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Punx against Covid-19: intervista ad un’infermiera e ad un autista soccorritore

Due punx bolognesi impegnati nell’emergenza Covid-19 come infermiera e come autista soccorritore ci raccontano la loro esperienza di questo periodo

Radio Punk: Tg e media non si sono mai occupati di far sentire la vostra voce, ma sempre è solo quella di scienziati, esperti, politici. Per cui, voi che lavorate sul campo. Come state, come vi sentite in questo momento?

P (infermiera): Nelle ultime settimane ho sentito parlare di più servizi, tra cui uno andato in onda sulla RAI dove hanno intervistato alcuni colleghi infermieri del mio reparto, anche se l’idea di fondo è sempre e comunque quella di far passare la corrente di pensiero della politica del momento. Detesto con tutta me stessa questo nuovo epiteto di eroi affibbiatoci dalla classe politica dirigente del Paese che fino al mese prima pretendeva prestazioni inumane ai singoli professionisti, costretti a mole di lavoro eccessiva, ore di lavoro straordinarie all’ ordine del giorno, e ferie e permessi negati.

S (soccorritore): Bè dal punto di vista scientifico ovviamente noi non possiamo dire più di tanto, ci limitiamo a seguire delle linee guida che spesso cambiano da un giorno all’altro. La cosa che ci fa risentire è l’attenzione mediatica rivolta quasi esclusivamente a medici ed infermieri, spesso dipinti come gli UNICI eroi di questa emergenza. Il problema è che non abbiamo alcun titolo di studio in materia e la nostra categoria lavorativa in Italia non esiste.

La differenza sta nel fatto che noi andiamo nelle case dei pazienti e spesso non sappiamo cosa ci aspetta (discorso che non si limita solo all’epidemia attuale). Le informazioni che abbiamo sono quelle fornite dall’utente all’operatore di centrale del 118 ma, essendo questo un virus nuovo, spesso alcuni dettagli vengono tralasciati e può capitare di venire a contatto con un paziente positivo o sospetto tale senza indossare i dovuti DPI (dispositivi di protezione individuale) infatti anche tra di noi c’è stato chi ha pagato con la vita. 

RP: Capivate ciò che stava succedendo all’inizio? Arrivavano informazioni chiare per lavorare e affrontare l’emergenza oppure siete stati letteralmente lasciati allo sbaraglio?

P (infermiera): Da parte della direzione sanitaria dell’azienda per cui lavoro abbiamo dovuto aspettare giorni, dallo scoppiare dei primi casi in territorio nazionale, prima di avere le prime disposizioni da attuare. Non voglio e non mi interessa entrare nel merito di queste disposizioni, non essendo in grado nè avendo gli strumenti adeguati a giudicarne l’efficacia. Una cosa certa, emersa in questa particolare circostanza, è come i continui tagli economici al settore sanità hanno portato vicino al collasso immediato una struttura già di per se traballante. Non è argomento nuova la “fame di letti” nelle strutture ospedaliere, la mancanza di personale, di presidi e percorsi adeguati all’attuazione corretta delle procedure diagnostico-terapeutiche che un cittadino si aspetta dal proprio servizio sanitario nazionale. 

Ovviamente non mi sento cittadina di niente, non mi sento parte di una nazione, non sono concetti che appartengono al mio modo di pensare, non vivo per lavorare, ma come la maggior parte delle persone lavoro per vivere, e lavoro nel servizio sanitario. 

S (soccorritore): Direi di no, ma credo come tutti. Sicuramente il problema è stato sottovalutato, all’inizio le informazioni erano poche. le prime direttive ci sono state comunicate con l’arrivo dei primi casi in Italia ma, essendo un virus sconosciuto era tutto in evoluzione. Capitava anche che le misure da adottare cambiassero di giorno in giorno.

RP: Avete avuto i corretti dpi: nel senso, avete lavorato in sicurezza?

P (infermiera): Non ho mai lavorato a contatto con pazienti covid, quindi da disposizione aziendale per prevenzioni di nuovi possibili contatti abbiamo le mascherine chirurgiche da far indossare anche ai pazienti, per tutta la durata della terapia. Fino a fine marzo lavoravo in un day hospital dove somministravamo chemioterapie, poi sono stata spostata in un altro reparto. Prima che succedesse tutto questo casino in day hospital avevamo sempre le mascherine FFP3 con la valvola, per proteggerci durante la somministrazione degli antiblastici, se ben ricordo già da metà o fine febbraio abbiamo iniziato ad esserne sprovvisti. Non è una novità come la salute del lavoratore e del paziente passi in secondo o terzo piano rispetto al profitto economico.

S (soccorritore): Di base in tutte le ambulanze abbiamo ogni tipo di DPI per ogni membro dell’equipaggio e con l’arrivo dell’epidemia si è reso necessario avere anche quattro/cinque ricambi per ogni turno. C’è stato un momento in cui l’AUSL ha faticato a soddisfare le richieste di tutte le associazioni con cui lavora in convenzione, ma fortunatamente la fondazione per cui lavoro ha fatto un investimento per poterci fornire tutto il necessario. Il problema è la gestione dei DPI in quanto sono praticamente centellinati. Ad esempio, in caso di paziente camminante si tende a fare indossare il kit solo al soccorritore, lasciando l’autista a distanza di sicurezza, per non sprecarne uno.

RP: Come l’avete vissuta questa situazione? c’era carenza di personale? 

P (infermiera): Positivizzandosi via via sempre più operatori, si è arrivati ad una sensibile riduzione del personale. Questo partendo da numeri già sotto il minimo sindacale per le prestazioni da garantire. Già verso metà marzo sono usciti dei bandi di assunzione diretta ma comunque a tempo determinato volti ai precari del settore. Personalmente ne ho subito usufruito, essendomi stato proposto un contratto lavorativo con quelle due tutele in più (ferie e malattie pagate, niente di rivoluzionario) ma mi chiedo se dovevamo veramente arrivare ad avere gli ospedali di botto pieni di pazienti per renderci conto che non c’è sufficiente personale sanitario. 

S (soccorritore): Con la diffusione dell’emergenza l’AUSL ci ha richiesto un maggiore intervento di mezzi da dedicare esclusivamente al trasporto di pazienti positivi e di conseguenza la nostra azienda ha dovuto ampliare l’organico. All’inizio la cosa più faticosa è stata disinfestare l’ambulanza dopo ogni trasporto di paziente positivo o sospetto (anche quattro/cinque volte durante un turno di lavoro!). Per fortuna, successivamente, è stato istituito un servizio esterno dedicato esclusivamente alla sanificazione delle ambulanze e questa cosa ha fatto in modo che il servizio potesse essere svolto in maniera più rapida, o che potessimo addirittura andare in bagno…

RP: La situazione vi sembrava sotto controllo? Come l’ avete fronteggiata? Avete avuto paura? Vi siete confrontati con i vostri colleghi?

P (infermiera): Conosco solo la situazione dell’azienda dove lavoro, e sì, mi è sembrato che la risposta fosse adeguata al problema, o almeno ci provasse. Per quanto mi riguarda non ho avuto paura di contrarre il virus, ma di poterlo trasmettere ai pazienti immunodepressi per i quali sarebbe potuto essere letale. 

S (soccorritore): All’inizio no, purtroppo essendo un virus nuovo non avevamo tante informazioni. Più le cose sono state ben definite, più è diventato tutto più “semplice”. Dai colleghi ho sentito le cose più disparate, ma direi che la cosa che ci ha accomunati tutti è stato il rischio di poter contagiare le persone che abbiamo a casa… ad esempio so di colleghi che non vedono i figli dall’inizio dell’epidemia.

RP: Che percezione c’era fra medici/infermieri/operatori del problema? Siete riusciti a fare squadra?

P (infermiera): Come in tutti gli ambienti lavorativi caratterizzati da una struttura fortemente gerarchica il fare squadra è un concetto relativo. Non che in questa situazione ce ne fosse bisogno più di quanto ce ne sia nella quotidianità lavorativa. Le percezioni sono state secondo me molteplici, dal farsi prendere dal panico cercando ogni stratagemma per tenere questi temutissimi covid fuori dal proprio reparto, ma anche al fare squadra tra colleghi e alternarsi nei turni nei reparti covid per far respirare tutti.

S (soccorritore): Il rapporto tra noi soccorritori ed infermieri di pronto soccorso è rimasto pressoché invariato. Il tutto si limita al passaggio di consegne quando porti il paziente in pronto soccorso. Anzi, se prima magari ci poteva essere uno scambio di parole, ora, col fatto che indossiamo tute potenzialmente infette, ci ritroviamo ad essere più distaccati. Direi che abbiamo fatto più squadra con i ragazzi della sanificazione ambulanze, siamo le ultime ruote del carro e tra noi si è sviluppata una maggiore solidarietà.

RP: Questa esperienza non è ancora finita, però credete che vi abbia già lasciato qualcosa a livello personale?

P (infermiera): Forse a noi operatori sanitari questa situazione ha toccato meno che ad altri, avendo continuato la nostra quotidianità lavorativa. Sicuramente con più tensione in corpo, ma pur sempre avendo la possibilità di guadagnarsi da vivere.

S (soccorritore): Sinceramente mi ha lasciato indifferente, il lavoro che faccio ha sempre a che fare con la sofferenza e la morte delle persone. Penso di non dire nulla di originale, ma l’essere umano vuole dominare il mondo quando in realtà è dominato dalla paura. Prima era data dall’immigrato che ti ruba il lavoro o dal musulmano che vuole farti saltare in aria, adesso è il virus che può esserti trasmesso dal tuo collega, dal tuo amico, o da un tuo parente… l’importante è sempre avere qualcuno da cui diffidare.

RP: È stata gestita bene a livello locale? E a livello nazionale/mondiale?

P (infermiera): Non credo di avere gli strumenti per poter giudicare le scelte politico-sanitarie (economiche forse più che sanitarie, ma vabè) compiute in questi mesi, se non a livello di chiacchiere da bar, quindi ben venga quando saremo al bar 🙂

S (soccorritore): Per quel che ho potuto vedere negli ospedali e nelle case di cura del bolognese direi di si. Nonostante inizialmente ci siano stati parecchi errori di valutazione, ho visto interi reparti di medicina ordinaria che sono stati riciclati in reparti per pazienti Covid, oppure posti letto di terapia intensiva creati dal nulla per poter fronteggiare al meglio l’emergenza. Di sicuro c’è stata poca tempestività da parte dell’OMS a dichiarare lo stato di pandemia mondiale e di conseguenza anche a livello nazionale le decisioni sono state prese in maniera poco adeguata. Anche qui hanno dimostrato di fare le solite cose all’italiana.

RP: Cosa ne pensate del sistema sanitario nazionale e cosa dovremmo fare tutti noi per mettere in rilievo il problema dello smantellamento del sistema sanitario?

P (infermiera): Questa domanda potrebbe sviluppare un’intervista a sé, e sicuramente rivolta a esperti del settore, ruolo nel quale non mi sento in nessun modo di appartenere 🙂 Dal mio punto di vista, per quel poco che ho potuto vedere e toccare con mano sicuramente siamo in una situazione di tagli economici che ricadono direttamente sulle risorse impiegate. Risorse non necessariamente materiali o umane, ma anche relative a percorsi diagnostico terapeutici che poi nella pratica non hanno una risposta adeguata al reale bisogno della popolazione. Mi riferisco ad esempio ai percorsi di screening delle principali malattie oncologiche, ma è un discorso applicabile in molti altri ambiti.

S (soccorritore): Il SSN funziona su base regionale, quindi è impossibile creare un filo conduttore per quanto riguarda le soluzioni da proporre, sarebbe un discorso da fare a monte. Nonostante in Italia ci siano molte strutture private, la maggior parte sono accreditate e da supporto a quelle pubbliche, soprattutto per quel che riguarda la parte ambulatoriale e la lungodegenza post acuzie, mentre nel settore dell’emergenza sanitaria sono praticamente assenti. Da un certo punto di vista ci possiamo ritenere “fortunati”, perché le cure sono comunque garantite a tutta la popolazione. Il problema ovviamente è che come in tutti i settori, il business e gli interessi fanno da padrone a discapito delle vere esigenze. 

RP: Una situazione come questa vi ha sicuramente messo a dura prova. Siete contenti della scelta lavorativa che avete fatto? Come sono stati i rapporti con i pazienti, specialmente con quelli contagiati?

P (infermiera): Non ho mai avuto nessun dubbio rispetto al lavoro che ho scelto. Senza mai mettere in discussione il fatto che lavoro per vivere e non il contrario, e che il lavoro salariato in ogni sua forma sia privazione della libertà individuale, spesso con caratteristiche tendenti al ricatto (passatemi il termine), vendendo la propria vita ad un padrone che ce la paga a rate, ma del quale saremo sempre dipendenti, almeno fino a quando vogliamo sottostare a questo ricatto. Banalità a parte, sono felice del lavoro che ho scelto, non credo potrei fare niente di diverso da questo. Anche in una situazione borderline come questa non ho mai avuto nessun dubbio.

Il rapporto con i pazienti è molto diverso da prima, non ci si vede neanche in faccia. Questo implica l’instaurarsi di una distanza forzata, che è molto sofferta, soprattutto per i pazienti cronici.

S (soccorritore): Ho iniziato a fare questo lavoro per caso, ormai è l’unica cosa che so fare… ahahah! A parte gli scherzi, inizialmente è stata una necessità, ma con il tempo ho iniziato ad avere una certa soddisfazione nel sentirmi utile con chi ha bisogno. Nonostante sia molto duro e spesso rischioso dal punto di vista salutare e mentale, per adesso sono soddisfatto, in futuro chissà…

RP: Pensate ci saranno più tutele e più attenzione a voi come lavoratori e ci saranno dei miglioramenti? 

P (infermiera): Come dicevamo poco fa ne dubito con tutta me stessa. Il profitto purtroppo vale più di qualsiasi vita umana, siano essi operatori sanitari o pazienti.

S (soccorritore): E’ quello che ci auguriamo! Come dicevo prima la mia categoria lavorativa in Italia non esiste, anzi purtroppo è spesso associata al mondo del volontariato e questo secondo me è un ostacolo per arrivare al riconoscimento giuridico e professionale della figura dell’autista soccorritore. Giusto per fare un esempio il Presidente della Regione Emilia Romagna, seguito poi da altri governatori, ha stabilito che verrà concesso un bonus di circa 1000 euro agli operatori sanitari impegnati nell’emergenza Covid: medici, infermieri, Oss, tecnici di radiologia e medici di medicina generale… noi non siamo neanche considerati! L’Associazione Autisti Soccorritori Italiani ha cercato di far sentire anche la nostra voce, non solo per quanto riguarda il bonus economico, ma anche per affrontare il tema della nostra condizione lavorativa, una battaglia che va avanti da parecchi anni.

RP: Riuscite ad avere dei momenti non a tema covid? Dopo il lavoro, tra le domande degli amici (che è giusto ci siano ovviamente) e tutto, riuscite a star anche un po’ “tranquilli”? Perché è molto importante capire se la gente si rende conto di questa cosa, se pesa o se voi avete escogitato “vie di fuga”.

P (infermiera): Come per tutti i sanitari mi sono sentita fortunata ad avere la possibilità di continuare la mia quotidianità lavorativa, che però si è rivelata essere totalizzante. Lavorare molto e stare in casa il resto del tempo è sicuramente meglio che stare solo chiusi in casa, quello poco ma sicuro, ma devo ammettere che momenti non a tema covid non ce ne siano stati moltissimi. 

S (soccorritore): In questa situazione sono tra quelli che passano più tempo fuori le quattro mura e, nonostante capisca le esigenze di chi si sente limitato nella libertà, quando torno a casa trovo la mia ragazza e due quadrupedi che mi aspettano (e mi sopportano) facendomi vivere la casa come un rifugio tra l’ascolto di un disco ed una partita a Football Manager. Ovviamente mi mancano i miei amici, le riunioni di Bologna Punx ed i concerti…

RP: Come sono stati i rapporti con i pazienti, specialmente con quelli contagiati? Ci raccontate invece un episodio, un momento che vi ha dato speranza/conforto/sorriso?

P (infermiera): Al momento non me ne vengono in mente, non perché non ce ne siano stati, ma credo che la mia mente non abbia ancora elaborato la vicenda, non essendo ancora finita.

S (soccorritore): In questa situazione è più difficile stabilire un rapporto con i pazienti, spesso il servizio si svolge nel modo più veloce possibile e si respira un clima di tensione per la paura di essere infettati, oltretutto i presidi rendono più difficile la comunicazione. La speranza e qualche sorriso ci sono quando accompagniamo a casa i pazienti dopo esser stati dimessi dall’ospedale. Ci terrei a raccontare piuttosto il mio primo incontro con il covid. Durante un trasferimento, la paziente ha tossito a malapena due volte e subito ho pensato che tutta questa storia fosse un’esagerazione dei mass media… Il secondo paziente l’ho trasportato d’urgenza dal reparto di malattie infettive alla terapia intensiva, dov’è stato intubato immediatamente. Senza neanche il tempo di toglierci la tuta ci hanno assegnato la rimozione di una salma sempre dalle malattie infettive. Fuori dalla stanza l’infermiera ci disse che aveva comunicato alla compagna di degenza che la paziente sarebbe stata trasferita in un altro reparto, così io e la mia collega abbiamo dovuto fingere il solito approccio che abbiamo abitualmente con i pazienti, ma questa rivolgendoci ad una persona deceduta da qualche ora rinchiusa in un sacco di plastica. Durante il servizio successivo incrocio l’equipaggio di un’ambulanza proveniente da Piacenza che con un paziente intubato mi chiedeva le indicazioni per la terapia intensiva… Per la prima volta, in quasi dieci anni d’ambulanza, ho provato un forte senso di inquietudine.