Kaustika – Quando l’anarchia verrà
  • Frammenti – La ballata di Pinelli.
Copertina del CD

Restaurate come e quando possibile le registrazioni di allora, l’anno scorso queste sono state raccolte in un cd stampato da Pinetasound Autoproduzioni e diffuso dall’indipendente Tadca Records di Cuneo (www.tadcarecords.org, info@tadcarecords.org, raggiungibile anche su bandcamp e facebook).
Come avete visto dalla lista che ho riportato qualche riga fa, sono stati aggiunti altri dodici pezzi di impostazione simile destinati a quel secondo volume pianificato al tempo dai Barboncini e però mai portato a termine e realizzato. Un pezzo è addirittura andato perso.
Chi c’era allora, nell’ascoltare, avendo inalato il puzzo delle cantine e di buona parte dei luoghi di ritrovo clandestini, potrà riconoscere presto la precarietà ed il contorno sfocato tipici dei suoni catturati su vecchie audiocassette e, chissà, magari riassaporare con gusto la polvere del tempo. Altri ascoltatori più giovani, con ogni probabilità abituati ad altri approcci e ad altre sonorità, potrebbero sorridere della generale mediocrità tecnica e creativa. Pur distinguendosi i contributi delle Officine Schwartz e dei CCC CNC NCN, ciascuna canzone purtroppo scivola via lasciando impigliato solo poco di sé nel filo spinato della memoria: a distanza di anni ci si accorge presto di quanto poco queste versioni siano consistenti, ancor meno offensive e per niente dissacranti.

Come la cassetta, anche il cd costa una miseria. Ascoltarlo mette addosso un misto curioso di ilarità ed imbarazzo: insomma, le vecchie canzoni anarchiche resistono orgogliosamente ed alla grande al maldestro make up punk che gli è stato dipinto in faccia. Ed è proprio per questa ragione che la raccolta potrebbe, secondo me, offrire ottimi spunti di meditazione e riflessione. Certo, viene da sorridere davanti a tanta sfrontatezza spinta avanti a fare un po’ di fumogeno intorno all’inadeguatezza, ma così funzionava allora, quando ci si trovava arrivati appena dopo di quelli che ridevano addosso a tutto, a tutti e soprattutto a sé stessi, e appena prima dell’avvento di quei punk integralisti predicatori che si prendevano così esageratamente sul serio da riuscire a velocizzare il disfacimento della scena. Ripetere l’esperimento oggi, chiamando a raccolta un po’ di gente che suona adesso, potrebbe rivelarsi davvero interessante.
Per concludere, mi viene da pensare che, mentre noi stiamo qui a sbatterci fra brontolii e commenti, Carlo “Karenza”, scomparso improvvisamente nel maggio 2022, se la starà ridendo felice in buona compagnia di vecchi anarchici come Pietro Gori, Caterina Bueno, Belgrado Pedrini e Paola Nicolazzi. Magari stanno ridendo con loro pure Fabrizio de André e Paolo Finzi della A/Rivista Anarchica.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it