Black and White image of a Poison Gilrs' concert

Poison Girls: Il controllo dello stato e il rock’n’roll

Marco Pandin ci racconta la musica e le idee delle Poison Girls

A partire dalla tarda estate del 1979 ho avviato, dapprima spinto dalla curiosità poi per un forte senso di identificazione ed appartenenza, un rapporto stabile di corrispondenza con gli anarcopacifisti inglesi Crass. Allora viaggiare, i fax e le telefonate costavano parecchio e la posta mi offriva l’unica possibilità a buon mercato per stabilire e mantenere dei contatti.

In una lettera da Dial House un giorno mi segnalano che c’è Diavlery Productions, un collettivo di Bologna con cui stavano collaborando: erano dei punks che distribuivano in Italia i dischi della Crass Records e di altre piccole etichette del giro anarchico e indipendente inglese, e sicuramente prenderli da loro mi sarebbe costato meno che in un negozio. Nella lettera c’è scritto un numero di telefono, chiamo e mi risponde Giampi – è molto gentile, disponibile ed allegro ma si fa un po’ fatica a capire cosa dice perché parla a raffica. Pare sappia un mucchio di cose interessanti, roba che da noi in provincia nel nordest sarebbe arrivata a diffondersi dopo, tardi, forse, oppure mai. Così ci si mette d’accordo e dopo un po’ con un mio amico di Murano un giorno spacchiamo il salvadanaio dei risparmi per fare provvista di dischi, prendiamo il treno fino a Bologna e poi l’autobus e arriviamo alla vecchia sede storica degli anarchici, il cassero di porta Santo Stefano. Giampi, anzi Jumpy, è come me lo immaginavo: un po’ più giovane ma più sveglio di me, sorridente, magrissimo, parla praticamente senza pause per respirare. Ogni tanto viene fuori con qualche frase delirante delle sue, ma complessivamente è uno a posto, è proprio simpatico e mi piace. La Tiziana e Walter, due compagni carissimi del circolo Berneri che avrei poi incontrato per decenni alle riunioni della redazione di A/Rivista Anarchica, ci guardano sornioni. L’angolo occupato dai punks è praticamente un mucchio di scatoloni con dentro dei dischi, delle cassette e dei pacchi di carta: tutt’altro che un negozio, figuriamoci, è piuttosto un posto informale dove devi arrangiarti a trovare quello che vuoi e un po’ di spazio per te in mezzo al casino, e puoi restare là a tempo indefinito a chiacchierare, ascoltare musica e sfogliare fanzine, guardarti intorno e osservare la fauna multicolore che passa e staziona e poi se ne va. Lì incontriamo Carlo e la Laura, così cari e gentili e buoni anche loro, tutt’e due con Jumpy nei Raf Punk – che allora nel nostro giro a Venezia conoscevamo solo per via di qualche volantino e per la contestazione al concerto dei Clash in piazza Maggiore, e che per questo consideravamo un gruppo mitico anche se non avevano ancora registrato neanche una canzone.

Dai nostri giri di perlustrazione in squadriglia e in solitaria a Milano Torino Roma e Bologna ci siamo accorti presto che le cose a casa nostra nel nordest per noi provinciali emarginati e disgraziati funzionavano in maniera diversa che nelle grandi città. Innanzitutto non avevamo una qualche identità di branco da sbandierare e difendere, quanto un bisogno individuale profondo e importantissimo di stare insieme, di stringerci, di non sentirci soli. Questo veniva ad azzerare l’attrito tra le nostre diverse preferenze in fatto di gusti musicali, di abbigliamento, di letture, di stile. In pratica ognuno si vestiva e si truccava e si pettinava come voleva e questo non era un problema per nessuno, e quando ci si ritrovava per un concerto collettivo succedeva che il palco venisse pacificamente condiviso da gruppi che suonavano punk, dark, elettronica, roba di ricerca e addirittura rockblues, reggae e sconfinamenti verso il jazz senza che nessuno avesse qualcosa da ridire. Rockgarage, la nostra fanzine veneziana, non c’entrava un cazzo con le cose che facevano i punks a Bologna ma a dirla tutta non c’entrava un cazzo neanche con le altre che venivano stampate dai vari gruppi, sia punk che non punk, nelle diverse città italiane. Eravamo un collettivo del tutto informale ed elastico: c’era chi si aggregava e restava un po’ e poi spariva e magari tornava a farsi vivo, non dovevamo seguire nessuno né rispettare scadenze, obblighi, impegni, men che meno assecondare i tiramenti di culo di qualcuno affamato di protagonismo. Bestie giovani e selvatiche, diffondevamo controcultura in via orizzontale e inconsapevolmente anarchica: nessun caporale da seguire, nessun centro organizzativo cui fare rapporto, nessun negozio da mandare avanti. Approfittando dei bei discorsi sulla cultura giovanile che allora riempivano le bocche degli assessori a Cà Farsetti un giorno abbiamo provato ad alzare la voce: abbiamo preteso e siamo riusciti a utilizzare degli spazi pubblici in terraferma per organizzare concerti, incontri, performance, mostre di fumetti e grafica, rassegne di video, tutte cose che in zona non c’erano mai state e delle quali avevamo un improvviso ed urgente bisogno. Ogni iniziativa che abbiamo messo in piedi è stata un successo e non si è mai verificato un benché minimo incidente. Chiaro che ci avevano scambiato per dei ragazzi a modo. La cosa è durata finché in municipio qualcuno si è preso la briga di avventurarsi oltre la copertina della fanzine: da allora abbiamo incontrato solo il silenzio di referenti perennemente fuori ufficio.

In quei tempi senza internet e senza posta elettronica oltre che con i Crass, avevo scambi di corrispondenza frequenti con un sacco di altre persone e gruppi musicali, fanzinari, appassionati, musicisti anche all’estero. Uno di questi era Daniel, che si è fatto vivo con me dopo aver preso un paio di numeri di Rockgarage al negozio londinese di Rough Trade: lo colpiva il fatto che avessi tradotto i testi delle Poison Girls, il gruppo anarcopunk dove, mi spiega, suonavano sua madre Vi e il suo compagno Lance. Nei primi tempi, era ancora praticamente un ragazzino, Daniel stesso aveva suonato nella band, prima di cambiarsi il nome in Pete Fender e formare gli Omega Tribe. Questa cosa mi prende alla sprovvista e mi diverte parecchio: non mi ci vedo proprio a suonare con mamma e papà in un gruppo punk… Al tempo girava un flexi con questa canzone delle Poison Girls: non era affatto roba ballabile o consumabile, anzi era proprio difficile riuscire ad ascoltarla fino alla fine tanto era disperata e sanguinante, ma il testo mi ha fatto inaspettatamente vedere i miei genitori sotto un punto di vista del tutto nuovo. Mi riferisco a “Statement”, e Vi è una madre che urla contro il cielo. Eccone un assaggio:

Io denuncio il sistema che assassina i miei figli

Denuncio il sistema che nega la mia esistenza

Maledico il sistema che rende macchine i miei figli

Rifiuto il sistema che trasforma gli uomini in macchine

In mostri imprigionati di ferro, acciaio e guerra

Che trasforma i miei figli in artigli di robot

Respingo il sistema che fa rivoltare

il cuore dei miei figli contro questa terra

Maledico il sistema che trasforma i genitali dei miei figli

in fabbriche di fuoco e distruzione

e violenta la nostra carne

strappa il nostro utero e questa terra, casa nostra

Non ci sono parole

Per noi

Niente parole.

Vi sarebbe Vi Subversa – il soprannome della mamma di Daniel, il suo nome vero era Frances Sokolov. Una lettera V messa sottosopra per farla somigliare alla A di anarchia, un po’ come fa anche Fabrizio de Andrè con la mano sulla foto in copertina di uno dei suoi ultimi dischi. Le canzoni femministe e pacifiste e terribili e trasversali di Vi suonavano proprio strane: non erano zuccherini borchiati né inni punk di facile digestione, mi sembravano piuttosto un coming out liberatorio di stracci colorati e consapevoli da indossare per strada con disinvoltura. I testi ti guardavano dritto in faccia e spingevano molto sulla felicità, sul crescere e prendere coscienza, sulle contraddizioni, sullo sganciarsi dai condizionamenti, sul rapporto tra ragazze e ragazzi. Ero inciampato nelle Poison Girls e nelle loro canzoni tramite i volantini che mi spedivano i Crass. Nei primi anni di attività, a metà anni Settanta, erano un collettivo teatrale sperimentale di base a Brighton, dal teatro poi si erano progressivamente spostati al fare canzoni e avevano deciso di trasferirsi a Londra. Lì avevano fatto amicizia con quelli di Dial House e suonato insieme ai Crass in alcuni concerti a sostegno del CND, e sempre insieme avevano realizzato uno split single per raccogliere fondi per l’Autonomy Centre di Wapping, uno dei primi tentativi di far coesistere in uno stesso centro culturale degli anarchici e dei punks. Insieme avevano organizzato anche l’occupazione del Rainbow Theatre di Londra, durata poche ore e finita sotto le manganellate della polizia, e con una manciata di altri gruppi l’occupazione successiva del Zig Zag Club per il primo concerto anarcopunk collettivo dopo la guerra delle Falklands. Coi Crass un giorno andò a finire che litigarono, per via di un contributo scritto di Vi ritenuto inadatto a comparire su una compilation animalista e filovegetariana prevista in uscita per il 1983 – un progetto che rimase in sospeso per un po’ e alla fine neanche venne portato a termine.

Con Daniel ci si scrive ogni tanto e quando un giorno gli telefono per dirgli che passerò qualche giorno in Inghilterra e che sarebbe bello vedersi, mi risponde sua madre: ah sì, Marco il veneziano, Dan adesso non c’è ma tu vieni comunque, in quei giorni suona in giro col suo gruppo, suoniamo a Londra anche noi, dai vieni a trovarci ciao caro ciao. Parto da Venezia imbucato in una comitiva di turisti, e a metà giugno del 1983 ci incontriamo: gli Omega Tribe hanno organizzato una festa musicale in un piccolo centro giovanile in Adelaide Street assieme ai Lost Cherrees e al Wet Paint Theatre – un concerto senz’altro interessante, ma la serata è funestata da un’ignobile aggressione fascista che racconterò su Rockerilla innescando un po’ di agitazione nel mio abituale giro di posta, nel mezzo anche qualche testa di cazzo che scrive messaggi anonimi minacciosi. Fanculo. Il giorno dopo le Poison Girls suonano all’Ace di Brixton. Alla biglietteria del locale ho una bella sorpresa: scopro che mi hanno messo in cima alla guest list, mi danno un backstage pass e mi fanno entrare. Vi mi accoglie a braccia aperte e mi presenta agli altri come un caro amico del figlio. In una manciata di secondi ho una birra in una mano, un panino nell’altra e una mezza dozzina di persone intorno che mi chiedono cose. Gli faccio presente che avevo portato con me un registratore per intervistare loro, e sta succedendo invece l’opposto. Ci mettiamo tutti a ridere.

– Lance, perché hai iniziato a suonare con le Poison Girls?

Lance – Perché al tempo ero l’amante della cantante del gruppo e non avevo niente di meglio da fare che seguirla nelle sue pazzie dentro e fuori del letto.

– La maggior parte dei vostri fans è molto giovane. Come impostate il rapporto con chi, per differenza di età, potrebbe essere vostro figlio?

Vi – Agli inizi i ragazzi venivano ai nostri concerti credendo di avere a che fare con dei teenager e rimanevano sorpresi nel vedere me e Lance sul palco. Conoscevano le nostre canzoni ma si aspettavano una cosa ben diversa: i ragazzi vedevano proiettate in noi le figure del genitore eccentrico o del professore di scuola rivoluzionario. Poi hanno dovuto ricredersi.

Racconto diffusamente del concerto e pubblico l’intervista nel numero di Rockerilla che esce a novembre 1983. Che ricordi meravigliosi, e non mi riferisco solamente all’esibizione. Quando Vi e Lance mi abbracciano è proprio come respirare l’aria di casa: sento che mi vogliono bene, che ci tengono, che sono contenti che io sia lì, che pensano di fare la cosa giusta e che la sto facendo anch’io. La mamma di Dan ha avuto lui e la sorella a distanza breve, era ancora piuttosto giovane e si è ritrovata a doverli crescere da sola. La mia storia familiare è diversa, e gliela racconto. Lance del gruppo è il batterista, ma è soprattutto l’anima creativa. Col suo modo di fare sornione un po’ somiglia a mio padre: mi guarda di traverso e sorride, è così premuroso e gentile con me, curioso ed attento nell’ascoltare le mie domande e incredibilmente fuori di testa nelle sue risposte, che farcisce di battute e risate. Un umorismo graffiante che mi lasciava dentro il segno: era la sua maniera di insegnarmi a tenere alta la testa, a non mollare, a non avere paura – proprio come faceva mio padre. Questa è “Don’t go home tonight”, una canzone che ogni volta mi suggestionava e dava una bella rimescolata radicale ai miei dubbi e alle mie indecisioni, e che ancora oggi mi mette addosso un certo malessere per tutti quei sogni finiti in briciole. Allora si pensava davvero che le canzoni, certe canzoni, potessero riuscire a cambiare il mondo.

Sei figlio di un amico dello stato?

Succhi le tette ad un’amica dello stato?

Vai a lavorare per un amico dello stato?

Ammazzeresti tuo fratello per conto dello stato?

Non andare a casa stanotte

Ci vai a letto con gli amici dello stato?

Gli amici dello stato ti fanno mangiare e bere?

Succhi il cazzo ad un amico dello stato?

Non andare a casa stanotte

Sei stato convinto da un amico dello stato

che ti ha offerto sicurezza e libertà su un piatto d’argento?

E ti ha truffato consegnandoti un’uniforme

e ti ha insozzato con le sue bugie

quando hai tentato di trovare la tua strada aprendo gli occhi?

Non andare a casa stanotte.

Vi, Lance e le Poison Girls non erano mica solo canzoni tristi, problematiche e devastanti, ogni tanto gli scappava dalle mani e dalle teste un pezzo corrosivo da classifica – indie, sia chiaro. In radio mettevo spesso questa, perché è un testo fin troppo intelligente imbastito sopra a un rock’n’roll semplice che fa subito presa e sopra cui in alternativa al pogo si può persino ballare il twist. Si chiama “State control”:

Il controllo dello stato e il rock’n’roll

sono in mano a gente intelligente

Quello che fanno è vendere, e vendere bene

così i prezzi salgono

Il controllo dello stato e il rock’n’roll

sono in mano a gente intelligente

Quello che sapete è quello che vi hanno mostrato

e tutto ricomincia daccapo

Il controllo dello stato e il rock’n’roll

sono in mano a gente intelligente

I politici sono fichissimi e le guerre sono ritornate di moda

Il controllo dello stato e il rock’n’roll

sono in mano a gente intelligente

La rivoluzione è la moda di quest’anno

siamo ancora a manifestare per le strade

Il controllo dello stato e il rock’n’roll

sono in mano a gente intelligente

Tutto va bene per vendere e noi siamo ancora in classifica

Tu sai bene che è tutto vero, ma cosa si può fare?

Cercare una via di fuga per scappare

E’ un circolo vizioso

Prova a uscire

Uscire dalla trappola, uscire dalla noia

Tu sai bene che è tutto vero, ma cosa si può fare?

Pensa e ripensa mentre te ne stai steso sul letto

Un circolo vizioso che cerchi di spezzare

Uscire dalla trappola, uscire dalla noia

Tu sai bene che è tutto vero, ma cosa si può fare?

Perché quello che senti è una sensazione reale

Non è la moda di quest’anno

Non è la moda dell’anno scorso

Non è la novità di quest’anno

Non è la novità dell’anno prossimo

Loro ti costruiscono, loro ti distruggono

E tu sei ancora disoccupato

Il controllo dello stato e il rock’n’roll

sono in mano a gente intelligente

E l’anarchia è la moda di quest’anno…

Nel 1984 hanno autoprodotto l’album doppio “7 year scratch” per festeggiare i sette anni passati a cantare sulla strada: ci hanno messo dentro una manciata abbondante di pezzi presi dai loro vari dischi, un paio di vecchi demo e un intero disco di registrazioni dal vivo. So che in questi ultimi anni i loro album e singoli sono stati raccolti in cd antologici e ristampati più volte, ma a me piace riprendere ogni tanto le vecchie copie del vinile di allora, quelle che ho quasi consumato ma che ho conservato con affetto. Che strano, ascoltare le canzoni delle Poison Girls mi fa venire nostalgia dei miei genitori, che non ci sono più da oltre trent’anni.

La cosa che ho fatto meno volentieri nel lungo periodo in cui ho collaborato con A/Rivista Anarchica è stato scrivere due righe per segnalare che Vi e Lance se n’erano andati, perdite avvenute circa a un anno di distanza nel 2016 e nel 2017. Quei due in mezzo a noi giovani anarchici erano felici: erano di quelli che da qualche parte dentro in testa avevano continuato ad avere sempre vent’anni. Di quelli da cui impari un mucchio di cose, senza che si mettano lì a insegnarti o spiegarti qualcosa di proposito. Se vi capita, andate a riascoltare qualche loro vecchia canzone: vi sorprenderà senz’altro la voce di Vi, voce di volpe e di corvo, ma fate caso a Lance con quei suoi colpi inossidabili sui tamburi – ciascuno una martellata vibrata con gioia alle fondamenta del sistema, sempre una risata addosso, sempre uno sberleffo da sputarti in faccia. Anarchici, ribelli e sognatori hanno tutt’e due arricchito il mondo della loro meravigliosa poesia, del loro amore e del loro sconfinato senso di pace.

Articolo di Marco Pandin, stella_nera@tin.it

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