MDC – Millions of Dead Cops: La Resistenza che non finisce mai
Marco Pandin ci racconta di Millions of Dead Cops, primo disco della band hardcore punk MDC
Milioni di sbirri morti.
Una mattina appena fuori del portone, mentre andavo alla fermata dell’autobus per recarmi a scuola, mi è sembrato proprio strano trovare steso sugli scalini uno dei ragazzi che abitavano nel casermone di fronte a casa mia. Sembrava dormisse. Ho pensato – forse aveva fatto tardi ed era rimasto chiuso fuori casa.
E proprio mentre stavo là a guardarlo senza capire un cazzo di niente è arrivata la polizia insieme a un’ambulanza. Lo conoscevo come Eddy – non so se fosse il suo nome vero o un soprannome, e neanche ricordo il cognome. Sua mamma lavorava come segretaria in un qualche ufficio in centro storico, prendeva l’autobus la mattina presto e rientrava a ore tarde e la si vedeva molto di rado in quartiere. In giro dicevano che suo papà fosse un inglese. Eddy aveva solo tre o quattro anni più di me, ma sembrava ne avesse passate tante: aveva viaggiato col treno e in autostop per mezza Europa e raccontava un sacco di storie anche losche con lui dentro come protagonista.
Ogni tanto ci si incrociava e parlavamo insieme: sapeva che suonavo il basso in un gruppo e che facevamo roba strana, lui suonava la chitarra elettrica e cantava con dei tipi di Marghera – gli avevo prestato un disco dei Gentle Giant perché se lo registrasse, ma me l’ha restituito quasi subito perché preferiva gustarsi un rock diverso, cose da grandi tipo Grand Funk Railroad, Jimi Hendrix, i Cream di Eric Clapton. Spesso mi diceva che si stava organizzando per andarsene ancora via, e forse a modo suo ce l’ha fatta, a tornare sulla strada. Anche la fine bruttissima di Enrico, uno dei miei compagni di scuola alle elementari, ci aveva davvero impressionati tutti: dopo una breve fuga in autostop era tornato a casa riaccompagnato dalla polizia con dei lividi strani sulle braccia e un’epatite cronica, una notte si era appeso a una trave e l’aveva fatta finita. Pareva proprio che dal quartiere non si riuscisse a scappare.
Ero davvero spaventato dall’eroina: era una specie di spettro che girava tranquillamente in città, notte e giorno, ti faceva ascoltare musica celestiale ma ti accoltellava alla schiena o ti tagliava la gola. A scuola dicevano che a Padova e a Verona fosse addirittura peggio, ragazze e ragazzi che si facevano in vena per strada seduti sui marciapiedi, fregandosene della gente che passava. Alcuni dei miei compagni pensavano fosse grossomodo come ubriacarsi e ne erano incuriositi, come ci si incuriosisce di una musica mai sentita o di un cibo mai assaggiato prima, di un libro di poesie, di una ragazza vista a una manifestazione. Anche per uno sfigato come me non sarebbe stato poi così difficile entrare, fosse solo per dare un’occhiata, in quel buco nero: bastava soltanto chiedere a quelli che stazionavano coi motorini truccati davanti al bar giù all’angolo, una bustina per provare te la davano senza chiedere soldi. Ma bastava guardarsi intorno e riflettere: sarebbe stata un’avventura senza scampo.
Gianfranco, il prete giovane arrivato da poco nel nostro quartiere, aveva affrontato a muso duro gli spacciatori e messo noi sull’avviso, e si sbatteva tutto il giorno tutti i giorni per tenerci lontani dal fango, dall’ospedale, dai carabinieri e dal cimitero. A me non dispiaceva restare ad ascoltarlo ogni tanto, ma cercavo comunque di tenermi a una certa distanza di sicurezza: non avevo niente da confessare e di cui pentirmi, e tutte quelle storie assurde su un dio che ci guarda e ci controlla sempre mi sembravano solo un altro modo per farmi accettare come inevitabile una vita di sottomissione e di obbedienza. Non era giusto chiamare fede e gratitudine quello che secondo me erano un collare e una museruola.
Certo che anche a me sarebbe piaciuto scappare via – chissà cos’avrei dato per poter scavalcare un giorno i reticolati della tangenziale e mettermi a fare l’autostop per chissà dove, o per riuscire a prendere un treno per Berlino Londra Amsterdam e andare a ficcarmi in culo al mondo.
A me però è toccata la paglia corta: i miei erano tutt’e due messi male di salute ed ero convinto non ce l’avrebbero fatta senza di me, così sono rimasto a casa per tenerli d’occhio ed assisterli. Ho messo il guinzaglio corto ai miei sogni, ho dato una bella sfoltita alle mie aspettative, ho regolato su un livello basso i battiti del cuore, mi sono accontentato del grigio e l’ho respirato per forza. Di quel grigio scuro e spento me ne sono appropriato fino a farlo diventare il mio colore preferito, quasi quanto il nero.
Che poi sempre grigio non era perché anche qui in Italia si stava formando lentamente un gran bella scena, diciamocelo. Il sabato pomeriggio era bello, ci si vedeva nelle piazze. E’ cominciato tutto quella volta che ci si è incontrati davanti alla vetrina di un negozio di dischi in centro per afferrare qualche scampolo di quei suoni nuovi che uscivano da dischi che difficilmente avremmo potuto comperare. Per un po’ si è potuto fare sì, ma un giorno il nostro aspetto ribelle ha smesso di portare folklore. I nostri colori e le nostre risate hanno cominciato a infastidire i clienti, gente che comprava roba da discoteca, oppure rock-con-le-palle e pessimo vinile con gli ultimi sussulti del vecchio prog forforescente. Così, per ristabilire il decoro, i negozianti hanno chiamato in aiuto i vigili urbani: ci hanno cacciato per questo – per essere come siamo. Ed è stato solo l’inizio: poi è successo un po’ ovunque, piccole storie ignobili tutte uguali. Fermati e portati in questura per un controllo con un pretesto qualsiasi – una scritta strana su una maglietta, una spilletta sgradita, per i capelli colorati e spettinati, per un bacio proibito.
Bloccati per ore nella caserma dei carabinieri con la misera scusa di una verifica, per quella che poi risultava essere un’omonimia, per una segnalazione anonima che poi si rivelava inconsistente. Trascinati in tribunale come malfattori e costretti in piedi a discolparci davanti a un giudice per aver ciclostilato e diffuso un volantino ingenuo e pacifista dove si chiedeva solamente amore. Piazze presidiate e telecamere ad ogni angolo a guardare giù e spiare e registrare ogni movimento ed archiviarlo, sradicate le panchine, i chiodi conficcati sui gradini per non farci sedere sopra più nessuno, né chiappe nostrane né quelle dei turisti stranieri (vadano a spendere valuta pregiata nei caffé e nei ristoranti) né i culi magri del sud del mondo. Qui si lavora: chi non ha un cazzo da fare vada a farlo da un’altra parte. Qui per voi non c’è posto.
Mucchi sparsi e qualche lupo solitario, succedeva un giorno che si prendeva un treno al volo e ci si incontrava da qualche parte per un raduno, un concerto, o per uno sciopero, per protestare in strada – a gridare contro tutto, perché quando hai vent’anni la parola rassegnazione non esiste nel tuo vocabolario. Con le ragazze e i ragazzi venuti dalle altre città si scambiava qualche battuta, si condivideva un po’ di cibo, e un po’ alla volta ci si raccontava e si veniva a scoprire che bene o male tutti vivevamo in quartieri di merda e avevamo fatto scuole di merda – e sono esperienze che fortificano e orientano il pensiero in una certa maniera. Ricordo la Patrizia di Verona che voleva scappare di casa e dalle botte di suo padre che rincasava ubriaco, quei due di Treviso sempre insieme come si chiamavano che un giorno ce li siamo ritrovati piazzati al piano di sopra nel nostro stesso squat in Shakespeare Rd. a Brixton – quanto ridere d’erba in mezzo alla disperazione e alle lattine di lager vuote. E Paolo e Fabio diplomati e disoccupati e disposti ad andare a Londra a fare gli schiavi pur di imparare a parlare l’inglese come la scuola non gli aveva insegnato, e la Laura bellissima occhi e riccioli neri di vicino Ferrara che da Londra poveretta non è mai più ritornata.
Dietro ai nomi dei gruppi e delle fanzine e dei collettivi c’erano tutte ragazze e ragazzi press’a poco della mia età, anche loro a darsi da fare nelle cantine, in radio, nelle stanze occupate dei primi piccoli centri sociali e negli spazi autogestiti e precari che stavano fiorendo in giro per il paese.
Una primavera dentro cui eravamo tutti diversi eppure ci si assomigliava, ciascuno con qualche nodo segreto dentro al cuore che ci rendeva fragili, tutti innamorati ed impegnati a cercare una colonna sonora adatta alla giornata.
Non tutti eravamo capaci di suonare e di cantare, ma non era grave: chi non sapeva farlo ha preso i pezzi dai dischi e dalle cassette degli altri, cucendoli insieme in un patchwork che gli rassomigliasse. In tanti abbiamo fatto così – abbiamo rosicchiato, ritagliato, strappato, rubato, portato via, fatto diventare nostro. Ci abbiamo provato: a volte ce l’abbiamo fatta, a volte no e ci siamo persi.
Ma di una cosa sono sicuro. Tanti delle ragazze e dei ragazzi di allora continuano con quella musica nel cuore, musica che suona ancora forte: la fanno ascoltare ai figli cercando di trasmettere, insieme all’amore, quella parte di sé che protesta, che non sa tacere, che si divincola, che non si è mai rassegnata.
Fare casino, cantare, ballare, saltare, suonare insieme è stato il nostro modo per dire no a tutto e a tutti e dirlo forte, per farci sentire e per far sapere tutt’attorno che c’era bisogno di sentire vicine altre voci. Per raccoglierci, per stringerci le mani, abbracciarci. Musica come protesta sì ma anche come condivisione, come speranza: perché tutt’intorno risuonasse un altro rumore che non fosse quello delle bombe, delle sirene, degli ordini, delle urla, delle bastonate e degli spari.
“…La polizia è il Klan, è la mafia. E voi dovreste scegliere da che parte stare. MDC è contro la repressione della polizia, contro la brutalità. MDC è contro il maschilismo e l’ignoranza che incoraggiano la gente a fare un lavoro grazie al quale possono legalmente metterlo nel culo ai poveri, alle minoranze, alle donne, agli omosessuali e usare la legge per calpestare la dignità degli altri. I poliziotti sono i pastori tedeschi, il braccio forte del cervello del potere, il braccio armato dei maggiori leader politici e religiosi che vogliono costringerci ad accettare la loro cultura – nient’altro che una serie di comportamenti programmati, leggi e regole da rispettare. Con la repressione, con la paura e il sistema giudiziario essi controllano la società, ci trasformano in topi in trappola che combattono gli uni contro gli altri per un pezzetto di formaggio, mentre loro se ne stanno lì fuori a guardarci e a ghignare…” (da un volantino diffuso ai concerti, primi anni ‘80).
Ermanno e Gino degli Wops, allora il primo ed unico gruppo punk a Venezia, avevano acquistato alcuni dischi appena arrivati nel negozio in campo san Barnaba dall’America, dischi che poi tra amici abbiamo preso in prestito, registrato su cassetta e presto imparato a memoria.
Tra questi il primo disco omonimo dei texani MDC, che mi arriva dentro in testa in una maniera davvero strana: dal primo ascolto mi illumina e mi indica la strada come fosse una stella cometa. Penso sia successo grossomodo lo stesso anche a Kurt Cobain, che un giorno lo ficca nella sua top 50 personale – proprio come avevo fatto io, lo mantengo ancora stabile ai primissimi posti.
Negli anni Sessanta Jimi Hendrix aveva dato suono alla guerra del Vietnam facendolo riverberare in tutto l’Occidente. Dieci anni dopo Patti Smith era riuscita ad appiccare piccoli fuochi di rivolta casalinghi che nelle più lontane province dell’impero si sono spesso trasformati in incendi devastanti. Oggi, anni Ottanta appena cominciati, gli MDC – Millions of Dead Cops cioè milioni di sbirri morti, offrono il suono della rivolta nelle strade. Urlano delle periferie e della repressione, della miseria dei ghetti, della brutalità dei pestaggi, della violenza degli scontri con l’autorità e dei morti ammazzati senza un motivo preciso – spesso solo per il colore della pelle, per non aver abbassato lo sguardo, per aver parlato/gridato/chiesto aiuto in una lingua meticcia, per aver cercato qualcosa di innocente in tasca, per essersi confusi solo per un attimo, per essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Mi metto d’impegno a tradurre i loro testi, e finisco col ritrovarci dentro quasi quella stessa aria che anche noi qui in Italia avevamo respirato nelle nostre manifestazioni di piazza più agitate. Dal Sessantotto in poi, anzi meglio dal dopoguerra in poi anche nel nostro paese tante ragazze e ragazzi sono finiti ammazzati per le strade dalla polizia e dai fascisti – pensi a questo e subito dopo ti germoglia dentro in testa il sospetto che le proteste pacifiche, le messe beat, le canzoni cantate tutti insieme tenendoci per mano e i sit-in pace&amore non servano a granché, che i fiori nei cannoni non bastino più. Se quello dei Crass era il suono perfetto della nostra disperazione, quello degli MDC era il suono perfetto della nostra rabbia – e non di quella che dopo un po’ ti passa, dico proprio la rabbia che ti resta attaccata addosso insieme ai segni delle manganellate e dei calci. Quella che ti fa piangere e mette radici dentro. Quella che ti fa diventare rosso il viso e nero il cuore. Quella che non dimentichi più. In alcune pieghe delle strofe ritrovo il rumore dei sampietrini divelti, quando non la sensazione fisica della fionda stretta in mano, il sibilo del sasso che parte e il rumore meraviglioso dei vetri che si spaccano.
I miei genitori erano poveri, con quel misero stipendio da operaio di mio padre potevano permettersi solo di prendere in locazione a poco un buco in un condominio di periferia. Nel giorno di paga quelli dell’affitto erano i primi soldi che venivano messi da parte – partiva puntualmente un vaglia postale verso un indirizzo di Dorsoduro. L’avevo imparato a memoria, così una volta ho preso l’autobus fino a Venezia e sono andato a vedere cosa c’era. Ero un ragazzino curioso, certo: non l’avevamo mai visto, lui. Chissà che faccia aveva il padrone della nostra casa, che poi era anche il padrone delle case dove abitavano le famiglie di tanti miei compagni di scuola e di giochi.
Trovo un palazzo enorme a due passi da Cà Foscari: nessun nome sul portone, gli scuri sprangati, silenzio. Sembrava non ci abitasse nessuno, e magari era davvero così – ho pensato che mandavamo i nostri soldi a un morto.
Questa è dedicata al padrone di casa e secondo me anche a tutti i padroni del mondo, e si chiama “Greedy and pathetic”:
Sei stracolmo di bugie.
Tutto quello che dici è falso.
Le tue parole non valgono niente.
Menti a tutti noi dall’alto del 40° piano e nemmeno ci conosci
Siamo disperati e incazzati
Sei quello che decide di aumentarci l’affitto
e noi non riusciamo a risparmiare un soldo.
Il denaro che guadagniamo lo abbiamo già speso tutto.
Ci spiace proprio dirtelo ma dobbiamo farti fuori.
Sta’ attento oggi quando metterai in moto la macchina.
Sei un ingordo, sei patetico e bugiardo.
Sei il padrone delle nostre catapecchie.
Un giorno o l’altro bruceremo la tua casa.
Ti teniamo d’occhio mentre sei in ufficio seduto comodo in poltrona.
Vogliamo vederti finire in pezzi.
Faresti meglio a stare attento.
L’album di debutto degli MDC esce autoprodotto per R Radical Records nel 1982. Da Austin il gruppo si sposta a San Francisco, al master mette le mani addosso Jello Biafra dei Dead Kennedys, i suoi compagni di allora East Bay Ray e Klaus Fluoride lo rendono sonoramente più levigato e commestibile e lo stampano in Europa su Alternative Tentacles.
In America il signor padrone si dà un gran da fare perché il disco resti fuori dalle radio e dai negozi, proprio come al di qua dell’Atlantico ci si adopera per tenerlo sommerso e fuori della portata dei ragazzi – secondo me non vende un cazzo proprio perché come i dischi dei Crass e dei Dead Kennedys si fa fatica a trovarlo, io ne recupero una copia messa bene in un negozietto di dischi usati a Londra.
Nel numero di Rockgarage uscito a maggio 1983 pubblichiamo le traduzioni dei testi degli MDC e di qualche altro gruppo americano che ci piace tipo Bad Brains, Zero Boys e Toxic Reasons. Potrebbe essere solo una coincidenza, ma alcuni negozi di dischi e librerie che per i numeri precedenti non avevano mostrato alcuna difficoltà, adesso si rifiutano di tenere la nostra fanzine perché, dicono, “è pericolosa” e “fa propaganda anarchica” – coi miei compagni non sappiamo se la cosa ci fa più ridere, intristire o incazzare. Scegliamo di ridere e di andare avanti ridendo per la nostra strada.
Un giorno vengo a sapere da un’amica che lavora in un’agenzia di viaggi che c’è un biglietto aereo per l’America che qualcuno aveva prenotato e poi disdetto: me lo offre a un prezzo davvero stracciato, così lavoro tutta l’estate e chiedo le ferie a settembre per trascorrere tre settimane a New York City.
Non dormivo granché, non mi ero abituato al jet lag e non volevo sprecare tempo prezioso dormendo: in quei giorni intensi e sottopressione fra le molte altre persone un pomeriggio incontro in strada a un banchetto dello Youth International Party un caro amico di Dave Dictor – il cantante degli MDC.
Mi racconta diffusamente di lui e del gruppo, e mi passa un’intervista che gli aveva fatto per la rivista Overthrow e che mi autorizza a tradurre – cosa che ho fatto, l’ha poi pubblicata Rockerilla nel numero uscito a novembre. Scrivo a Dave e gliene mando una copia assieme a un paio di numeri della nostra fanzine, lui risponde subito e mi spedisce un pacchetto di volantini e dischi. A febbraio 1984 gli MDC vengono a suonare in Italia per la prima volta: ci incontriamo a Bologna, ci riconosciamo, ci abbracciamo.
Questa è “Dead cops” – una scritta indelebile sul muro, fatta col sangue coi chiodi con lo smalto per le unghie con ditate di Crisco con gli sputi col fuoco:
Poliziotti morti.
Poliziotti morti.
Le suonano dure ai poveri giù in strada coi manganelli e i fucili.
Lo fanno solo per divertirsi un po’.
Sono grossi cattivi e tetri.
Fanno tutti parte del Klan.
La brutalità è il loro sport preferito.
Li metteremo tutti al rogo.
Rivolta, ribellione nelle strade.
Trucco sulla mia faccia e calze di seta.
Tutti i normali mi chiedono perché non sono un normale ragazzo americano.
Ma cosa rende l’America così normale quando io sono così diverso?
Dicono che questa è la terra della libertà.
Dicono che questa è la patria dei coraggiosi.
Eppure mi chiamano finocchio ma sono solo un essere umano.
La vostra autorità e il vostro potere ci hanno schifato.
La vostra giustizia è una menzogna.
Combatteremo contro di voi finché non sarete tutti morti.
Cosa farete?
La mafia in uniforme a caccia di finocchi e di negri.
Poliziotti morti.
Poliziotti morti.
E’ ora di cambiare.
Siete l’esercito al soldo dei ricchi.
Macho che inculano gli schiavi.
Pisceremo sulle vostre tombe.
Come in certi palazzi si usa dire oggigiorno, la pacchia a un certo punto finisce. Poco dopo quei loro concerti gli MDC vengono accusati da alcuni punks nostrani di prendersi troppo sul serio, di esagerare, di essere troppo radicali, troppo politicizzati – forse la nostra realtà gli sembra più morbida e tranquilla.
Ad alcuni fanno impressione le foto che gli MDC sbattono sulle copertine dei loro dischi: testimonianza di massacri, torture, pestaggi, esecuzioni – forse hanno già rimosso assieme al ricordo della Resistenza quello di tutte le vittime della gentilezza di polizia e fascisti. Altri li giudicano noiosi e ripetitivi – forse nella protesta non si riconoscono più e si sono stancati, preferiscono ascoltare musica leggera per smettere di pensare. Altri li trovano addirittura troppo americani, li sentono stranieri e lontani così come trovavano i Crass e altri anarchici inglesi troppo diversi e distanti da come funzionano i ragionamenti qui da noi, e si rifugiano tra le braccia morbide e rassicuranti degli assessorati e dei partiti politici. I Crass si sciolgono e vanno sotto processo. I Dead Kennedys vanno sotto processo e si sciolgono.
Il punk comincia a smettere di essere il suono della contestazione: adesso tirano certa roba elettronica da sballo e il metal, a breve toccherà al rap e all’hip hop ritrovarsi addosso gli artigli dell’industria. Un po’ dappertutto nei giornali musicali nelle radio e nelle fanzine viene fuori che il secondo disco degli MDC non è bello come il precedente, è altrettanto aggressivo sì ma meno brillante, meno interessante, meno suonato bene. Dicono lo stesso e anche peggio di quello successivo. Io stesso, su A/Rivista Anarchica, scrivo due righe prendendoli un po’ in giro.
E invece loro tengono duro e se ne fottono di tutti e anche di me e fanno bene, attraversano gli anni Ottanta e i Novanta e i Duemila, continuano ad autoprodursi e suonano e urlano in giro ancora oggi. Sono invecchiati sì, ma sono tutt’altro che patetici: le loro canzoni le vedo tutte come dei lumini di cimitero eternamente accesi giorno e notte anche sotto il temporale e la grandine. Servono a ricordare le vittime della brutalità. Servono a ricordare che la Resistenza va scritta maiuscola e non ha passaporto né confini, non invecchia né passa mai di moda, non cambia colore, non arrugginisce e ha radici lunghe che arrivano dappertutto.
Marco Pandin stella_nera@tin.it
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