“Porta a Porta”: Racconto di sopravvivenza tra lavori futili, colleghi senz’anima e camere in affitto
“Porta a Porta” è il racconto vincitore del premio letterario Bukowski 2023 a cura di Davide, cantante degli Zeman e chitarrista dei Cesoia
Ambientato a Bologna, “Porta a Porta” è il racconto che vi presentiamo. Il titolo rimanda al lavoro descritto dall’autore, e con esso, come leggiamo nelle motivazioni della giuria per il primo premio: “La morte in vita, le ore assassinate da un lavoro incolore che umilia e seppellisce ogni aspettativa, la solitudine… l’autore fa muovere l’io narrante in una società arida abitata da esseri lobotomizzati lontani anni luce dal vero significato dell’esistenza”.
Davide, l’autore, torna a presentarci questo racconto dopo aver pubblicato sempre sul nostro sito anche il racconto con cui arrivò terzo al premio Bukowski 2021.
Buona lettura!
Mi ero appena trasferito a Bologna, avevo bisogno di trovare un lavoro, niente di pretenzioso, qualcosa che mi assicurasse un tetto sulla testa lasciandomi libero il sabato e la domenica. Risposi ad un annuncio, si cercano venditori face-to face, fisso mensile di 500 euro più provvigioni, dal lunedì al venerdì, non si trattava di nulla di buono, il giorno dopo mi presentai all’ufficio per il colloquio. Partii dalla Bolognina, dove avevo trovato un posto letto in una tripla fatiscente, sarei dovuto arrivare con l’autobus in Via Lame ma l’unica cosa che sapevo di quella città veniva dalle cronache del ‘77 e da qualche parola di Dante. Nulla che potesse essermi d’aiuto. Sbagliai fermata. Maledissi il mal seme d’Adamo, scesi, ed iniziai a camminare sotto la pioggia scrosciante.
L’ufficio stava al quarto piano di un condominio anonimo, di fianco al portone d’entrata notai un bar, dentro dei vecchi sbraitavano contro il tempo ed il governo bevendo bianchini soporiferi, avrei voluto essere al loro posto: con le gote rosse, i maglioni stropicciati, i capelli posticci e la consapevolezza di essere stati presi per il sedere, una gamba qua, una gamba là. Sopra i tavoli stanchi carte da gioco inermi perpetuavano il rito stucchevole che il caso aveva loro assegnato, feticci usurati a tal punto che le fantasie sul mazzo erano pressoché indistinguibili. Sotto le mani che nascondevano avide i semi gli assi erano scemati in quattro e gli otto erano stati promossi a nove, la superficie un tempo morbida e liscia era ormai divenuta secca e rugosa, come i lineamenti di quei visi scavati dagli anni.
Salii. La segretaria mi fece accomodare in un salottino. Occhiali con due lenti grosse come fondi di pinte. Pessime sigarette. Alito di caffè. Denti bianchi. Capelli neri. Indumenti verde pallido. Tratteneva il respiro. Ad ogni passo si concentrava sulla postura rigida che nascondeva una falsa immagine d’autorevolezza. Il destino l’aveva ingannata, o almeno così le piaceva pensare. Aveva sognato di lunghi viaggi verso lidi ignoti su acque cristalline, di venti così forti da far impallidire l’otre di Eolo, di notti infinite come il cielo d’estate. Si convinse d’aver amato ed esser stata amata, un tempo, mentre ora si sentiva fraudata dalla vita che qualcuno aveva scelto per lei, come una monaca, come una serva, come Emma Bovary dopo la prima notte di nozze.
Mi sedetti su di un divano di pelle nera, sentivo freddo, gli abiti erano umidi, non volevo stare là. La segretaria chiamò il mio nome, entrai nella stanza dove sedeva il capo, Minosse si cingeva il bacino con la coda. Bacato. Il padrone di quella società di vendite era alto un metro e ottantacinque all’incirca, longilineo ma con una pancetta flaccida che premeva contro i bottoni della camicia, troppo stempiato per poter impersonare il viveur che avrebbe desiderato essere. Sospiri pianti ed alti guai risuonavano nella mia testa. Cresciuto nell’azienda di famiglia che sfornava bulloni in Veneto, ammagliato dall’idea dell’imprenditore che gestisce tutto da qualche paese esotico, aspirava a diventare un businessman da copertina, con le donne e le macchine sportive in bella mostra, ma l’unica cosa del genere di cui disponeva era un pessimo calendario con la foto di un’Alfa e di una ragazza semisvestita sulla parete alle sue spalle. Si trattava di avere successo. O Almeno darne una parvenza.
Stetti a sentire solo la parte in cui mi diceva che il fisso, per i primi quattro o cinque mesi, era assicurato indipendentemente dai risultati, dovevo vendere dei contratti porta a porta, dopo il tredicesimo contratto si aveva diritto ad una provvigione. Cristo non sarebbe mai risorto per quel tizio in giacca e cravatta. Due bicchieri in una enoteca la sera davanti a una sconosciuta. Il falso è un momento del vero nell’etica rovesciata. Le dice che è il manager di una società di marketing. Fatture, soldi a palate, due pence. Immaginai Dedalus scendere dalla torre, Leopold Bloom affettare una bistecca bruciacchiata, Penelope disfare la tela. Ripresi ad ascoltarlo:
“Come ti vedi da qua a due anni? Abbiamo bisogno di ragazzi ambiziosi, focalizzati sull’obiettivo. Senti, mah… cosa ti ha portato qui?” Mentii per avere quel posto. Dissi che ero in cerca di una posizione dinamica che mi offrisse sicure possibilità di crescita e guadagno. Quello che si aspettavano sempre di sentir dire. Mi avrebbero fatto sapere loro. Solita formula standard.
Uscii dall’ufficio. Avevo quattrocento euro sul conto, venticinque anni e nessuna idea di come si mettessero insieme i pezzi di un romanzo. Centellinavo ogni spesa, ogni acquisto singolo, mi bastavano una scatoletta e una confezione di passata di pomodoro per resistere. Leggevo Stirner e Debord, tenevo d’occhio sempre le offerte, recuperavo quanti più volantini potevo dai supermercati e li studiavo meticolosamente a casa, sopra il tavolo della scrivania, come un futuro procuratore che prepara l’esame di stato. Comprai una bottiglia di vino bianco frizzante e una confezione da sei di birre, mi sdraiai sul letto ed iniziai ad aspettare la telefonata. Quando mi chiamarono ero già avanti con il bere. Avrei cominciato la mattina seguente.
L’ufficio, il medesimo dove avevo fatto il colloquio, era composto da tre stanze: una per il boss, una per la segretaria, ed una più grande dove si tenevano le riunioni e la formazione. Quando arrivai erano già tutti nella sala grande, i miei futuri colleghi (ventidue individui, quattro o cinque donne, tutti tra i venti e i trentacinque anni), in cerchio, attorno al capo. Avevo la nausea e il mal di testa. Prima di uscire di casa avevo vomitato. Un post sbronza come tanti. Mi salutarono con affetto, tutti in coro, avevano i sorrisi più fittizi che avessi mai visto. La pantomima che ogni mattina ero costretto ad assistere prima di iniziare il giro delle vendite era una specie di corso di formazione misto a lezioni sull’autostima. Credi in te stesso, volere è potere ed altre cazzate di bassa lega per dei sempliciotti del settore commerciale. Eterno ritorno quotidiano, Nietzsche in confronto era un novellino.
I primi tempi mi mandarono in affiancamento con quelli più esperti, tutto sommato era abbastanza comodo, io non dicevo nulla, li accompagnavo su per le scale di palazzi di interi isolati, bussavamo a centinaia di porte, “buongiorno noi siamo di …” godevo quando ci mandavano a fanculo, quando ci insultavano, quando non ci aprivano. Mi piaceva vedere la frustrazione sul viso di quegli idioti con cui andavo in giro casa per casa, per loro era come una missione divina, la consacrazione del self made man, si sentivano come Giasone alla ricerca del vello d’oro o come Mosè a spasso per il deserto verso Eretz Israel. Rimanevano soltanto migliaia di scalini, porte chiuse in faccia, l’indifferenza più totale, il freddo che al calar del sole entrava nelle ossa emanato dalle luci bluastre dei teleschermi dentro finestre di immensi quartieri dormitorio. Nell’oscurità vespertina delle 18 e 30, tra siepi vialetti e cancellate, mi trascinavo indolente per avere un minimo di cui poter mangiare. Eravamo dei poveracci a cui era stato sottratto qualcosa, solo che pochi ne avevano coscienza e nessuno, me compreso, sapeva come fare per riconquistarlo.
Quando vedevo rincasare la gente dall’ufficio, dalla fabbrica, dai call center, capitava spesso che mi fermassi a pensare alla città in cui ero nato e cresciuto, al di là del mare, lontana seicento chilometri, cosa ci facevo qui? In quei momenti sentivo le forze abbandonarmi, non ero in grado di suonare neanche un altro singolo, bieco, tristissimo campanello. Così mi sedevo in disparte nascosto nei meandri di qualche giardino ben curato, e stando attento che nessuno mi vedesse, riflettevo su quale fosse il significato di tutta questa sofferenza che ogni giorno dovevo combattere. Non vi era un verso univoco e stabile nella mia vita, ma una curva sinusoidale i cui picchi erano i momenti più drammatici ed imbarazzanti a cui ero sottoposto a causa di questi lavori patetici. Le suole delle mie scarpe si liquefacevano sopra l’asfalto bollente o sotto la pioggia torrenziale, mangiavo un panino che preparavo la mattina e bevevo una bottiglietta d’acqua che mi portavo in una borsa a tracolla, la sera verso le nove e mezza ritornavo a casa dopo venti minuti di autobus, aprivo una birra e mi stendevo sul letto sfatto, usurpatore.
Le prime settimane passarono lisce, mi limitavo a stare dietro ai tizi con cui mi mandavano in affiancamento, i momenti che mi terrorizzavano di più erano le pause pranzo, l’andata e il ritorno in autobus dall’ufficio. Queste erano le circostanze in cui ero costretto a socializzare con individui che avrei facilmente scansato se avessi visto venire verso di me per strada, o che avrei minacciato di morte dentro qualsiasi locale. Definirli mediocri era un complimento: erano soddisfatti a tal punto di quello che facevano che l’avrebbero fatto per sessant’anni. Il lavoro onesto pagava bene, non esageravano mai, nei commenti così come nei gesti, mai un bicchiere di troppo che li coprisse di ridicolo, abiti insignificanti comprati da Zara, Oviesse, HM, durante miti domeniche autunnali.
Erano tutti uguali. Il grigio era il loro colore dominante. Non ricordo una sola faccia. Avevano sempre un compagno o una compagna da cui ritornare con cui stavano insieme da almeno dieci anni, parlavano delle prelibatezze della loro terra d’origine, io mangiavo qualsiasi cosa non superasse i due euro. Conoscevano amici divertentissimi con cui passare il sabato sera in pizzeria. Aperitivo era la loro parola d’ordine, non si occupavano di politica ma davano per buone le verità di qualsiasi televisione o news che gli passasse sotto mano. Ogni mattina di fronte a me questa cerchia di ignavi perpetuava l’inganno da cui erano stati soggiogati fin dalla culla, e i padri e le madri prima di essi avevano firmato un patto con Mefistofele per avere in dono l’aurea mediocritas. L’anima in cambio della stabilità, succubi del denaro e della rappresentazione di esso (case, macchine, tute da ginnastica fluorescenti), erano divenuti stanchi echi delle reclame pubblicitarie, il volgo timoroso ed educato travolto dalla fiumana del progresso. Con il passare del tempo iniziarono a prendere confidenza gli uni con gli altri, dopo il lavoro si trattenevano parlando della giornata appena trascorsa prima di salutarsi per ritornare nuovamente allo scialbore delle loro cene in scodelle di pessima fattura.
Il peggio sopraggiunse quando cominciarono ad invitarmi agli aperitivi il venerdì sera, alle serate in pizzeria il sabato, alle grigliate la domenica a pranzo, si portavano spesso un amico o un’amica che non aveva mai visto nessuno, e nell’imbarazzo generale i discorsi cadevano sempre sulle più banali e insipide domande tipiche dell’eloquio di due sconosciuti alla fermata dell’autobus: “Studi o Lavori? Hai notato abbiamo un’amicizia in comune, per le vacanze quest’anno abbiamo scelto la Sardegna, la Sardegna è bellissima, ci sono stata una volta l’anno scorso, in quel paese, sicuramente lo conosci, sono tutti così ospitali”. E poi ancora l’ultimo film, l’ultima canzone, l’ultimo libro di qualche autore contemporaneo che aveva scritto un romanzo sul sesso, sulla moda, sui maghi, sui vampiri, mentre io leggevo solo di pazzi e suicidi spirati da tempo. Erano critici letterari, esperti di medicina, opinionisti sportivi, enologi raffinati, cuochi provetti. Avevano dei piani precisi per l’avvenire, sul procinto di andare a convivere o comprare un appartamento, per loro il futuro non aveva segreti.
Il mio non esisteva, mi trovavo su di una linea perfettamente circolare in cui il punto d’inizio coincideva con quello della fine, ed il moto convulso e caotico che animava gli anni miei non era altro che un momento di immobile silenzio nel punto più gelido e sperduto dell’universo. Dal venerdì, non appena staccavo dal lavoro, fino alla domenica sera, mi trascinavo di bar in bar accumulando miseria su miseria, povertà su povertà: pugni nello stomaco, sangue sui vestiti e sulle nocche, sopraccigli aperti, disegnavano il continuum del vortice di agonia e disperazione dentro il quale ero intrappolato a causa della prigionia che iniziava ogni lunedì mattina. Recuperavo quante bottiglie potevo rubandole da dietro banconi zeppi di perfetti damerini intenti a tessere le proprie lodi nel tentativo di portarsi a letto ingenue studentesse appena arrivate in città. Chiedevo gli avanzi alle pizzerie, prendevo whiskey, birra, vodka e fuggivo senza pagare, venivo regolarmente buttato fuori da ex-criminali dell’est grossi come armadi, ora paladini della sicurezza privata.
Quando andava bene, la domenica mattina, mi risvegliavo nel letto di una sconosciuta, quando andava male, il più delle volte, aprivo gli occhi e sentivo sapore di sangue e succhi gastrici, allungavo la mano, fuori dal mio letto senza lenzuola, e tastavo il pantalone per controllare se il portafogli e il telefono vi fossero ancora. Ero un pastore errante sul Golgota della vita, ma il cielo sopra di me era troppo scuro perché potessi vederne la luna. Ad ogni invito che i miei probi colleghi mi propugnavano cercavo di rispondere con le scuse più plausibili che riuscissi a formulare, ma con il susseguirsi delle settimane cominciarono a capire che non avevo alcun interesse per le loro battute, per i discorsi sul tempo, sui fatti di cronaca, sulle opportunità di carriera, su quel lavoro, su qualsiasi lavoro. Mi isolarono. Ero lo strambo, il solitario, l’apatico, l’egoista.
Dopo tre o quattro settimane iniziai a lavorare in totale autonomia, partivamo dall’ufficio per andare a coprire interi quartieri, ci dividevamo in coppie a cui veniva data una cartina con le vie e le strade da battere, suonavamo qualsiasi campanello: abitazioni, agenzie immobiliari, pompe funebri, studi dentistici, boutique, ristoranti. Nonostante lavorassi in coppia non stavo quasi mai con il mio compagno o la mia compagna, preferivo dividermi fin da subito così da poter gestire la zona a mio piacimento. In realtà appena ero sicuro di essere al riparo dai loro sguardi inquisitori cercavo un posto nascosto in cui appartarmi e togliere le scarpe, avevo bolle grosse come noci ai piedi, tuttavia non potevo stare seduto per molto tempo, il freddo dei sottoscala e l’umido dei giardini mi avvolgevano come una coperta, intorpidivano i miei arti, annichilivano il mio cervello.
Andò avanti più o meno così per cinque mesi, tra porte chiuse in faccia, insulti, minacce, l’indifferenza e il buon umore immotivato di tutti i miei colleghi. Ricordo di una volta in cui mi persi. Stava piovendo a dirotto, avevo le scarpe, la camicia, il maglione, le mutande, completamente fradici, una signora mi vide salire per le scale di un palazzo ed ebbe pietà di me. Mi fece accomodare in casa sua e levati di dosso i vestiti in bagno, mi asciugai alla bene e meglio accanto al termosifone. Quando riuscii in strada tempo mezz’ora ed ero già nuovamente grondante sudore e pioggia. Mi trovavo al confine orientale della città, nella zona industriale, non vi ero mai stato prima, non si vedeva a distanza di un metro per il diluvio incessante, i fulmini e i lampi squarciavano ossessivamente la volta celeste che pareva priva di stelle in quella parte di cielo sopra la periferia di Bologna. I miei colleghi non vedendomi arrivare alla fermata per il ritorno, iniziarono a chiamarmi al telefono, rassicurai loro dicendo che avrei preso l’autobus da un’altra parte, poiché mi veniva più comodo così. In realtà non sapevo minimamente dove mi trovassi, ma l’ultima cosa che volevo era il loro aiuto, vagai per circa un’ora sotto i colpi incessanti di Giove, la cartina era inutilizzabile da tempo, la carta si era praticamente sciolta dentro le mie tasche. Era il 2007, non avevo uno smartphone, niente googlemap, niente whatsapp, niente internet, e forse, era meglio così. Sbucai finalmente sulla strada principale dove passava l’autobus che riportava verso il centro, mi avvicinai ad una fermata controllai gli orari ed ovviamente l’unico mezzo disponibile che mi avrebbe potuto riportare a casa era appena passato, ultima corsa. Camminai e camminai non so per quanto. Erano le undici quando arrivai a casa, la maglietta si era praticamente fusa con la mia pelle, ad ogni passo le scarpe lasciavano una chiazza maleodorante sul pavimento. Prima di svenire sul letto sperai di prendere una febbre che mi uccidesse nel torpido calore del sonno. Invece inesorabile, la sveglia suonò come ogni mattina.
Gli ultimi tempi tuttavia iniziarono a mettermi in squadra con mastini che non mi perdevano mai di vista. Non ci fermavamo mai: otto, nove, dieci ore continue, senza rifiatare, senza bere un sorso d’acqua. Ero Gordon Pym chiuso dentro la stiva di una nave, Ugolino incatenato nella Torre della fame. Le braccia rinsecchirono, la leggera pancia spavalda gonfia di birra scomparve. Sotto pupille pigre le occhiaie coloravano un viso smunto degno di Munch, e le labbra un tempo bagnate da distillati d’orzo durante notti infinite erano ora ispide e frastagliate, erose dal freddo delle mattine ventose di aprili troppo rigidi anche per i pescatori di Dolin, sotto i faraglioni di Moher, a picco sull’oceano Atlantico. Venivano richiesti tre contratti al giorno, io riuscivo a racimolarne a stento tre a settimana.
Allo scoccare del sesto mese, una mattina di lunedì, il gramo principale in doppiopetto che aveva sulla scrivania la foto del capo mondiale della società di business a cui era affiliato, mi chiamò nel suo ufficio. Disse che era costretto a licenziarmi, non tanto a causa del mio scarso rendimento, quanto a causa della mancanza di entusiasmo, sia verso gli obiettivi, sia verso il comune lavoro con i colleghi. Presi l’assegno già compilato ed andai via. Nella stanza più grande, come di consueto, i miei ex colleghi erano in riunione, entusiasti di incominciare un’altra settimana. Con grande astuzia riuscii a guadagnare l’uscita senza destare sospetto. Non avevo alcuna intenzione di salutarli.
Scesi le scale avidamente, non aspettai l’ascensore, fuori i raggi del sole appena accennati bagnavano il traffico di metà mattinata, i vecchi dentro il bar non si curavano che del loro ultimo bicchiere di bianco e di un altro misero due di briscola, mi allontanai più velocemente possibile dalla via dell’ufficio, in direzione del mio quartiere, dietro la stazione. Ad ogni passo verso casa cresceva dentro me una sensazione d’impotenza e futilità che permeava ogni mio respiro: era la malinconia della vita, la frustrazione per ogni scelta ed evento che ricadeva sulle nostre teste senza che noi ne fossimo direttamente responsabili. Oltrepassai la stazione, mi ritrovai immerso tra le case di quei rioni popolate perlopiù da immigrati, poveracci, pazzi, spacciatori, sottoproletari. Era la gente da cui provenivo, mi ricordava la faccia della realtà che la società sovente cercava di mascherare con le storie di brillanti imprenditori che si erano fatti da soli, o di calciatori così magnanimi da dare in beneficenza migliaia di euro per i profughi del Darfur. A nessuno faceva piacere vedere il volto fallimentare di questo sistema. Dietro i telefoni con schermi da 5 pollici, dietro le agenzie di viaggi con foto di paradisi eterei, vi era uno stuolo sotterraneo di reietti ed emarginati che faceva di tutto per non essere definitivamente vinto. Avevano due o tre lavori, la mattina guardie o hostess in zona fiera, la sera camerieri e cameriere in ristoranti bio da novanta euro a piatto. I giorni di ferie non esistevano, la malattia non veniva retribuita, se mollavano c’era qualcun altro pronto a prendere il loro posto in un batter d’occhio.
Prima di rientrare a casa mi fermai in un supermercato, presi quindi una bottiglia di bianco frizzante e una confezione da sei di birre, sfogliai il volantino delle promozioni. Bistecche in offerta. Le ossa di Shakespeare miste a frattaglie di pollo date in pasto a grosse vacche americane. Mi recai alla cassa e pagai. Mentre attraversavo la strada, fuori dal supermercato, vidi un ragazzo della mia età in giacca e cravatta che parlava a voce alta in modo che gli altri attorno a lui potessero sentire la conversazione. Elencava numeri, cifre, tre, quattro, cinque mila euro, NOI era il soggetto predominante di tutte le affermazioni più audaci. La nostra azienda, il nostro profitto, le nostre prerogative. Ai piedi aveva scarpe da trenta euro comprate al mercato della piazzola il sabato pomeriggio…
Per quanto dovrà continuare ancora? Ad uno ad uno i passi si spengono nel vuoto finché non si sente più nulla, nero chiaro in tutto l’universo, la poesia parlerà della morte finché la morte stessa diverrà poesia, la forma e il contenuto si allineeranno come gli astri sulla volta celeste ed ogni profumo, suono, colore, cesserà definitivamente di esistere. La lingua decadrà fino al punto zero della sua evanescenza, un brusio assiduo scioglierà la sintassi, le chiacchiere degli sconosciuti rimpiazzeranno Seneca. La parola finalmente raggiungerà il silenzio. Su di una traiettoria perfettamente circolare il punto di partenza coinciderà con la fine, il moto con la quiete, l’essere con il non essere, e di tutte queste pagine scritte per non dover accettare il suicidio costante dei nostri giorni non rimarrà che un sassolino immobile, in mezzo alla steppa più deserta.
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