Patti Smith – Horses: Per i peccati di qualcuno, non per i miei.
Riflessioni di Marco Pandin su Patti Smith e dintorni
Nel periodo tra la quarta superiore e il primo anno di università a Cà Foscari, cioè grossomodo fra il 1975 e il 1977, oltre che andare a scuola facevo qualche lavoretto saltuario al pomeriggio e nel finesettimana. Fattorino, commesso, magazziniere – roba da poco, rigorosamente in nero e sottopagata, ma che mi dava la possibilità di contribuire in casa e una minima disponibilità economica personale. Insomma, mi arrangiavo come al solito fra roba di seconda mano e roba rubata, ma potevo permettermi anche l’acquisto di un paio di scarpe, e qualche libro e disco nuovo. Appena usciti, ad esempio, ho preso i primi dischi di Patti Smith e dei Television: avevo letto di loro su qualche giornale inglese tipo Sounds o NME che un mio amico ogni tanto riusciva a fregare nelle edicole a Venezia e, stando a quanto si diceva, erano dischi “punk”. Quei dischi, cioè “Horses”, “Radio Ethiopia” e “Marquee moon”, a me piacevano parecchio: oltre che incuriosirmi mi sembravano roba buona diversa dal solito. E così da lì ho cominciato ad interessarmi alla scena “punk”, o almeno a ciò che veniva spacciato allora come tale: gente inglese come Elvis Costello e i Wire, o americana tipo Talking Heads e Mink de Ville – tutte cose che solo negli anni a venire avrei scoperto quanto poco c’entrassero col “punk”.
Il primo album dei Clash e “Never mind the bollocks” ricordo che li ho presi, usati praticamente niente, da un ragazzino di nome Ennio che bazzicava in radio e voleva sbarazzarsene. Erano dischi usciti in Inghilterra già da tempo ma che non si erano ancora visti nelle vetrine qui in zona: glieli aveva regalati una sua zia inconsapevole al ritorno da una vacanza a Londra – e un giorno Ennio ha avuto la pessima idea di trasmetterli durante il suo programma. Nel giro di neanche mezz’ora dall’esordio nell’etere veneziano di “White riot” e “God save the queen” gli sono piombati in studio i rocciosi compagni della redazione che, convintissimi che il “punk” fosse nientemeno che uno squallido fenomeno fascista, decisero a gran voce e in una manciata di secondi che quella merda doveva restare assolutamente fuori dalle onde della radio. La pensavano così praticamente tutti i miei compagni più vecchi: il “punk” era robaccia adatta alle discariche e alle fogne, persino la A/Rivista Anarchica lo riteneva un fenomeno esibizionista e consumistico del tutto privo di un qualche significato rivoluzionario.
La scenata e le urla in radio e tutta ‘sta storia non mi piacevano per niente. Non mi andavano giù quei giudizi sommari perché trovavo che il “punk” fosse una faccenda decisamente più complicata: i testi di Patti Smith e la chitarra di Tom Verlaine secondo me erano tutt’altro che immondizia fascista. Va però detto che i dischi dei vari gruppi “punk” che si potevano trovare allora nei negozi tipo Damned o Ultravox a me facevano cagare, o come minimo facevano pena. Clash e Pistols e tutti quelli come loro stavano col culo bene al caldo al riparo di grosse etichette discografiche, quelle stesse multinazionali che nel corso degli anni avevano venduto dischi rivoluzionari ai neri, ai pacifisti e agli hippy. Diffidavo del “punk” plastificato delle raccolte in offerta speciale, quello con le spille da balia e le borchie e le magliette strappate apposta, non ci trovavo dentro proprio niente. Per dire, per me i Sex Pistols erano solo una banale trovata pubblicitaria per vendere rock scadente suonato male: John Lydon tutto spettinato che diceva “fuck” in televisione e faceva le linguacce al fotografo era tutt’altro che un rivoluzionario trasgressivo. Peggio, era un cretino irrilevante e inconsistente: stavo misurando lui e il suo gruppo mettendoli a confronto con quell’idea di trasgressione che poteva avere un ventenne cresciuto in strada in un quartiere a rischio di una città industriale del nordest, abituato alle bestemmie e al piccolo teppismo, che riteneva eccitante andare a manifestare in piazza con i sassi e la fionda in tasca – e sto parlando di me. Trasgressione per me era quel coraggiosissimo “Low” di David Bowie con Brian Eno. Trasgressione erano i dischi di Ivan Cattaneo che ogni volta che ti azzardavi a mandarne un pezzo per radio la gente telefonava per protestare (ma si lamentavano anche se tenevi troppo in onda Terry Riley e Philip Glass). Trasgressione erano Dario Fo e Franca Rame, gli Area, l’OMCI, Lindsay Kemp, Frank Zappa ecco.
Punk (senza le virgolette) era però anche una mentalità nuova, una cosa che non sentivo completamente mia ma che mi attirava, un modo di pensare discutibile e magari non del tutto condivisibile ma che mi è servito a rivedere certe convinzioni, a ripensare certi atteggiamenti e che mi ha finalmente spinto a misurarmi con me stesso, a rivalutare le mie aspettative e le mie capacità e prendere finalmente in mano la mia vita.
Direi che tutto è partito da quella che è considerata dai più una cosa inutile – una poesia. Patti Smith, americana di Chicago, scrive “Oath” nel 1970, una coraggiosa dichiarazione d’indipendenza – la poesia inizia con una frase che nessuno in questa parte del mondo avrebbe ancora letto oppure ascoltato almeno fino al 1975: “Gesù è morto per i peccati di qualcuno, ma non per i miei” e prosegue con: “Cristo ti dico addio, stasera ti mando via”. Al suo primo reading alla St. Mark’s Church di New York, Patti legge “Oath” di fronte a un pubblico che comprende fra gli altri alcuni colleghi già affermati come Allen Ginsberg, Gerard Malanga e Jim Carroll ma la lascia fuori dal suo primo libro “Seventh heaven” del 1972, e anche dal successivo “Witt”. Il pezzo riemerge forse per caso durante le prove del gruppo rock che Patti aveva raccolto attorno a sé, Lenny Kaye e Richard Sohl. In sala prove, i tre attaccano con una cover di “Gloria” di Van Morrison per scaldarsi, il tempo di un mi basso e una frase sussurrata: Gesù è morto per i peccati di qualcuno ma non per i miei – il pezzo gli scoppia tra le mani, i tre appiccano un incendio. Lei diciamocelo negli anni successivi si è data un gran da fare con l’estintore e i secchi d’acqua ma da qualche parte il fuoco – quel fuoco – non si è ancora spento.
Succede che “Oath” finisce da queste parti, nelle periferie nordestine dell’impero, in una traduzione traballante dentro a un ciclostilato autoprodotto che circola sui banchetti di Stampa Alternativa, e comincia a far saltare una a una le valvole di anni di repressione nella provincia bianca. E’ successo in alcune case della mia città e dei dintorni, è successo nelle campagne e nei quartieri dormitorio dove neanche arriva l’autobus, è successo nelle isole della laguna, sui colli Berici, in Cadore, lungo la riviera del Brenta, nella Bassa friulana, a Merano, nelle valli del Natisone, a Gorizia, Udine, Trieste. E’ successo anche a casa mia: in poche righe spegne l’amaro in bocca delle gocce di paura sciolte nell’acqua che bevo ogni giorno, la vergogna e il senso di colpa polvere nera mescolata al pane. Mi viene improvvisamente voglia di andare via, di correre via, via da quel malessere, da quel sentirmi inadeguato, sporco, sbagliato. Patti Smith mi fa capire in due minuti che quell’equilibrio obbligatorio che regge la mia vita è saltato, che la normalità è solo un altro modo per costringermi a restare zitto e obbedire, e che il silenzio e l’obbedienza non sono cibo adatto a me.
Questa è “Free money”:
“Ogni notte prima di andare a dormire
Trovo un biglietto della lotteria e vinco
Ogni notte prima di poggiare la testa sul cuscino
Vedo un vortice di banconote intorno al mio letto
Oh piccola, per me sarebbe così importante
Tutti i nostri problemi sarebbero risolti
Via via via tutte le preoccupazioni
Sognare non costa niente
E allora sognamo sognamo sognamo
Sognamo tutti quei soldi gratis.“
Forse chi parla nella canzone non è proprio lei, ma è sua madre che sogna a voce alta. Patti cresce in una famiglia povera, proprio come la mia. Sono sicuro che anche i miei genitori abbiano riposto ogni tanto qualche briciola di speranza in un terno al lotto suggerito in sogno o in una schedina milionaria. Erano gente povera che lavorava e faceva fatica ad arrivare alla fine del mese, come le famiglie di tutti i miei amici e compagni di scuola. Sognare era bellissimo, era un divertimento che non costava soldi.
“Horses” esce negli Stati Uniti a metà dicembre 1975, di lì a breve viene stampato anche in Europa. Ho diciott’anni compiuti da poco. Ne trovo una copia in un negozio di dischi in campo san Barnaba a Venezia, gli do tutti i soldi che ho in tasca, porto il disco a casa. In copertina c’è lei fotografata dal suo amico e compagno Robert Mapplethorpe: racconterà diffusamente di loro molti anni dopo in “Just kids”, uno dei libri che mi ha affondato le dita nel cuore e mi ha fatto piangere.
In “Kimberly” Patti ricorda un episodio di poco successivo alla nascita della sorellina, quando lei aveva già dodici anni. E’ una storia di ordinaria miseria. La sua famiglia occupava una casa in un quartiere malsano di periferia, proprio davanti a un fienile abbandonato che una sera, durante un temporale, venne colpito da un fulmine e andò a fuoco. Cose che un bambino fa fatica a dimenticare.
“Il muro è alto, il fienile nero
La bambina in fasce è tra le mie braccia
E io lo so che presto il cielo si aprirà e i pianeti si sposteranno
Cadranno sfere di giada e la vita avrà fine
Sorellina, il cielo sta cadendo
Non importa
Non importa
Sorellina, il destino ti sta chiamando.“
Insomma, Patti Smith mi aveva proprio preso: era più vecchia di me di dieci anni, idealmente la vedevo come una specie di sorella maggiore ribelle che era scappata di casa e che era ritornata una notte per raccontarmi i segreti di famiglia e farmi aprire gli occhi. Lei mi offriva a piene mani collegamenti e rimandi e connessioni tra la ribellione del presente e quella che c’era stata prima e quelle ribellioni di ancora prima – per me è una pacificazione nella ribellione, è un trovare posto nella corrente.
Quelli che dentro le canzoni e dentro ai libri avevano diciott’anni come me pensavano di poter stringere la propria vita fra le mani, pensavano di essere immortali. Non c’era posto per la morte nei nostri pensieri, e invece nel mio quartiere ho visto i padri dei miei amici ammazzarsi a forza di bere per dimenticare la fabbrica, e di fabbrica morire. E, peggio, ho visto i miei amici e i miei compagni morire di eroina. Me li ricordo ancora seduti nel parco a sorridere inseguendo musiche che soltanto loro potevano sentire. La mattina li trovavi appoggiati agli scalini dei casermoni, gli occhi chiusi come se dormissero.
Questa è “Elegie”, scritta per Jimi ma anche per Janis, per Jim, e ne sono sicuro anche per Dimitri, per Marco per tutti i miei compagni che se ne sono andati via troppo presto e troppo male:
“Proprio non so cosa fare stasera
Mi fa male la testa mentre bevo e respiro
La memoria scende come crema fra le mie ossa
Mi muovo da sola
Ci deve essere qualcosa che posso sognare stasera
L’aria è piena dei tuoi movimenti
Tutto il fuoco è congelato ma ho ancora la volontà
Trombe, violini – li sento in lontananza
E la mia pelle emette un raggio
Ma penso che sia triste, fa troppo male
Che i nostri amici non possano essere oggi qui con noi.“
Nel settembre del 1979 Patti Smith viene invitata alla Biennale di Venezia ed io mi ritrovo con una mia compagna di radio a rincorrerla per le calli per poi restare chiusi fuori della porta al reading: ci voleva un invito per entrare, o forse era solo una bugia perché ci togliessimo dai coglioni. Andiamo in treno da Mestre a Bologna in branco un giorno o due dopo. Il suo concerto è una celebrazione di anarchia e libertà, un’emozione che non dimenticherò mai: hanno iniziato con “So you wanna be a rock’n’roll star” dei Byrds e poco dopo hanno fatto “All along the watchtower” di Bob Dylan, offrendoci un collegamento assolutamente esplicito con la contestazione di dieci anni prima, quella dei nostri fratelli maggiori. Il giorno dopo suonano a Firenze, ma io non posso andarci perché non ho trovato nessuno disposto a darmi un cambio turno al lavoro. I miei amici – tutti disoccupati – ci vanno, e mi raccontano che il concerto stavolta è iniziato con “Gloria”, ma le parole all’inizio Patti le ha cambiate: “Jesus died for somebody’s sins, why not mine?”. Gesù è morto per i peccati di qualcuno, perché non per i miei? E che cazzo. Dunque a bestemmiare sono rimasto ancora da solo. Lasciami stare, dai. Vattene. Patti io ti dico addio, stasera ti mando via.
Articolo di Marco Pandin, stella_nera@tin.it
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