Isolati: la scena skinhead in Sardegna – parte 2
Seconda parte dello speciale sulla scena skinhead in Sardegna con intervista a Marco Rocca (SS20/The Claptrap)
Raccontare la storia di un movimento, o di un momento storico localizzato in un determinato contesto cittadino, non è mai cosa facile. Se poi questo movimento è quello Skinhead, e l’epoca da raccontare sono gli anni 80, si rischi di entrare in un vortice di pettegolezzi e incomprensioni, di racconti distorti nel tempo e di incomprensioni. Cagliari fu la prima città in Sardegna a conoscere il fenomeno degli Skinheads e i suoi pionieri possono ritrovarsi in una duplice esperienza musicale che ancora oggi rimane in città una delle più chiacchierate nel circuito: SS20 e The Claptrap.
Partendo dalla prima parte dello speciale sulla scena skinhead in Sardegna, che trovate qui, oggi proseguiamo il racconto pubblicando l’intervista integrale ad uno dei suoi protagonisti: Marco Rocca, musicista e artista poliedrico Cagliaritano.
Qual è stato il tuo primo approccio con l’universo punk e in seguito con la cultura skinhead?
1977-79
Sono sempre stato un appassionato di musica e suonavo già da qualche anno prima dell’irruzione del punk… ma, meglio ricordare il contesto di quel periodo. Internet è arrivato 20 anni dopo. Non era facile aggiornarsi, le riviste musicali erano poche e si occupavano soprattutto di pop e rock mainstream. Fuori dal coro c’erano solo Gong e Muzak ma purtroppo erano durate poco e bisogna aspettare ancora un po’ di tempo per la diffusione di testate che si occupino di altri generi musicali e nuove tendenze come Rockerilla, Blow Up o Mucchio Selvaggio.
Le informazioni su cosa accadesse nel resto del mondo erano poche e frammentarie. Gli amici un po’ più grandi che tornavano da Londra o da altre capitali europee venivano letteralmente assaltati. Ci facevamo raccontare cosa avevano visto e ascoltavamo avidamente i dischi che riuscivano a portare. In seguito anche noi iniziammo a fare qualche viaggio nel continente, ma spostarsi dalla Sardegna era costoso – i voli low cost non esistevano – oltre che problematico.
Bisognava concentrare in pochi giorni l’acquisto di dischi, di k7 vergini in stock e con un po’ di fortuna vedere qualche concerto interessante nei locali dove, fra una birra e l’altra, a volte si riusciva a scambiare qualche contatto. Poi al ritorno nell’isola venivi sempre sottoposto a una quantità esagerata di controlli doganali che neanche a Check Point Charlie. Non importa se stavi arrivando da Civitavecchia. Alla faccia della continuità territoriale.
Per il resto avveniva tutto per posta. Ordinavamo alla cieca dischi di gruppi, allora sconosciuti, di cui avevamo sentito parlare o di cui soltanto ci intrigava il nome. La statistica era spesso sfavorevole e se su 10 dischi 3 erano decenti eri anche fortunato. Ci mettevamo d’accordo per gli acquisti e poi gli album migliori venivano ridistribuiti fra di noi riversandoli sulle k7. Incontrarsi solo per ascoltare i dischi arrivati era un rituale che, ripensandoci, oggi sarebbe improponibile.
Poi è iniziato l’interscambio di fanzine in offset: se dovessi indicare uno strumento fondamentale di quel periodo è sicuramente la fotocopiatrice. Le fanzine ci davano la possibilità di scoprire ed approfondire tante altre realtà ignorate dai grossi media ma, soprattutto, riportavano su uno stesso piano di comunicazione diretta chi suonava e chi ascoltava. Anche noi avevamo provato a farne qualcuna.
Una menzione speciale merita radio Alter di Cagliari che, con il suo palinsesto squinternato e le dirette telefoniche con gli ascoltatori, assomigliava più a una fanzine che a una radio. Tantissimi appassionati dei più disparati generi musicali passavano notti intere a raccontare e suonare i loro dischi preferiti.
1980-82
Nello specifico della Sardegna c’era un ulteriore gap di ritardo che creava un po’ di confusione e commistione sulla cronologia degli avvenimenti, che spesso si sovrapponevano in modo asincrono. Quando il punk 77 ha iniziato a diffondersi in Sardegna, in realtà era ormai finito in UK, e si inseriva in una realtà già postpunk se non addirittura new wave. Mentre gli ultimi punk londinesi facevano fotografare le loro creste variopinte a Piccadilly, era dagli USA che arrivava una declinazione più interessante di quella attitudine.
Mi era già successo in passato, di tornare a ritroso per ricostruire la genesi di una produzione musicale: per esempio avevo scoperto l’universo del root blues partendo da Jimi Hendrix. In quel periodo invece mentre c’erano già i Devo e i TalkingHeads, scoprivamo i Discharge, i Sex Pistols e gli Exploited, ma anche i B52’s. Mentre Should I Stay Or Should I Go decretava la fine dei Clash, noi ascoltavamo Career Opportunities o la loro versione di Police & Thieves di Lee Perry e Junior Murvin.
Mentre usciva il nuovo album di GBH che ormai, da quando erano passati a una major, suonava più heavy metal che punk, venivamo travolti dal punk/hardcore “bay area sound” americano. Black Flag, Circle Jerks, Dead Kennedys, Bad Brains, Fugazi. Qualcuno tornato da New York ci aveva raccontato dei live di Ramones e Television in un piccolo locale nato per il country e diventato invece tempio del punk. Era il leggendario CBGB, ma allora non lo sapevamo.
E poi i Minor Threat, promotori dell’etica DIY e straight edge: sono state le loro teste rasate che ci hanno ricollegato al movimento Oi!/skinhead di matrice britannica che avevamo già scoperto con le fanzine e i dischi. 4 Skins, Cockney Rejects, Cock Sparrer, Partisans, Infa Riot, Business e tanti altri: un vero ritorno alle radici dirette ed essenziali del punk originario.
Nel frattempo arriva anche lo Ska/RockSteady revival. La Trojan Records ripubblica i vecchi gruppi skinhead degli anni 60 influenzati dalla musica jamaicana. Nasce la TwoTones – nome omen simbolizzato dalla famosa scacchiera bianca e nera – con Specials, Selecter, Bad Manners, Bodysnatcher sino ai Madness. One step Beyond diventa così popolare che ci furono addirittura dei maldestri tentativi di inglobare lo ska nel pop italiano. Sono soprattutto i gruppi dello ska revival che ci aiutano a mettere meglio a fuoco la storia e il background culturale della scena skinhead.
Nel decennio precedente, buona parte della musica era diventata molto complessa con lunghi brani a volte finalizzati esclusivamente alla esibizione virtuosistica di musicisti che, spesso, avevano alle spalle una formazione accademica, quindi elitaria. Col punk tutto questo veniva rovesciato.
Musicalmente: le strutture erano semplici, brevi e immediate. Socialmente: chiunque poteva suonare senza aver bisogno di un percorso professionale da musicista. Anche, e soprattutto, perché suonare punk era solo uno degli aspetti di una scelta di vita che non era limitata solo alla musica.
Devo dire che quella attitudine, anche se poi ho fatto tante altre cose diverse, non mi ha mai abbandonato da allora. Insieme alla passione per gli anfibi.
Parlaci un pò degli SS20. Come sono nati, quali erano i componenti e come sono arrivati i primi concerti?
1983-84
In tutta la storia di SS20 e Claptrap si sono avvicendate tante persone con innumerevoli cambi di line up. Prima di tutto le voci. È impossibile spiegare a qualcuno come cantare punk Oi! o hardcore. Non si impara. Ma se lo sei, se hai delle motivazioni per esserlo, probabilmente ti uscirà la voce giusta. Ma in Sardegna eravamo ancora in pochi appassionati del genere. Ricordo la particolare difficoltà di trovare batteristi in grado di sostenere il classico cassa rullante TU TA’ – TU TU TA’ senza aggiungere inutili ghirigori di tom e piatti, retaggio del sempre detestato heavy metal. Se poi i BPM superavano i 200 era un disastro totale.
Oltre a me, che vengo coinvolto per sostituire il precedente chitarrista di SS20, l’unico che è sempre stato presente nei gruppi dall’inizio sino alla fine è stato Raffaele Cuomo al basso. Prima che io arrivassi, SS20 esisteva già da almeno un anno e aveva partecipato al primo raduno di musica Oi! A Certaldo, in Toscana.
Mi piaceva il nome del gruppo: era la classificazione USA/NATO con cui venivano denominati gli RSD10 che erano i missili balistici sovietici allestiti contro i Pershin americani. Qualcuno ha voluto dare altri significati a questa sigla, ma a me sembrava efficace che un gruppo punk europeo usasse come metafora il nome di missili che erano puntati proprio contro l’Europa. Un nostro brano, che eravamo andati a suonare in una tv locale, iniziava proprio col suono di un missile.
In Sardegna esistevano pochi locali dedicati alla musica dal vivo e i concerti all’aperto erano in larga parte riservati ai cosiddetti gruppi da piazza con repertorio di musica tradizionale, liscio o al massimo pop. A parte i festival con ospiti internazionali e a cui comunque era preclusa la partecipazione di band locali come la nostra, passa qualche anno prima che si diffondano le rassegne di musica rock, in senso omnicomprensivo e ancora più tardi iniziano regolari programmazioni live nei locali.
Nel frattempo le occasioni per suonare in pubblico erano ben poche. Si poteva provare a imbucarsi nelle assemblee musicali dei licei o partecipare a qualche evento organizzato alla casa dello studente. Oppure si poteva fare colletta e affittare una delle tante sale parrocchiali. Ancora oggi non riesco a capire, o forse si, come mai i preti fossero così disponibili a far esibire i gruppi più disparati in quelle sale.
Un’altra possibilità era offerta dalle discoteche. In effetti, ripensandoci oggi, è stata una caratteristica proprio di quel periodo. I gestori delle discoteche, con l’intento di allargare la cerchia della loro clientela, avevano preso l’abitudine di far aprire le serate a gruppi che suonavano dal vivo senza preoccuparsi troppo di cosa o come suonassero. Per i gruppi e il loro seguito era una occasione di appropriarsi di uno spazio almeno per una sera.
In realtà la cosa si rivelò presto fallimentare visto che comunque chi era interessato al gruppo se ne andava alla fine del concerto, chi invece era interessato alla discoteca arrivava quando il concerto stava per finire. In quella breve zona di sovrapposizione erano frequenti le situazioni di “tensione”, per usare un eufemismo, generate dalla commistione forzata di gente così diversa.
Solo in seguito, con il crollo dell’afflusso nelle discoteche tradizionali, qualcuna, fra le più piccole, si convertirà in luogo dove fare principalmente musica dal vivo. Le più grandi invece oggi sono diventate dei centri commerciali. Ma questa è un’altra storia.
Oggi la compilation “Quelli che urlano ancora…” è diventata un oggetto di culto. Per voi fu un passo importante, ma determinò anche l’ultimo atto come SS20. Come avvenne questo passaggio?
1985
Anche se ancora embrionale, l’interscambio dei contatti cominciava a dare i suoi frutti. “Quelli Che Urlano Ancora” è stata una bella idea di Steno (Stefano Cimato) dei Nabat, un gruppo Oi! di Bologna fra i principali promotori della scena skinhead italiana. I Nabat avevano già realizzato dei dischi con la loro etichetta CAS records. Stavolta invece, non a caso, decidono di realizzare una compilation coinvolgendo band Oi! provenienti da tutt’Italia che già conoscevano anche grazie ai raduni musicali che organizzavano. È stata una occasione di confronto e per allargare la rete dei contatti.
Per noi è stata anche la prima occasione per realizzare una registrazione decente in uno studio, a parte quelle inascoltabili fatte col radione in sala prove. Il repertorio aveva già da allora solo brani cantati in inglese ma, visto che la compilation era indirizzata soprattutto alla scena italiana, abbiamo registrato un pezzo in italiano. ”Non staremo più a sentire” è stata l’occasione per provare ad arrangiare un brano con un po’ più di accuratezza. È stato l’ultimo atto di SS20 e in qualche modo ha indotto la nascita di Claptrap.
Eravamo arrivati in studio di registrazione all’indomani dell’ennesimo cambio di formazione. Dopo il mio ingresso nel gruppo avevamo fatto qualche concerto e il repertorio non ci sembrava tanto soddisfacente. Con Raffaele proviamo a riarrangiare alcuni dei vecchi brani ma molti, alla luce di una analisi più accurata, vengono eliminati. La scaletta si era molto ridotta per cui scrivo e propongo dei nuovi brani da integrare nel repertorio. Insomma: la line up era di nuovo cambiata, il repertorio rinnovato e anche il sound del gruppo era diverso. Non più solo punk/Oi! ma anche un mix fra hardcore americano da una parte e influenze della cultura skinhead ska/rocksteady dall’altra. SS20 come era stato non esisteva più e quindi bisognava dare un nuovo nome al progetto.
Così è nato The Claptrap. Nel senso di portavoce di una classe senza voce che, come noi, viveva le stesse situazioni in ogni parte del mondo. Per questo motivo i testi erano in inglese: una lingua internazionale per problemi internazionali. Abbiamo sempre pensato che anche quelle che potevano sembrare delle peculiarità della Sardegna, fossero in realtà delle declinazioni secondarie di problemi più ampi e comuni.
Ricordo le lunghe discussioni teoriche a fine concerto sull’indipendentismo con Renzo Saporito, che più tardi nel 1989 fondò i Kenze Neke, un gruppo etno-punk sardo, come loro si autodefinivano. In quel periodo gestiva un locale dove organizzava live. Lui sosteneva l’idea di una solidarietà fra le minoranze in lotta per l’indipendenza. Secondo me invece i problemi erano a monte ed era quindi in un contesto più ampio che andava cercata la solidarietà. Focalizzandosi a livello locale, al contrario, si correva il rischio di generare un terreno fertile a derive nazionaliste. Le stesse che oggi vengono definite, con un neologismo criptato, sovranismi.
In quel periodo invece eravamo in pieno edonismo reaganiano post riflusso, c’era ancora la guerra fredda, la costante angoscia dell’escalation nucleare e il muro di Berlino era ancora in piedi. Non è un caso che la musica mainstream degli anni ottanta con i suoi accoliti, abbia raggiunto uno dei livelli più bassi di tutta la storia.
Probabilmente è anche grazie a questo che il DIY e l’autoproduzione inizia a diffondersi. Le etichette indipendenti si moltiplicano con l’intento di creare una rete musicale alternativa sia di produzione che di distribuzione di gruppi che altrimenti non avrebbero avuto nessuna possibilità. Alcune di queste, oggi quasi tutte scomparse, sono realmente riuscite per un po’ a creare delle reti indipendenti. Altre invece, col tempo, si sono rivelate soltanto un pretesto per appoggiare i gruppi di testa a entrare nel mainstream. Ma anche questa è un’altra storia.
Con l’inizio del progetto The Claptrap, oltre un nuovo sound arriva anche un primo LP. Come fu registrare un album all’epoca, che riscontri aveste, e come lo promuoveste a livello live?
1986-87
Sulla scia delle tante autoproduzioni, anche noi proviamo a intraprenderne una e così nasce il marchio “Crossed Hammers”. Con un budget risicatissimo e molto artigianato riusciamo a produrre un LP di The Claptrap: “This Is The Italian Sound” che, anni dopo, abbiamo scoperto è stato classificato come il primo LP autoprodotto in Sardegna.
La precedente esperienza di registrazione del brano per la compilation di CAS records non era stata delle migliori. Gli studi a Cagliari non erano molti, erano costosi e comunque producevano prevalentemente pop o musica sarda. Così siamo dovuti uscire dall’isola nel posto più vicino: Roma. Dopo un po’ di ricerche abbiamo trovato uno piccolo studio umidissimo sottoterra vicino al Tevere che non costava molto e che, almeno in generale, aveva un’idea di come registrare un disco punk.
Bisognava fare in fretta per non sforare il microbudget ma, fortunatamente, avevamo le idee chiare. Dopo qualche giorno tornammo in Sardegna con una bobina 8 tracce su mezzo pollice. Il mix fu fatto al ritorno a Cagliari e non mi convinceva molto ma, dopo tanti anni, ormai mi sono abituato a sentirlo suonare così.
Per il mastering e la stampa ci siamo appoggiati alla Toast Records di Torino. Solo le prime copie avevano anche una busta interna con foto e testi: non potevamo permetterci di farlo per tutte. Con la Toast avevamo concordato anche una distribuzione nazionale del disco non in esclusiva, per poter essere liberi di contattare, tramite il circuito delle fanzine, anche altre etichette e distributori in Europa e in USA.
Non so più quante lettere sono state spedite ovunque a tantissime etichette che magari nel frattempo erano sparite o avevano cambiato indirizzo. Ogni giorno avevo il terrore di trovare nella cassetta della posta la busta con il timbro che raffigurava una mano che indica, e la scritta “back to sender”. Con altre invece siamo riusciti a stabilire dei contatti e alcune di queste sono poi anche diventate importanti case di produzione o distribuzione come WeBiteRecords e Rock_o_Rama in Germania, Roadrunner in Olanda, Oi!/SkaRecords in UK, Mordam Records e Dischord ma soprattutto Alternative Tentacles in USA.
Ricordo ancora la lettera autografa di apprezzamento del nostro disco di Jello Biafra (in persona) che, oltre a inviarmi l’elenco di tutti i distributori a cui loro si appoggiavano in USA e in Canada, mi spedì anche, per ricambiare il mio invio, delle magliette di Dead Kennedys e di Alternative Tentacles che conservo ancora come delle reliquie. È una emozione difficile da spiegare l’idea che nella collezione personale di dischi di Jello Biafra ci sia anche “This Is The Italian Sound” di Claptrap.
Avevamo anche spedito una copia promozionale del disco a molte delle radio libere ormai diffuse in tutt’Italia. ”Pacchetto Postale” si chiamava il modo più economico di spedire un disco: bisognava avvolgerlo con quella carta marroncina per i pacchi e poi legarlo con lo spago.
Una decina d’anni più tardi, un mio amico di ritorno da Berlino mi raccontò di aver trovato “This Is The Italian Sound” in un negozio di dischi, ma c’era qualcosa di strano: la copertina era in bianco e nero. Facciamo un po’ di indagini e scopriamo che qualcuno aveva “bootlegato”, cioè ristampato a nostra insaputa il nostro disco. A tutt’oggi non so né chi sia stato e neanche quante copie ne siano state stampate, ma ho visto che compare ancora nei siti di compravendita di vinile anche se con una quotazione più bassa rispetto all’originale.
La distribuzione andò bene e adesso riuscivamo a trovare qualche data anche fuori dalla Sardegna. La line up cambiò di nuovo e io tornai a fare il chitarrista/cantante come nei miei precedenti gruppi: Claptrap adesso era un power trio. Carichiamo gli strumenti su una vecchia Ford Taunus, affrontiamo l’interminabile viaggio in traghetto da Cagliari sino a Genova e poi attraversiamo l’Europa centrale: Svizzera, Germania sino ad Amsterdam. Ma la maggior parte dei contatti ci offriva soprattutto la possibilità di suonare nella rete dei CSOA come El Paso a Torino, L’Indiano a Firenze o il Forte Prenestino a Roma.
Quell’anno Claptrap arriva tra i 10 finalisti di una selezione di più di 1100 gruppi da tutt’Italia nel concorso Indipendenti 87 “le nuove leve del rock italiano”. Organizzato dalla rivista Fare Musica e da RaiStereoUno, la serata viene trasmessa in diretta alla radio nazionale dall’auditorium Rai della sede di Torino.
Ci sentiamo un po’ fuori posto ma anche orgogliosi, pur sentendone la pressione, di avere l’occasione di rappresentare la scena skinhead italiana in una diffusione così vasta. In realtà il vero problema era un altro: eravamo di nuovo senza batterista… Richiamo il nostro amico di Roma Luca Mariani, con cui avevamo registrato le tracce del disco. Ci rincontriamo per le prove e partiamo per Torino con una scaletta in perfetto stile Ska/Rocksteady. Grande tensione. Come se non bastasse siamo anche il gruppo che deve aprire la serata. Ma l’inaspettato boato dell’auditorium alla fine del primo pezzo scioglie tutti i nodi e in un attimo siamo già alla fine della scaletta. “…Ska/Reggae del più corrosivo!!!…” commenta nella diretta radiofonica Luca de Gennaro, che paragona il nostro sound a quello di Ruts e Stiff Little Fingers. Ho scoperto solo dopo che questa vasta esposizione di Claptrap sarebbe stato anche uno dei motivi che avrebbe spinto qualcuno a tentare di strumentalizzare il nostro gruppo.
Tornando al “culto”. Cosa voleva dire in quegli anni essere Skinhead in una città come Cagliari? E quali erano i vostri luoghi di ritrovo?
1980-87
In quel periodo in Sardegna c’erano gruppi musicali di ogni tipo. Non è che poi fossero tutti realmente interessati a suonare, in parte era anche un trend del momento come quello dei grafici o dei videomaker. La scena era popolata da molti “poseur” per citare un termine usato allora. Bisogna però considerare che non esistevano i social media e che suonare o andare ai concerti era un modo, nel bene o nel male, per incontrarsi. Realmente, non virtualmente.
A Cagliari c’erano un paio di locali frequentati un po’ da tutti e poi c’era piazza Repubblica che era una specie di show room a cielo aperto. Io non avevo sempre vissuto a Cagliari, ero arrivato da poco nell’Isola e non potevo fare affidamento su amicizie pregresse. Come negli anni precedenti, in cui avevo vissuto per poco tempo in città diverse, potevo solo cercare di valutare le persone per quello che erano. Suonando, comincio a conoscere un po’ l’ambiente cagliaritano. Avevo notato quasi subito che esistevano delle preclusioni e delle inclusioni a priori basate non tanto su quello che facevi o quello che eri, ma sulla tua cerchia di appartenenza.
Era una cosa che faticavo a comprendere. Andava oltre la normale chiusura in un modello che serve a proteggere la costruzione di una identità nella fase adolescenziale. Erano veri e propri meccanismi di familismo analoghi a quelli che avevo visto solo nel profondo sud dell’Italia e che mi sembrava davvero strano ritrovare in una terra nota per l’individualismo.
Quando uscì il disco andai di persona al giornale locale l’Unione Sarda. Chiesi del redattore che si occupava di musica che rimase stupito quando vide che ad aspettarlo nell’androne c’era uno sconosciuto. Mi confessò che in realtà era sceso solo perché pensava fossi qualcun altro. Mi disse anche nome e cognome di qualcuno che io, a mia volta, ignoravo chi fosse. Allora gli spiegai che facevo parte di un gruppo di Cagliari che aveva fatto un disco e che quindi mi sembrava ovvio portargliene una copia visto che lui curava la pagina della musica. Ovvio. Si: forse in Svezia. Ma eravamo a Cagliari, e io iniziavo a capire il meccanismo.
Inutile dire che non uscì mai neanche una riga né sul disco né sul gruppo. Nemmeno una citazione che assolvesse almeno il mero diritto di cronaca. Nulla. Per avere un po’ di riscontro dalla stampa locale abbiamo dovuto aspettare che uscissero le recensioni sulle riviste specializzate.
MaximumRockNRoll: “…the stunning punk sound of this band coming from the mediterranean island of Sardinia…”. Mucchio Selvaggio (Federico Guglielmi): “…capacità tutt’altro che trascurabili nel dar vita ad un sound trascinante e ben costruito che non mancherà di accendere il vostro entusiasmo…”. Fare Musica (Stefano Pistolini): “… una folata di storia dietro questa skinhead band, c’è quell’immancabile energia nei loro pezzi che ti prende per il collo e ti trascina nell’universo ska/punk”. Rockerilla (Claudio Sorge): “…il loro solido punk-rock è decisamente entusiasmante, fresco, suonato bene, persino colto: perchè quella Rangeless Infiltration, dall’evidente struttura ska/sixties, è un piccolo gioiello di archeologia britannica pre-Beatles! Con echi persino di garage, gli assoli sono eccellenti: ascoltate Right to Kill…”.
Nella copertina di Mucchio Selvaggio c’era una foto di Prince, ma in quella di Rockerilla, come un segno del destino, campeggiava una maxi foto di Johnny Lydon. Nonostante tutto questo, quando suonavamo dal vivo la stampa sarda ci dedicava al massimo il cosiddetto francobollo: un quadratino che riportava la notizia nell’agenda degli spettacoli. Qualche volta. Neanche sempre. Essere valutato per il proprio lavoro, è una modalità che ho trovato più diffusa all’estero. Al Contrario l’appartenenza e il familismo sono ancora oggi delle discriminanti che caratterizzano profondamente la nostra cultura.
Considerando quel contesto cagliaritano, oggi non appare più neanche così strano che non ci sia mai stato un CSOA. La cosa che più gli assomigliava, in senso lato, era quella che per un po’ di tempo diventò la nostra sala prove. Eravamo riusciti a stabilire un accordo col comitato di quartiere che gestiva a Cagliari una vecchia villa, (Asquer) fatiscente e in rovina, dove già si svolgevano diverse attività.
Ma dopo esserci abituati a provare in condizioni assurde (una volta abbiamo anche provato in un box auto con la macchina parcheggiata dentro…) e sempre in posti diversi (perché dopo una prova ci cacciavano… a volte anche durante), villa Asquer con così tanto spazio, nessun limite di orario e nessun vicino che si lamentasse per il volume, ci sembrava una reggia. C’era uno scherzo rituale a cui sottoponevamo tutti i nuovi arrivati. Alla richiesta di dove fosse il bagno, li indirizzavamo alla porta della stanza senza pavimento. Forse era un po’ pericoloso, ma vedere la loro faccia con una mano nella maniglia e un piede nel vuoto era davvero esilarante.
Alle nostre prove si incontrava sempre un piccolo gruppo di amici/fans. Qualche volta organizzavamo delle feste portandoci dischi e giradischi da casa e in quelle occasioni la nostra cerchia si allargava.
Nel frattempo si era anche aggiunta qualche altra band esordiente con cui condividevamo lo spazio. Le nostre prove stavano diventando un punto di riferimento per quelli che erano davvero i “rejects”, non Cockney, ma cagliaritani. A qualcuno bastava solo tagliarsi i capelli ma bisognava per forza farsi aiutare. Fino a quando non ne abbiamo procurato una elettrica, la macchinetta a mano era un aggeggio infernale che ti strappava i capelli. Mi ricordo di qualche ragazza che aveva persino azzardato il taglio Chelsea. Ma anche se non tutti indossavano la “perfetta” divisa skinhead, ne condividevamo la musica ma soprattutto il disagio sociale: quello che era stato lo spirito originario del movimento prima che si spaccasse in estremizzazioni di matrice politica.
Alcuni di noi lavoravano, ma altri non avrebbero potuto permettersi neanche una birra nei presunti locali alternativi, in realtà di tendenza, di Cagliari. Io mi trovavo più a mio agio con queste persone che con la passerella e il circo mediatico di piazza Repubblica. Le uniche due birrerie che allora frequentavamo adesso non esistono più. In una di queste il gestore, che aveva capito i nostri gusti, proiettava i videoclip degli Specials e dei Madness. Night Boat to Cairo aveva anche la pallina che saltava sul testo per cantare in coro a tempo. Nessuno aveva un videoregistratore e le uniche fonti di musica da vedere erano abbastanza mainstream: Videomusic di più, Mister Fantasy un po’ meno.
In quel periodo a Cagliari, al di fuori della nostra cerchia, si sapeva ben poco di cosa significasse skinhead, ma allora non era minimamente associato a nazi come successe più tardi. A questo proposito ricordo un episodio divertente e significativo. Una volta venni fermato a un posto di blocco col mio maggiolino dai Carabinieri. Mi fecero scendere dalla macchina e il militare vedendo la mia testa rasata mi chiese: “…ma è un collega?”. Io stupito risposi: “No. perché?”. E lui: “…vedo che indossa gli stivaletti da lancio!”. Mi aveva preso per un paracadutista! In realtà stava indicando i miei DocMartens rossi a 14 buchi.
Li ordinavo da un negozio di ferramenta di Glasgow dove avevo scoperto che costavano poco perché venivano considerati per quello che erano: scarpe da lavoro di sicurezza. Negli anni 90 poi i DocMartens sono diventati di moda con prezzi esorbitanti e varianti di ogni tipo rispetto agli originari che ormai credo non vengano più neanche prodotti se non nella versione a 8 buchi.
In realtà anche nel nostro periodo c’erano già stati dei tentativi di commercializzare la scena. Lo storico Last Resort di Londra, che già vendeva “abbigliamento punk”, si era riciclato e adesso faceva circolare un catalogo tipo postal market dove c’erano, secondo loro, tutti gli abiti “giusti” per vestirsi da skinhead. Come BlueMoon a Berlino, ormai erano diventati delle specie di boutique trendy. Ebbi la netta percezione dell’inizio della fine in un negozio di strumenti musicali. Fra gli effetti per chitarra accanto a uno che si chiamava già “heavy metal” ne era apparso uno nuovo con su scritto: “punk”. Niente più overdrive, distortion o fuzzbox.
Se oggi cerchi SS20 e The Claptrap sul web, trovi forum dove venite definiti nazisti, altri dove si dice che eravate apolitici. Quanto c’è di vero da una parte e dall’altra? E che peso aveva la politicizzazione in quegli anni nel vostro giro?
1977-87
Nella storia del punk i Sex Pistols sono stati artefici non solo del noto Great Rock’n’Roll Swindle ma anche di un Great Rock’n’Roll “misunderstanding”. La maglietta di Sid Vicious, il brano Bergen was a gas o le fasce nazi che usavano Malcom McLaren e Siouxie dei Banshees, erano ovviamente degli espedienti per scandalizzare la classe politica (allora condotta da Margaret Thatcher) che aveva vissuto la seconda guerra mondiale e che veniva ritenuta responsabile del disastro in cui si trovava l’UK in quel periodo. Appare ancora più evidente quando gli stessi Pistols attribuiscono la condizione di “no future” proprio a quella stessa classe dirigente definita “fascist regime” nel loro brano più famoso God Save The Queen.
Tutto questo, che oggi sembra così evidente da rasentare la banalità, in quel periodo in realtà non lo era tanto. Qualcuno aveva equivocato e qualcun altro, approfittando dell’equivoco aveva iniziato a cavalcarlo. Il brano Nazi Punks Fuck Off che Jello Biafra scrive nell’81, segnala che esisteva già da allora una frangia di questo segno all’interno del movimento punk.
La globalizzazione incombeva e anche il muro di Berlino stava per cadere. In un mondo che si apprestava a diventare sempre più complesso e difficile da interpretare, the Great Rock’n’Roll “misunderstanding” trovava di nuovo un suo spazio con apparenti soluzioni semplici. È quello che oggi viene definito, con un altro neologismo criptato, populismo.
Noi non ci siamo mai occupati molto di questo aspetto che all’inizio sembrava un retaggio soprattutto di paesi che, come UK o Germania, culturalmente e storicamente avevano sempre avuto delle inclinazioni nazionaliste. In seguito anche in Italia qualche fanzine comincia a dare spazio a questi aspetti e i giornali riportano qualche azione o manifestazione di gruppi neonazisti di “skinheads”. La prima volta che i grossi media utilizzano il termine skinhead lo associano subito al neonazismo. In poco tempo alla fine degli anni 80 ormai skinhead e naziskin vengono considerati da tutti come dei sinonimi.
Naturalmente per noi non era così. Pur avendo delle affinità con la cultura skinhead ci eravamo sempre ritenuti dei cani sciolti. Essere adesso addirittura assimilati ai nazi era davvero intollerabile. Avevamo anche preparato, e fatto circolare su fanzine e giornali, un volantino in cui prendevamo esplicitamente le distanze da tutto questo. Ma servì a ben poco. Riguardando oggi ai fatti di quel periodo, risulta evidente che appiccicarci quella etichetta fosse un modo funzionale che qualcuno ha utilizzato per tentare di tagliarci fuori dalla scena. Un modo per liquidare velocemente e ignorare il riscontro che, nonostante tutto, Claptrap era riuscito a conquistare anche fuori dall’isola.
Sarà stato un caso ma proprio in quel periodo un giorno veniamo convocati dai rappresentanti del comitato di quartiere che gestiva villa Asquer. Ci spiegano che non avremo potuto più usufruire dei locali perché erano apparsi dei simboli nazi sui muri della villa e di cui loro ci ritenevano responsabili. A nulla valse tentare di spiegare che non potevamo esserne noi gli artefici visto che questa cosa avrebbe danneggiato noi ancora più che loro. E così dovemmo lasciare la nostra sala prove/rudere che poi, nemesi volle, venne requisita dal comune e rimase chiusa per almeno 10 anni prima di essere restaurata e riaperta.
Non so esattamente cosa iniziò a circolare sul nostro conto da allora in poi. Avevo altro di cui occuparmi e avevo smesso di leggere le fanzine che si erano ormai trasformate in mezzi di propaganda politica. Ma immagino siano state scritte e dette un sacco di sciocchezze, visto che anche dopo 40 anni continuano ad avere un peso le chiacchiere fra sedie vuote a discapito di fatti concreti facilmente verificabili superando la crosticina del gossip. Complice è stata poi, anche la rete dove non solo chiunque può pubblicare qualunque cosa, ma qualunque capacità anche minima di analisi è annullata dall’addiction dopaminergica del “like”.
Per esempio, vent’anni dopo nel 2000, ho trovato per caso su Discogs, una delle tante piattaforme on line di compravendita di vinile, la foto di una sedicente intervista, in un disarmante inglese maccheronico, che sarebbe stata fatta al nostro gruppo da una fanzine non meglio identificata. Non bisogna essere Sherlock Holmes per capire che è un falso grossolano in cui una serie di domande idiote sono scritte in funzione di una serie di risposte altrettanto idiote. Ma probabilmente il pubblico a cui questo falso faceva riferimento era altrettanto grossolano come il suo autore.
Anche la pubblicazione del bootleg è misteriosa. Non abbiamo mai scoperto se la produzione fosse finalizzata alla realizzazione di un piccolo business da parte di qualche fan o se fosse un tentativo di strumentalizzare il lavoro del nostro gruppo in un ambito naziskin. Ma mi sembra davvero difficile pensare che si possa distribuire in un ambiente del genere un disco in cui campeggia una tripla striscia checkerboard TwoTones e che nei ringraziamenti cita Desmond Dekker, Simaryp, Clancy Eccles, Laurel Aitken, Baba Brooks e Smith Slim: cioè il gotha della Trojan Records. Tutto questo solo guardando il disco, perché poi ascoltando i brani e leggendo i testi è impossibile avere ancora dei dubbi.
Dopo il disco, i tour e le varie esperienze live, come termina il progetto Claptrap?
1987-89
Non so in che misura, ma non avere più il nostro punto di riferimento a villa Asquer ha contribuito in qualche modo a far perdere di vista il nostro gruppo di amici/fans e le occasioni di incontrarci diradavano. Nel frattempo alcuni di loro erano stati costretti ad emigrare all’estero per trovare un lavoro: degli altri non ho saputo più niente. Inoltre nessuno di noi era mai stato un appassionato di calcio quindi era escluso che potessimo incontrarci allo stadio. In poco tempo la nostra vecchia cerchia si era praticamente dissolta.
Intanto con Claptrap ci sono un altro paio di cambi di line-up, proviamo a reinserire un cantante ma non funziona. Decidiamo allora di tornare al power trio ma comunque ci mancava un batterista. Un giorno mi chiama Alberto Sanna che aveva anche lui problemi di organico col suo gruppo: è stato così che gli proposi di venire a suonare la batteria con noi. Sapevo che era stato lo strumento con cui aveva iniziato. All’interno di un ex complesso industriale fuori mano, eravamo riusciti a trovare e ad allestire, quasi come uno studio, una nuova sala prove: ci eravamo riproposti di riarrangiare tutto il repertorio. Lavoravamo molto in quel periodo, trascorrevamo intere giornate a provare, arrangiare e registrare con sessioni interminabili.
Ogni tanto ci arrivava voce, o apparivano notizie sui giornali sardi, di qualche azione di nuove formazioni di sedicenti gruppi skinheads che non sapevamo chi fossero, ma che da allora però, per diversi anni, sono sempre stati di matrice nazi. A causa di questo ci capitava, nostro malgrado, di ricevere periodicamente la visita degli investigatori della Digos per i quali, come ormai per tutti, non c’era alcuna differenza fra skinhead e naziskin: non realizzavano che si trattava di periodi diversi e di persone diverse. Una volta avevamo persino subito un patetico “attacco al palco” da parte di uno di questi gruppi durante uno dei nostri concerti.
Tutto questo ha contribuito a farci allontanare dalla scena skinhead: nessuno di noi aveva più voglia di dover dare continuamente spiegazioni. E comunque la matrice originaria del movimento era stata completamente cancellata da questi nuovi gruppi a favore di una totale strumentalizzazione politica. Più avanti, verso la fine degli anni 90, si è formata anche in Italia una fazione SHARP. In Sardegna invece, ho scoperto su Facebook, che nel 2015 si è costituita una community di skinheads che si dichiara antifascista e antirazzista. Ma erano vicende che ormai non ci interessavano più da tempo.
Eravamo concentrati sulla nostra musica. Il sound di Claptrap si era spostato sull’hardcore americano: oltre a me, ora cantavano anche Alberto e Raffaele per formare dei cori ispirati alla matrice dei canadesi D.O.A. Un’altra operazione di quell’ultimo periodo era stata di riarrangiare e stravolgere una selezione di classici del rock’n’roll. Raddoppiavamo o addirittura triplicavamo i BPM della versione originale, trasformandola in fast/hardcore. Era una modalità simile a quella con cui i gruppi Trojan usavano riarrangiare in versione ska brani di altri generi musicali. Con questa formazione abbiamo suonato in molti locali, che adesso finalmente avevano quasi tutti una programmazione di musica live, e partecipato a diverse rassegne e festival musicali ormai diffusi in Sardegna, come RockArea o IsolaRock. Grazie agli ultimi pochi contatti “sani” che avevamo conservato, eravamo riusciti a suonare anche fuori dall’isola.
Quel momento, finalmente con una band rodata e affidabile, che avrebbe dovuto essere un nuovo punto di partenza, in realtà poi segnò la fine di Claptrap. Alberto e Raffaele si fecero coinvolgere in uno di quei gruppi che venivano affiliati alle etichette solo per sostenere il gruppo di testa a entrare nel mainstream per poi essere dimenticati. Per me invece, tutto sommato, ripercorrere la strada del R’n’R era un sentiero che avevo già attraversato molti anni prima tornando indietro sino al blues. Quello che mi attirava di più in quel momento era invece approfondire la direzione ska/reggae e rocksteadybeat: allargare l’organico per poter costruire degli arrangiamenti più articolati, aggiungere voci, keyboards ma soprattutto una sezione di fiati. Un desiderio che sono riuscito poi a realizzare con i miei gruppi successivi… ma questa è un’altra storia.
Articolo a cura di Roberto Lai
Foto live dei Claptrap e copertine dei dischi gentilmente concesse dall’archivio di Marco Rocca


