Television: Marque Moon – Non essere così felice, non essere così triste
Marco Pandin ci racconta della sua scoperta dei Television
A sedici anni ero innamorato di Fernanda Pivano e a diciotto di Patti Smith: la prima mi ha aperto la porta al mondo, la seconda è stata la sorella maggiore ribelle scappata di casa che tornava di nascosto di notte a raccontarmi segreti. Avevo incontrato in radio e in libreria alcuni anarchici più vecchi di me con i quali mi piaceva parlare e che mi piaceva restare ad ascoltare. A neanche vent’anni avevo già preso un paio di decisioni radicali a proposito di pacifismo e antimilitarismo che mi avrebbero poi reso parecchio complicata la vita.
Quando è venuto fuori il punk e se n’è cominciato a parlare ero confuso. Appena usciti avevo acquistato ed ascoltavo spesso e volentieri i primi due album di Patti Smith traendone grande gioia e numerosi pieni di benzina per i miei sogni. A quanto leggevo in giro Patti Smith era considerata una poetessa ed un’artista punk, ma secondo me era punk in maniera stellarmente diversa da quel punk che i miei compagni più vecchi in radio descrivevano come animoso, inutile e violento, un fenomeno da baraccone, robaccia che doveva restare fuori dalle trasmissioni. La loro era pressapòco la stessa lettura che veniva offerta dalla stampa anarchica – se andate a giocherellare con l’archivio online potete scoprire che sulla A/Rivista Anarchica la prima volta che è stato scritto qualcosa a proposito del punk è stato nell’ottobre 1977 in questi termini:
“…Un fenomeno marcatamente esibizionista e consumistico. (…) Incontrarli per la strada vestiti alla loro maniera e decorati con spilloni, vederli impegnati in furibonde risse con i teddy-boys o con la polizia, notarne la presenza insomma è cosa facilissima anche nelle strade del centro di Londra. Ecco perché i giornalisti si sentono in obbligo di parlarne: ciò che è veramente aberrante è il fatto che ai punks venga attribuita una caratterizzazione o un significato rivoluzionario. [Su] La Repubblica del 14 ottobre un articolo presenta i punks di Milano (che vestono da Fiorucci) come una pallida copia di quelli londinesi, li si definisce qualunquisti quasi che i loro colleghi di Londra non lo fossero. [Il punk è] un fenomeno spettacolare, ma sostanzialmente insignificante…”.
Questo articolo della A/Rivista anarchica è uscito nello stesso periodo in cui ho preso “Marquee moon” – avevo compiuto da poco vent’anni. Dei Television era arrivato in radio chissà come qualche tempo prima un settepollici senza copertina e con mezza canzone per facciata. Un pezzo cubista e singolare che la stragrande parte dei miei compagni di trasmissioni riteneva inutile e/o banale e non inseriva mai nei programmi preferendogli certo rock-con-le-palle, i cantautori da raduno in piazza o le ultime briciole del prog. Siccome a me quel disco piaceva ma pareva lo schifassero tutti un giorno gliel’ho fregato, tanto chi vuoi che se ne accorga e chissenefrega se c’è il timbro della radio sull’etichetta. Appena qualche tempo prima in radio c’era stata una scenata indimenticabile – quelli della redazione se l’erano presa in maniera davvero esagerata con un ragazzino che aveva osato trasmettere un paio di pezzi di Clash e Sex Pistols. Il punk era robaccia fascista adatta alle fogne e alle discariche, tuonavano, non alle onde rosse di una radio libera come la nostra. Come la loro, mi sono detto tra me e me.
Oh, il piccolo Johnny Jewel è così figo
Se quando lo vedi ti sembra perso
Non dovresti fare il prepotente
Sai che ha pagato
Ha pagato tutto e ha pagato caro
Tutto quello che puoi fare per quel ragazzo
E’ un cenno d’intesa.
Il testo era quello che era, nel senso che mi sfuggiva del tutto dove i Television volessero andare a parare – un po’ come “Walk on the wild side” di Lou Reed, una canzone che si ascoltava abitualmente e ovunque ma il cui testo criptico riuscivano a comprenderlo solo gli iniziati. Invece, a me piaceva parecchio il lavoro di questo chitarrista misterioso, che intesseva nella seconda parte della canzone come una tela di ragno esile sì ma vischiosa al punto che ci rimanevo intrappolato dentro ogni volta. Lo so, era un disco del cazzo ma a me piaceva. Me lo ascoltavo spesso, e fantasticavo sopra alla musica. Finiva, giravo il disco e lo rimettevo su. “Little Johnny Jewel” oltre che senza copertina era senza neanche un foglietto con due righe di presentazione o altre indicazioni utili: le uniche informazioni sull’etichetta oltre al nome del gruppo erano un “Part one” e un “Part two” e un (Verlaine) scritto così fra parentesi. Dei Television avevo letto di sfroso su NME o su Sounds che erano un gruppo punk e che suonavano frequentemente al CBGB’s di New York. A me però quello che veniva fuori dal disco sembrava tutt’altro che punk, nel senso che invece che sputi sonori urgenti di uno/due minuti (Verlaine) e gli altri avevano scelto per il loro singolo d’esordio un pezzo che durava così tanto da doverlo spezzare in due. Ve l’avevo detto che ero confuso.
Un giorno nel negozio di dischi in campo san Barnaba espongono in vetrina il primo album dei Television appena uscito: copertina nera d’ordinanza, sopra c’è una fotografia di quattro messi male che mi guardano fissi, e uno di questi sembra mi voglia offrire qualche cosa – non so se un plettro, una monetina, una lametta, un tiro di canna. Il tipo del negozio come al solito la sa lunga: mi spiega che “è musica punk tipo Patti Smith” (avevo già preso da lui “Radio Ethiopia” e “Horses”), e in cambio di “Marquee moon” gli do tutti i soldi che ho in tasca. Mentre sto pagando mi dice anche che quelle dentro al disco sono registrazioni nuove fatte apposta, non le sessions cui aveva lavorato Brian Eno fatte al tempo di “Little Johnny Jewel” – gliel’aveva assicurato il grossista di Monaco da cui aveva appena fatto rifornimento. Arrivo a piazzale Roma con questi discorsi fumosi che mi si agitano dentro in testa e salto sul primo autobus verso casa. Durante il viaggio mi giro e rigiro tra le mani la copertina del disco e vado avanti a fantasticare davanti a quella foto scura col bordo nero intorno. Strappo il cellophan: nella busta interna c’è una foto di loro che suonano, i due chitarristi seduti che si guardano e si scambiano messaggi telepatici. Dietro hanno riportato i testi, mi colpisce e mi piace quell’immagine di (Verlaine) teneramente abbracciato alla Venere di Milo, proprio la donna le cui braccia non sono mai state ritrovate. Chissà come sarà la musica dentro il vinile. Appena arrivo a casa mi fiondo a metterlo sul giradischi e tempo quaranta minuti otto canzoni capisco meglio quelle cose quelle facce quei discorsi e gli altri suoni che stavano anche intorno a “Little Johnny Jewel”. (Verlaine) per me diventa definitivamente Tom Verlaine. Non era un plettro, né una monetina, né una lametta, né un tiro di canna: in copertina c’è lui che mi offre una chiave. La sua chitarra suona come se dal manico le spuntassero ramificazioni, come se ciascuna singola nota gli uscisse dalle dita e attraverso l’amplificatore cercasse da sola la sua strada verso il cielo.
Mi ricordo come l’oscurità si era fatta più scura
Mi ricordo che il fulmine era caduto su se stesso
Ascoltavo, ascoltavo la pioggia
Ma sentivo, sentivo qualcos’altro
La vita dentro all’alveare ha increspato la mia notte
Il bacio della morte, l’abbraccio della vita
Resto sotto la luna del tendone
Sto solo aspettando
Ho parlato con un uomo vicino ai binari
E gli ho chiesto come fosse riuscito a non impazzire
Mi ha detto: “Guarda ragazzo, non essere così felice
e per l’amor del cielo, non essere così triste”
Una Cadillac è uscita dal cimitero
Hanno accostato, e tutti quelli dentro a dirmi
“Sali” (Sali)
Poi la Cadillac è rientrata nel cimitero
e io sono uscito di nuovo.
La vita dentro all’alveare ha increspato la mia notte
Il bacio della morte, l’abbraccio della vita
Resto qui sotto la luna del tendone
Non aspetto più, no.
Ho letto da qualche parte che “Marquee moon” è una luna di cartone tipo quelle del circo. Ho letto anche che è la luna che si muove lenta nel cielo durante il blackout di New York – ma si sa, in questi quaranta e passa anni c’è stato tempo per rifletterci sopra e in rete ognuno può scrivere quello che vuole. Ho invece la sensazione forte che la luna dei Television possa abbracciare significati più ampi: penso che la canzone racconti dello smarrimento di quei tempi quando tutto intorno era tristezza ma, se ti mettevi a credere alla pubblicità, sembrava davvero che il futuro si potesse toccare con le dita. Sembrava non cercassero visibilità, Tom Verlaine e compagni erano uno dei gruppi più recalcitranti all’entrare nella scena: più che canzoni progettate per essere trasmesse alla radio componevano pezzi lunghi una decina di minuti, ciascuno una specie di sinfonia rock dalla struttura molto esile, delicata, trasparente. Erano l’equivalente della filigrana, della cartavelina, di certi ricami sottili. Erano vapore, erano brina, altro che quel punk che arrivava dall’Inghilterra, così sporco, frettoloso e puzzolente. Allora le classifiche di vendita americane erano abitate da robaccia ballabile e dal rock per adulti: Fleetwood Mac, Eagles, Foghat, Boston, Peter Frampton, America, Elton John. I Jefferson Starship, il relitto di un gruppo rock storico, avevano attirato oltre cinquantamila persone al loro concerto newyorchese – forse sono loro dentro a quella macchina di lusso che entra ed esce dal cimitero, la Cadillac in cui Tom Verlaine non vuole salire. Mi fa riflettere quel sentirsi stretti (la vita negli alveari dice lui, nei palazzoni enormi di New York) dentro al buio di allora, e l’attesa inerte che la notte finisca – difficile non immedesimarsi. Quante volte ho ascoltato “Marquee moon”. Ogni volta sembrava che quella voce e quella musica si appoggiassero come piccolissime gocce d’umidità al soffitto e alle pareti della mia stanza. Nei miei sogni ero al CBGB’s, Tom Verlaine e i Television sul palco, una manciata di ragazzini che si agitano attorno a Patti Smith, in piedi nella calca c’è Allen Ginsberg immobile come se pregasse con gli occhi chiusi e io appena dietro, così vicino da potergli sfiorare le ali.
Articolo di Marco Pandin, stella_nera@tin.it
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