WHISKY & PROUST – Un racconto di vita precaria
“WHISKY & PROUST” il racconto di vita quotidiana e oppressione del lavoro a cura di Davide degli Zeman
Arrivato terzo al concorso nazionale letterario Bukowski, questo racconto autobiografico parla dell’oppressione del lavoro e di semplici momenti della vita quotidiana tratti dal periodo in cui l’autore faceva molti lavori saltuari con contratti di breve durata. Questo racconto si inserisce in un progetto più ampio di scrittura di un romanzo, in parte autobiografico, basato sempre sulle vicende di una vita alle prese con le ristrettezze del lavoro salariato e del conformismo della società attuale.
Avevo da poco finito un altro lavoro, il contratto era scaduto e per fortuna non l’avevano rinnovato. Erano giorni che non facevo nulla se non leggere Proust bere whisky e svegliarmi alle quattro del pomeriggio, ma Proust era duro da mandar giù, peggio del whisky, avevo bisogno di qualcosa che potesse salvarmi la vita, così, decisi di rimettermi a scrivere. Negli ultimi anni di lavoro non avevo buttato giù una sola pagina, non si può giocare alla roulette come Aleksej Ivanovic senza Polina, così come non si può stare in piedi bendato di fronte al plotone d’esecuzione senza che arrivi l’ordine del generale, non sono mica Dostoevskij: uscivo la mattina alle sette e tornavo la sera alle otto, mangiavo un panino guidando da una città all’altra, lavoravo nella grande distribuzione organizzata, montavo espositori, allestivo scaffali, facevo fare un sacco di soldi a qualcun’altro. Sulla via di ritorno per casa sognavo di Long Island trasparenti dentro porte girevoli degli anni trenta serviti da baristi neri pronti a pulire con un panno scamosciato il bancone umido del bar, e ragazze attente ad incrociare il mio sguardo solo per farsi offrire degli anonimi Cosmopolitan. Io, tuttavia, non avevo neanche mezzora libera per bere una birra chiara da 33 sulla panchina del parco. Alla sera, provato dalle ore passate a caricare lattine nei supermercati, leggevo Foscolo e desideravo anche io la mia Teresa, volevo farla finita con un pugnale nel cuore per smettere di piangere le nostre sciagure e la nostra infamia, però non mi andava di essere disgiunto nel nulla, nell’incomprensibile eternità.
Rimettersi a scrivere quindi, ma rimettersi a scrivere cosa? Dopo che mi ebbero in sostanza licenziato mi ritrovai con un bel po’ di tempo libero, come non mi capitava da tempo. Pensai. Riflettei. Rilessi quello che avevo scritto negli anni passati, perlopiù sonetti o poesie di nessuna importanza. Avevo bisogno di altro. Il whisky e gli scrittori francesi facevano la loro parte. Ma non mi bastava. Dovevo dare forma a quell’angoscia che mi assaliva ogni domenica sera, od ogni lunedì mattina, al suono della prima sveglia. Avevo bisogno di pagine pesanti come macigni, di storie, di racconti, di prigioni ed evasioni della vita quotidiana. Decisi allora, prima di essere definitivamente risucchiato dalla Recherche e dal tempo perso, che avrei scritto un grande libro contro il lavoro. Quello onesto. Quello rispettabile. Quello che nobilita l’uomo e che fa metter su famiglia, mentre i sogni di gioventù vanno a farsi fottere nelle file ai distributori automatici. Arbeit macht frei recitava la scritta sulle nostre teste, eppure nessuno sembrava farci caso. Guardavano dritto. Al fine settimana sul divano, alla spesa nel centro commerciale, ad acquisti online del tutto inutili. Il lavoro consiste in qualsiasi cosa il corpo sia obbligato a fare. Avrei scritto per quelli che si svegliavano alle sei per guidare due ore nel traffico prima di arrivare in ufficio, in un magazzino o in una squallida caffetteria gestita da cinesi svogliate che scorrevano la home del telefono con unghie finte di zecca. L’avrei fatto per quelli che avevano troppa paura di perdere un impiego che non volevano, per quelli che odiavano la vita loro e degli altri, per gli scappati di casa, per i reietti, per gli alcolizzati, per quelli con i carichi pendenti in cerca di un’occupazione che non fosse ammazzarsi, o fingere di farlo, mentre compravano malinconici liquori in buste di cartone da discount semivuoti.
Avrei scritto per non dover più ricevere ordini da giacche e cravatte con occhi, orecchie, nasi, bocche, totalmente ripugnanti. Mi sarebbe bastato il giusto per non morire di fame, un biscotto al giorno, un biscotto classico Clov per il maledetto fornicatore. La forma. Il contenuto. Nessuno dei due. O entrambi. Joyce, Beckett, Leopardi, Maradona, Dante. Avrei mentito e avrei riso alle loro battute solo per pagarmi l’affitto, avrei scritto un’opera teatrale che non avrebbe capito nessuno e novant’anni dopo, se fosse sopravvissuta, sarebbe stata inserita in un qualche manuale fotocopiato per aspiranti drammaturghi da quattro soldi. Sarei vissuto in piccole camere ammobiliate in cima alle scale, come Arturo Bandini, orgoglio d’Italia e d’America, e a sessant’anni suonati, se non fossi morto di ulcera perforante, sarebbero venuti da me impavidi studenti mantenuti da impiegate oneste a farmi domande per le loro tesi. Avrei giocato contro il sistema e avrei vinto. Con il sei per cento di possibilità, con una quota da venti a uno, con un risultato esatto di quattro a quattro, avrei vinto io.
Per scrivere ci vuole vita. E la vita si sa, si trova nel mondo. E il mio mondo in quel periodo era il giro dei bar notturni del centro. Per fortuna avevo scoperto un bar a 500 metri da casa che stava aperto dalla sera alla mattina, e dalla mattina alla sera, senza chiudere mai. Si trovava nella parte occidentale della città, quella da cui si può vedere San Luca da vicino, tra la fine del Pratello e via Andrea Costa, appena prima dei viali. Finivo lì le mie serate, o le iniziavo, dipendeva dall’ora, e quella che sto per raccontare, era una serata che stava decisamente per finire. Il sole appena desto iniziava a stagliarsi nel cielo in quell’effimero scorcio di martedì mattina, ricordo l’odore della pioggia di novembre entrare sibillino dalla porta socchiusa, il vuoto familiare avvolgere ogni angolo del locale ed una placida sensazione di solitudine, come se tutt’intorno il mondo si fosse girato dall’altra parte, lasciandomi finalmente in pace con l’universo. Ero rimasto solo, non ne avevo mai abbastanza, dovevo rimanere fino all’ultimo per bere l’ultimo bicchiere, come Giulio Cesare che non può fermarsi prima del Rubicone, come Ulisse che non può rimanere a casa nel caldo letto di Penelope, ma deve prendere il mare e spingersi oltre le colonne d’Ercole per morire a un passo dal Purgatorio, fatti non foste a viver come?
I compagni miei erano andati via da un pezzo, rimanevamo io, il barista, e la grossa proprietaria che dormiva in una stanzetta nel retrobottega. Fuori le macchine iniziavano il loro frastuono quotidiano, gli operai spegnevano le proprie sveglie per sognare altri cinque minuti di sonno in posti lontani, lontano dalle mogli che non amavano, che non scopavano, con cui non parlavano se non per lamentarsi del tempo o delle bollette da pagare. La vita sa essere profondamente ingiusta, satura di gesti insignificanti come allacciarsi le scarpe e lavarsi i denti, fare la fila alla cassa, stare otto ore al torchio delle macchine e guidare verso casa passando dalla seconda alla terza, dalla terza alla seconda, e poi di nuovo alla prima. Facce uguali al retro di una scatola di fiammiferi si stagliavano dietro finestrini appannati, pance flaccide con diritto di voto e parola imbevute di sadismo e social network, senza musica, senza arte, senza preludi, davano in pegno la propria libertà per le rate di una casa a due piani o per un giradischi ad alta fedeltà. Non c’era traccia di umanità in quei disperati che espiavano la colpa originaria in azioni frenetiche e statiche su di cui non avevano più nessun controllo. La speranza come il desiderio erano spenti. I giorni le ore i mattini le feste che li separavano dalla sera, dalla pensione, dalla bara, erano ormai colmi di amaro e noia, sembrava che per loro il fato non avesse riservato che la morte, o stanche domeniche in turbe di negozi sportivi. Quei cari inganni. Il mondo era il
fango su cui strisciavano dalla culla alla tomba. Infinito, vano, tutto. Erano davvero sicuri di decidere loro dove andare e dove fermarsi? Dove pisciare, cosa mangiare, con chi parlare e su cosa masturbarsi?
Io lo sapevo. O almeno ne ero convinto.
E per questo stavo in quel bar dove non c’era nessuno, dove nessuno si sarebbe sognato d’entrare alle sei di martedì mattina per sedere al bacone e ordinare una birra alla spina. Percepivo un assegno di disoccupazione da 800 euro al mese, avevo compilato tutte le pratiche possibili del centro dell’impiego per risultare disponibile a qualsiasi offerta,
così da non avere problemi con i pagamenti. In realtà, non cercavo alcun tipo di lavoro. Mi facevo bastare quello che mi passava lo stato per l’affitto le spese ed il bere. Non potevo permettermi nient’altro. Il futuro non esisteva. Quello di cui m’importava era stare tutto il giorno su di uno sgabello con i gomiti appoggiati al bancone e trovare un pretesto per prendere a schiaffi qualcuno. A volte si vince. A volte si perde. L’importante è stare sopra il 50 per cento. I bar, come la fortuna, vanno a periodi, e quello era il periodo del bar di Porta Sant’Isaia aperto tutta la notte. 24 ore non stop. Gestito da una rumena cintura nera di full-contact, e da un barista con problemi di insonnia a cui avevano diagnosticato per sbaglio un tumore al cervello dandogli tre mesi di vita. Raccontava sempre la stessa storia, di come il cancro lo avesse riavvicinato al padre che viveva in America, della causa milionaria intentata contro l’ospedale, degli ultimi desideri di un uomo che muore solo. Ogni volta ascoltavo interessato ogni racconto, sperando in un rabbocco omaggio del bicchiere o in una porzione extra di salatini. In media ogni due giorni arrivava la polizia per dei marocchini che brandivano cocci di bottiglia cercando di accaparrarsi i soldi che sputavano fuori le macchinette, con precisione svizzera si dileguavano tutti un attimo prima che piombassero le guardie, io rimanevo impassibile come Epicuro, immune da ira e benevolenza, pronto a ritornare a bere come se nulla fosse accaduto. Da un giorno all’altro il bar chiuse ed io non rividi più né la padrona né il barista. Ora in Porta Sant’Isaia al posto del Jojò, così si faceva chiamare la matrona, c’è una catena di fast food che fa delle pizze americane con sopra il ketchup. Das Kapital.
Passo spesso di fronte a quel posto. Ripenso a quelle notti senza termine e senza meta, e soprattutto, ripenso a quel martedì mattina. Avevo quasi finito la media che tenevo in mano, gli occhi la bocca e la faccia erano dentro la birra, il gomito faceva un angolo di quarantacinque gradi con il bancone, sul fondo riuscivo già a vedere la schiuma che si rarefaceva, come la nebbia che si schiude in pianura ai primi raggi del sole. Avevo già vissuto quella scena, un migliaio di volte forse, cercare la risposta fra i gorgoglii dell’alcol che scavano il bicchiere come il letto del Reno, ma quell’istante faceva riaffiorare dalla mente un preciso scorcio della mia vita, memento mori comandante. Non sono mai riuscito a ricordare volutamente qualcosa che fosse realmente vero nella sua pienezza. I momenti riemersi dai meandri del mio vissuto mi hanno sempre preso di soprassalto. Inaspettati e fortuiti come un profumo sentito per strada, essi sono flashback fulgidi di istantanee dell’esistenza che svelano l’essenza stessa dell’essere. Il brodo primordiale da cui affiorano i concetti, le idee, i ragionamenti, le convinzioni, amalgamati tra loro da ogni libro letto, ogni film visto, ogni melodia ascoltata e suonata, plasmati dagli sguardi, dalle battute, dalle parole dette e taciute che segnano, anno per anno, la mia e nostra estenuante farsa.
Benché vivifici sono anime sopite che sostengono l’immenso edificio della memoria, Benché innocenti sono ricordi colpevoli della gioia e del dolore, nella buona e nella cattiva sorte. Spiriti dormienti in attesa di essere risvegliati dal tatto di una roccia liscia sulla quale ci si era coricati in fanciullezza, o dallo scorrere della sabbia tra le dita come in una clessidra, che rimanda alla notte in cui per la prima volta si conobbe l’amore. Così capita di ricordare il sapore del the versato in una casa lontana nel tempo, e quello di una madeleine, quando ancora infelicità e felicità non esistevano, al riparo dalla tragedia della vita.
Trasalii quando vidi le bolle biancastre sul fondo del boccale, mi rimandavano indietro nel tempo ad una sensazione di stordimento e lucida consapevolezza che ben impressa era nella mia mente. La coscienza della futilità del divenire e di ogni momento di euforia stupefacente destinati a svanire come il sorriso che muta in sbadiglio, come un villaggio che si risveglia per lavorare dopo la sera del dì di festa, come il mal di testa, la nausea, i crampi dell’hangover, come Dante eccitato che scorge il volto illuminato di Beatrice dietro il velo sull’Eden, e finisce redarguito come un ragazzino che ha sbirciato dal buco della serratura.
Gli scaffali con le bottiglie in rovina, gli uomini alle slot-machine, il barista, le auto degli operai, Bologna stessa, scomparvero alla mia vista. Ero in Spagna, molti anni addietro, ventenne o poco meno, ricordavo il caldo, il sudore sulla pelle, i vestiti corti, le musiche scadenti come i drink annacquati, e il viaggio al termine della notte che si accingeva all’alba in una balera agghindata da discoteca traboccante di turisti, baccanali e spacciatori. Di fianco a me vi era una ragazza spagnola con cui parlavo un inglese da gita scolastica, in realtà facevo solo domande e qualche breve affermazione, non ascoltavo in nessun modo quello che diceva. Come avrei potuto. Ero già al sesto vodka-lemon, e in più tutte quelle birre e il whisky al pomeriggio bevuti con la consapevolezza di chi negli anni avvenire avrebbe dovuto gettare al vento il proprio destino. Cancellavamo secoli e secoli di filosofia occidentale con semplici parole pronunciate a stento, era la fine della res cogitans, era la morte di Cartesio, ci impiccheremo domani, a meno che Godot non venga, e se viene? Saremo salvati, allora andiamo? Andiamo, e non si muovono. Nell’aria vi era un forte effluvio dolciastro, non ricordo la sua faccia, probabilmente non la vidi neanche allora. Poco importava. Stavo per finire il drink che avevo in mano, ero in piedi, inclinai leggermente la testa all’indietro e portai il bicchiere alla bocca, feci un sorso leggero, gli occhi caddero sul fondo della vodka, le bolle gassate della limonata si dissiparono sul vetro trasparente non lasciando niente, avevo bevuto l’ultima goccia di quello che era rimasto del tempo, picchia contro il muro con la nocca di un dito, Senti? Mattoni vuoti, picchia ancora, è tutto vuoto.
Le incertezze che avevo dentro la morsa che mi opprimeva lo stomaco la mattina appena desto, e la notte poco prima di addormentarmi,svanirono come i fumi dell’alcol in quel bicchiere vitreo. Osservai uno per uno tutti gli avventori di quel posto beffardo. Intravidi i risvegli la mattina dopo, i giorni che li separavano dalla partenza, gentile concessione del loro titolare d’azienda, e poi l’addio ad un luogo che avrebbero ricordato con forza, tristezza o malinconia. E di nuovo l’incedere incerto nell’eterno meccanismo ben oliato di distruzione e consunzione di ogni uomo e donna alle prese con una casa troppo costosa, con l’ultimo del mese che non arriva mai, con gli attimi strappati alle serate finite troppo presto rincasando con l’occhio alle lancette, poiché l’indomani l’orario avrebbe recitato otto-diciassette, otto-diciotto, sei-diciannove. La mia illuminazione di Vencennes in uno stupido postribolo spagnolo, ogni epoca ha
quello che si merita. I personaggi della storia appaiono tutti due volte, una come farsa, l’altra come tragedia ha dimenticato di dire Hegel. Tutte le mie piccole passioni soffocate dalla consapevolezza dell’impossibilità. Pochi comandavano molti ubbidivano, tutti lavoravano pochi se la spassavano, con le loro case al mare, con i mercoledì mattina liberi in montagna, figli di industriali, nipoti di politici, mogli di assessori.
Mio padre ha fatto per quasi tutta la sua vita il rappresentante, usciva la mattina e tornava la sera tardi, vendeva patatine, cioccolati, bibite, sapeva di dover essere grato al padrone, poiché nella sua misericordia, Egli, aveva dato a mio padre di che vivere. Non vi era altra scelta. Anche il padrone era grato a mio padre: grazie a quelli come lui
poteva permettersi una barca da quaranta metri, una villa a Montecarlo, una a Bruxelles, una in Lussemburgo, una o più Ferrari, vacanze negli Stati Uniti, business class per tutta la famiglia. Mio padre invece era riuscito a comperare la casa in cui viveva a cinquant’anni e passa con un mutuo a tasso variabile, dopo un’intera vita di privazioni e piccole soddisfazioni, il capolavoro delle classi dominanti. Mia madre si alzava alle sei per caricare merendine su uno scaffale, veniva pagata cinque euro e diciotto centesimi l’ora con un contratto stipulato da un’agenzia interinale. Niente ferie pagate, niente malattie, niente riposi, nessuna certezza. Aveva tre figli che aveva mantenuto in un quartiere di periferia di una piccola città del nord Sardegna, dove le “prospettive di crescita”, come direbbero tutte le facce che mi hanno giudicato ai colloqui, sono il cantiere, il call center, e una vasta scelta professionale fra i reparti ortofrutticolo, fai-da-te, sport, e alimentari.
Ero un proletario.
Tutto quello che potevo fare per scappare era infilare una pallottola nel tamburo, farlo girare alla russa, puntare la canna alle tempie, premere il grilletto, e sperare che la sorte fosse dalla mia parte, almeno per una volta. Non c’era più partito che reggesse, dove erano i ribelli sopra le montagne che combattevano per noi disgraziati, e i ribelli delle città, in fuga su macchine rubate sparando all’impazzata tra la folla con la refurtiva sul sedile, dove erano gli indomiti oratori che aizzavano le masse contro gli sfruttatori, i corrotti, i responsabili del disfacimento dei giorni nostri sulle catene della fabbrica o sulle corsie di un supermercato aperto a ferragosto, dov’erano? Non c’era più nessuno, li avevano spazzati via, quelli dall’altra parte, quelli che odiavo fin da quando fui costretto ad odiare. Erano morti tutti. Ed io mi trovavo sulla loro tomba, ma non avevo fiori da porgergli.
Rimasi non so per quanto a fissare le bottiglie dei liquori impolverate sulle mensole dietro il bancone, mi interrogai a lungo, per interi giorni e notti imbecilli, sul perché avessi ricordato quella sera in Spagna mentre osservavo il fondo di un bicchiere vuoto. Forse fu proprio da quel momento che iniziai ad immaginare la mia vita come un susseguirsi di stupide mansioni a scadenze fisse, uno due tre quattro mesi di contratto, una marionetta nelle mani del caso, il buffone della sorte, triste Pierrot. Per quanto mi sarebbe stato possibile, tuttavia, avrei venduto il mio tempo gelosamente, come una escort languida, avrei cercato di dare il minino per ottenere il massimo, che per me significava dormire sotto un tetto e non morire di fame.
Aprii la porta del bar, il sole era alto in cielo, cercai di camminare verso casa seguendo una linea retta ma non ci riuscivo, ogni quattro passi sbandavo, mi appoggiavo alle macchine, sedevo sul bordo dei marciapiedi, volevo vomitare ma non ne avevo voglia. Alcune persone alla fermata dell’autobus mi osservavano, aspettavano di andare a lavorare in uno stupido negozio di biancheria intima o in una casa per anziani per asciugare la bava a qualche ricco vecchio misogino, li mandai a fare in culo. Speravo in una catastrofe naturale, o in una guerra termonucleare, così da andare a vivere sui colli in baracche di legno, senza dover più contare gli spiccioli per comprare birre da quattro gradi e nove, senza essere costretto ad arrabattarmi per non sembrare un deficiente. Vidi un pakistano alzare la serranda del suo market, capii che non sarebbe accaduto nulla, da lì fino almeno a sera. Mi diressi verso il portone di casa, sotto i portici, infilai la chiave nella toppa, entrai in camera mia, prima di dormire sputai un paio di volte a terra, sarei potuto finire come Bon Scott, ma non ero abbastanza duro. Avrei cominciato a scrivere da qui. Presi il telefono, guardai l’ora, disattivai la sveglia, dormii.
Racconto di Davide degli Zeman
REMINDER:
Radio Punk è un progetto autogestito. Puoi supportarci dando un occhio al catalogo distro con dischi, libri, spillette e altro ancora, ma puoi anche partecipare alla nostra call con un tuo contributo su qualsiasi argomento inerente al punk, alle controculture o al DIY. Seguici su Telegram per non perderti i nostri contenuti!

